BY: Renato Barbruni
La vita appesa ad un filo
di Chen Kaige
Film dalla struttura narrativa archetipica. Il linguaggio visivo del film è estremo,essenziale e quindi,in questo senso, archetipico: il fiume, la montagna, il deserto, la casa-tempio; il procedere dei personaggi come viandanti,come viaggio attraverso la propria esistenza disegnata anch’essa informa archetipica; la cecità come condizione simbolica e metaforica della problematica esistenziale e spirituale dell’uomo, e quindi la sua ricerca della capacità di vedere, una leggendaria veggenza per cogliere il vero volta del mondo.
In questo scenario e in questa trama in cui vengono colti e collocati i personaggi, si svolge il senso drammatico della vita dove il giovane e il vecchio procedono fianco a fianco sostenendosi a vicenda, e dove incontrano i loro limiti e le loro più essenziali paure, una tra le tante la paura dell’incontro col femminile. Dirà il vecchio al giovane: “non c’è da fidarsi delle donne, stanne alla larga.” Ma è nella natura della giovinezza il farsi prendere da eros dal quale si sviluppa la trama della continua ricerca di incontro.
Il vecchio, che insegue per tutta la vita il momento in cui l’ultima corda del suo liuto si spezzerà dandogli la vista, scoprirà, prima con tremenda sofferenza e delusione, – quasi un senso di tradimento -, che i suoi occhi permangono insensibili alla luce esterna, che la visione interiore della speranza, della fede e della gioia sono i suoi nuovi sensi e la sua nuova visione del mondo. Allora le sue canzoni da menestrello dello spirito echeggiano nello spazio. Mentre il giovane accetterà di affidarsi al destino procedendo sulla via già percorsa dal suo amore: il gettarsi nel vuoto come simbolo estremo dell’atto di fede al di là della concretezza della vista e del procedere sulla terra saldamente ferma, simbolo delle tradizioni e delle consuetudini.