BY: Renato Barbruni
Mi chiamo Sam
Mi chiamo Sam (I am Sam)
di Sean Pean
A prima vista appare come un film sull’atteggiamento pregiudiziale di fronte all’handicap, invece, lentamente nel dispiegarsi della storia, rivela essere una metafore sul mistero dell’amore. Un mistero poiché non si hanno parole per descriverlo e comprenderne la natura. Il processo a cui è sottoposto Sam, il protagonista della storia, per valutarne le capacità di essere “un buon padre”, riesce solo a mettere in luce quello che infondo è già palese, vale a dire le difficoltà dell’uomo di adattarsi con pieno successo alla realtà sociale. Si mettono infatti in evidenza le sue limitate possibilità di migliorare la condizione economica della sua vita; si mette in evidenza il limite intellettivo che non gli consente di fungere da guida e da sostegno alla carriere scolastica della figlia, ma non si riesce a comprendere perché un tale corollario di limiti umani possa generare nella figlia tanto amore e altrettanta riconoscenza.
L’amore che Sam nutre per la figlia è come un faro posto al di là della nebbia dei limiti psichici del padre. La bambina si affida a quella luce misteriosa che la guida ad essere se stessa, a mantenersi in rapporto con la parte più profonda di sé: quel luogo della personalità dove hanno origine le dimensioni più elevato dell’uomo. Guardando il film vengono alla mente le parole di San Agostino: “Ama e fai quello che vuoi”, nel senso che l’amore di Sam non ha bisogno del suo Fare, si esprime al di là di quella limitata dimensione umana che è appunto il Fare, riuscendo a raggiungere il cuore e l’anima della piccola Lucy.
Sam è l’innocente, il puro d’anima, il povero di spirito. Già altre volto il cinema si è occupato di questo personaggio, cito Forrest Gump, Harvey, una metafora dell’innocenza che troviamo mirabilmente descritta nello stupendo romanzo di Fiodor Dostoevskij , “L’idiota”. L’innocenza traversa la cultura della nostra civiltà, ma spesso è scavalcata e umiliata dalla presunzione della ragione, altre volta dalla prepotenza del fare dell’uomo d’azione che pretende di domina e rappresentare l’intera realtà. Qualche volta accade che lasciamo da parte la nostra armatura di intelligenza razionale e volitiva e ci lasciamo andare ad un atteggiamento più umile in cui riscopriamo l’attesa, la fede nel divenire in noi della vita. Così facendo accettiamo il mistero, la consapevolezza di non sapere tutto. Spesso,quasi sempre, agiamo come se noi sapessi tutto, e perfettamente; un delirio di onniscienza di cui neanche ci rendiamo conto e che ci porta a catastrofiche conseguenze. Questo è accaduto tante volte nella vicende personali di ciascuno di noi come nella nostra storia collettiva. I am Sam – Sean Pean
BY: Renato Barbruni
Essere John Malkovich
Essere John Malkovich
di Spike Jonze
La tematica del film è l’identità, o la ricerca dell’identità. Il tema è sviluppato attraverso un continuo gioco di identificazioni. I personaggi hanno trovato il modo di entrare dentro John Malkovich che si trova quindi privato della sua identità e soggetto alle interferenze delle identità altrui. Siamo tutti dei contenitori dove gli altri trovano posto e ci manipolano. Il tema è lo stesso del film di Bergman “Persona”. Là un’attrice aveva perso il senso di se stessa,confondendosi poi con l’infermiera che la cura, come l’infermiera si trova fusa alla sua paziente non distinguendo più se stessa dell’altra.Anche qui c’è un attore preso a simbolo della interferenza del mondo sulla singolarità. In questo caso vi è l’aggiunto del simbolo delle marionette sviluppando la drammatica tematica della ricerca del se stesso più autentico, o, per usare la metafora del film: il se stesso puro,senza inquinamenti di altre personalità.
E’ anche un film sulla realtà dell’anima colta oltre l’identità sessuali e la forma materiale. E’ significativa la gravidanza del personaggio femminile, che attribuisce il figlio ad una donna che si era impossessata del corpo di Malkovich quando con lui fece l’amore.
