BY: Irene Barbruni

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L’uomo contemporaneo si considera un soggetto libero e autodeterminato, capace di gestire la propria vita, ma quando è posto di fronte ad un evento che ne limita di fatto il raggio di libertà torna a rivivere la situazione primordiale di sentirsi in completa balia dell’evento. Nel caso per esempio di una malattia il soggetto tende a percepirsi come una cosa, che tra l’altro è malata, e si trova amputato della possibilità di divenire, quindi si percepisce come un oggetto ormai determinato. La sofferenza può condurre verso la disperazione, oppure trasformarsi in una situazione esistenziale tale per cui la personalità ne viene investita e a sua volta trasformata.

In tanti momenti della vita, la capacità di tenere e di saper sopportare la sofferenza, può decidere le sorti di una persona, addirittura della sua vita. Questa dimensione soggettiva, entro cui il dolore è percepito, è costituita dallo sviluppo e dalle dinamiche della personalità, e da fattori culturali. Il lavoro psicologico tocca proprio questo aspetto: analizzare i fattori personali e culturali che non permettono al soggetto di vivere quel dolore autenticamente per quello che è. Se a quel certo episodio, causa di tanto dolore, riusciamo a togliere gli elementi di deficienza personale e di deformazione culturale, che sono gli aculei che amplificano la percezione del dolore, il soggetto potrà entrare in rapporto dialettico con la propria sofferenza e scorgere gli elementi euristici necessari alla propria evoluzione sul piano spirituale.

Nel libro “Uno psicologo nei lager”, Victor Frankl, medico recluso ad Auschwitz, racconta la sua esperienza in quella orribile situazione. L’osservazione di ciò che egli stesso come altri internati hanno vissuto, lo hanno convinto della decisiva qualità, tipicamente umana, di saper sopportare il dolore poggiandosi su un significato profondo della situazione patita.

Non tutti i soggetti però riescono a ritornare dal “mondo degli inferi”; infatti anche se un individuo può superare un grande dolore non è detto che abbia saputo trarre da tale esperienza le indicazioni per la sua evoluzione personale. Alcune persone rimangono intrappolate in un tale vissuto di precarietà da sviluppare un’idea negativa della propria vita. Questo vissuto depressivo è ben raffigurato nel mito di Orfeo in cui egli esce dagli inferi senza la propria amata e passa la sua esistenza a piangerne la morte.

Un’altra condizione esistenziale è espressa invece nel mito di Persefone e Demetra dove si approda ad una visione della vita in cui gioie e dolore sono come tasti bianchi e meri di un pianoforte che vanno a comporre l’interezza della vita. Anche se in questo caso un vero e proprio senso del dolore non è stato rintracciato, tuttavia è sviluppata una tale capacità di accettazione della sofferenza tale da rendere meno tragica la situazione vissuta. Ulteriori approfondimenti si trovano su www.ultimabooks.it dove sono disponibili in versione e-book i libri da cui sono state tratte queste considerazioni:”La ferita in seno” e “Logos e pathos, il senso della sofferenza“.

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