BY: Irene Barbruni

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Premessa

Le riflessioni sul rapporto genitori e bambino, che qui vogliamo sviluppare, emergono dal concetto di principio dialogico. La parola principio è intesa come il primo evento da cui tutto si genera, mentre la parola dialogo deriva da dialogos che vuol dire discorso a due.

Psicologicamente e biologicamente tutto si fonda sul dialogo. A livello biologico un figlio ha origine dalla sintesi di dialogo biochimico tra un uomo e una donna; infatti, il discorso che si è creato tra il DNA della madre e del padre hanno dato vita al bambino. Un altro esempio di principio dialogico, nella sfera biologica, è il rapporto tra l’uccellino ed il suo ambiente quando cerca il cibo nel territorio in cui vive. Il complesso reciproco di queste relazioni struttura quello che i biologi chiamano l’eco sistema, che è un intreccio di relazioni dove alla base c’è quello che chiamiamo il principio dialogico. A livello psicologico questa realtà è ancora più evidente e visibile; ogni essere umano è in relazione fisica e psicologica con l’ambiente. In questo momento, per esempio, siamo in rapporto con la stanza che ci ospita e a livello fisico possiamo sentire freddo o caldo, mentre a livello psicologico può essere di nostro gradimento o no. Qualunque evento della nostra vita è calato in un dialogo relazionale: la psicologia si occupa delle relazioni psicologiche oltre che fisiche (che però vengono date per scontate) tra il soggetto e il suo ambiente.

Il soggetto umano vive contemporaneamente due tipi di relazione: tra se stesso e ciò che è fuori di lui e tra se stesso e se stesso. Abbiamo, quindi, due dimensioni psicologiche che vengono chiamate in psicoanalisi il conscio e l’inconscio. Noi viviamo sempre questo duplice aspetto della relazione, facciamo un semplice esempio: nel rapporto con l’ambiente la stanza è gialla, nel rapporto con me stesso il giallo potrà piacermi oppure no e il fatto che il giallo mi piaccia o no rende la stanza gradevole o sgradevole. Diventa, quindi, importante cercare di capire quanto nell’essere umano il comportamento esterno sia suscettibile di alterazioni in corrispondenza al rapporto interno. Per comprendere questa dinamica riporto un dialogo tra una bambina di sei anni e suo papà.

“Sai io vorrei essere un maschio”
“Perché?”
“Così tu saresti una femmina”
“Perché dovrei essere una femmina?”
“Perché tu sei troppo bello per essere un maschio”
“Un maschio non potrebbe essere bello?”
“Ma tanto quello che importa è essere intelligenti. Come si fa a diventare intelligenti?”

Questo dialogo si configura come un “falso dialogo”, ossia la bambina sta conversando in realtà con se stessa: è un dialogo interiore che emerge solo a tratti. La bambina si sta interrogando sulla dualità maschile/femminile e intelligenza/bellezza, ossia “sull’intuizione della copresenza simultanea di due realtà antitetiche” (tratto da “I chicchi del melograno”, R. Barbruni, p. 41). Riporto qui il sogno di un bambino di circa 5 anni raccontato da un paziente in età adulta che ci aiuta a comprendere i concetti sopra esposti.

Il bambino si trova con la madre e stanno camminando tenendosi per mano. Camminano lungo una stradina: da una parte c’è un muro dall’altra un torrente. Ad un certo punto arrivano ad un cancello. La mamma dice al bambino di aspettarlo lì e che tornerà subito. Si dirige verso una villa, che c’è al di là del cancello e in fondo al giardino. La mamma si allontana finché il bambino non la vede più. La mamma non torna e il bambino è preoccupato e decide di andarla a cercare; si accorge, però, che in terra ci sono dei vetri rotti ed è scalzo; si mette a piangere disperato. Arriva una donna, che non conosce e che non esiste nella sua realtà, che gli domanda perché piange (che vorrebbe dire perché soffri). Il bambino le racconta cosa è accaduto e la donna gli dice che lo condurrà lei dalla mamma, lo prende in braccio e lo porta verso la grande villa.

Nella realtà del bambino la madre era stata ricoverata in ospedale, era sofferente e lui non poteva andarla a trovare. Ma chi era l’altra donna che lo porta a cercare la madre? I vetri rotti rappresentano la soggettiva rappresentazione della sofferenza della madre, ma in senso più generale della vita stessa e quindi la sofferenza vissuta come impedimento. Non si può camminare a piedi scalzi senza rimanere feriti; sarebbero potuti spuntare degli scarponi come soluzione, invece è apparsa una donna, simbolo della sapienza perché interroga in bambino sul motivo del suo dolore, e che lo solleva da terra perché la sapienza e il sapere sviluppano il processo di trascendimento. Questo è un atto che il bambino intuisce in se stesso e che sa di essere il modo per attraversare il dolore.

Conclusioni.

Quando siamo di fronte ad un fatto esterno non ci troviamo di fronte ad un dato oggettivo: più che un “dato” dovremmo parlare di un “preso”, infatti lo “prendiamo” in base ai nostri fattori inconsci. Quando noi interpretiamo il pianto e il sorriso del bambino lo interpretiamo alla luce dell’idea che dentro di noi custodiamo del bambino. Bisogna domandarci, quindi, quali sono le necessità che dentro di noi attribuiamo a nostro figlio; dove trovo anche il riflesso dell’idea che ho di essere padre o madre. Mi rendo conto che sono protettiva? E quindi vedo mio figlio fragile? Oppure mi accorgo che sono troppo disinvolta? Dovrò equilibrare queste due cose. Qui assume importanza il rapporto di coppia, infatti può essere il partner che si accorge se si è, per esempio, troppo protettivi. Come nel sogno è importante far entrare la sapienza che nel farci interrogare su noi stessi ci fa trascendere la situazione data per cui siamo capaci di abbracciare l’interezza dell’evento.

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