BY: Renato Barbruni
Luci d’inverno
Luci d’inverno
di Ingmar Bergman
tratto dal libro “Logos e Pathos” di Renato Barbruni, Ed. Nuovi Autori
Il protagonista è un pastore protestante colto in un momento drammatico della sua vita all’indomani della morte dell’amatissima moglie. Dalla sua stessa voce apprendiamo quanto la donna fosse vitale per lui. Tutta la realtà passava attraverso di lei. La fede stessa ne era sostenuta e colorata. La perdita della donna ha provocato nell’uomo la morte del senso della vita. Un senso quindi mai sperimentato direttamente, ma sempre intravisto negli occhi di lei. L’uomo è perduto, orfano, reduce e perfino errabondo senza il sostegno amoroso di lei; egli non sopporta più l’assenza, il silenzio di Dio: un Dio che non riesce a comprendere.Emblematico il suicidio dell’uomo che in precedenze, spinto dalla propria moglie si era rivolto a lui per un aiuto. La scena del ritrovamento del corpo si svolge a margine di un fiume che nel film è reso particolarmente rumoroso. La scena non è accompagnata dalla musica,ma dal rumore. IL fiume è uno dei simboli della vita che scorre. Quindi la vita non è un discorso, ma rumore insensato alle orecchie del pastore ormai in balia della disperazione. Egli è in preda alla catastrofe della sua anima incapace di sollevarsi sopra la sua desolazione. Il regista ci mostra un paesaggio freddo, tratteggiato dalle varie sfumature del bianco,quasi a voler suggerire che la realtà sta scolorando davanti ai nostri occhi, che poi sono gli occhi del protagonista. Altri segni della desolazione spirituali del pastore li troviamo nella chiesa semivuota.E’ un simbolo e una rappresentazione della mancanza nella sua anima di presenze che vivono al cospetto di Dio, poiché quando parla di Dio non ha più proseliti, non ha più credibilità essendosi spezzato il legame con il senso dell’assoluto. La realtà interiore impoverita e svuotata,nella quale ancora egli recita la parte del pastore, è senza gregge. Se l’anima si svuota dei propri aneliti, inaridisce e diviene un simula crosterile. Il film non è solo il dramma di un pastore, un religioso, è la metafora di tutti colore che si trovano di fronte ad un mutamento nel loro universo d’amore: la scomparsa della persona cara, nella quale si ripone il senso stesso della vita. La morte di una tale presenza è come un cataclisma che dissolve nel nulla quelle che fino a poco tempo prima ci apparivano come certezze. L’esperienza della solitudine pervade così profondamente l’essere da far dubitare di qualunque cosa: “Dio mio perché mi hai abbandonato?” è la domanda drammatica che ciascuno di noi, ad un certo punto della sua vita, ha pronunciato più o meno consapevolmente quando il silenzio di Dio, l’incomprensibilità di Dio,dell’esistere, ci appare come un macigno che ci schiaccia l’anima. La tentazione del nulla è così resa più forte. Una attrazione e una seduzione verso la morte dello spirito ci pervade a tale punto che sembra invincibile. Il protagonista del film si ritira dal mondo, rinuncia a comprendere il giovane che va a chiedere aiuto, e da lui è respinto col ripiegamento su se stesso, poiché è ancora il proprio personale dramma che rimane l’interlocutore primo della sua anima. Successivamente, un altro rifiuto della vita è quando respinge l’amore della donna.
Il film non si conclude, lascia aperto l’interrogativo sul senso della vita e del dolore. La frase finale: “Beato colui che viene nel nome del Signore” rimanda ad un senso tutto personale, che il protagonista,certamente l’autore stesso, non sente di aver raggiunto. Egli ne parla,ma forse non riesce a sentirlo. E’ questa la tragicità dell’essere uomo, in contrasto con l’esperienza di quella creature così vicina a Dio che è la donna. Ella porta avanti la vita, coraggiosa e fiera se pur dolente. Le due donne del film, la maestra che lo ama in silenzio, e la vedova incinta del suicida che con coraggio non dispera ma annuncia la morte del padre ai suoi figli, rappresentano la vita come discorso e continuità oltre la frattura del dolore. E’ la donna che vive e agisce quel “Beato colui che viene nel nome del signore” anche se colui che viene annuncia la morte della persona cara.
In tutti i film di Bergman la donna è sapientemente descritta come una creatura lontana, che vive in una logica che l’uomo stenta a comprendere. Nei suoi film l’anima dell’uomo è colta nell’oscurità.
BY: Renato Barbruni
Frankenstein
Frankenstein di Mary Shelley
di Kenneth Branagh
L’ossessione per la vita; la lotta contro la morte; l’incapacità di accedere al senso della morte; la visione solo materialista della vita. Sono questi e temi che muovono le intenzioni del protagonista.
Victor Frankenstein è l’uomo di scienza che vuole occuparsi del dramma della morte, senza interrogarsi se poi la morte è il vero dramma della vita. O meglio ancora senza interrogarsi se ciò che rende drammatica la vita sia proprio la morte. Lo scoprirà dalle parole della sua “creatura”: “…lo sapevi che io so suonare il flauto? dimmi, ho un’anima io? o questo è un aspetto che hai trascurato; mi hai creato da tanti corpi, ma chi sono io?” E Victor non sa rispondere, poiché non ha colto il senso e il valore soggettivo dell’essere da lui ideato, o quella strana cosa che nasce come trascendimento da una moltitudine di frammenti, l’anima.
La Creatura senza nome e senz’anima, è l’ombra di Victor, in essa sono presenti la potenza della vita, ma soprattutto la orribile rappresentazione che scaturisce dalla negazione della morte. La Volontà di Potenza diviene per Victor padrone e motivo della sua progettualità; tema attuale della scienza.
Victor nell’intera sua vita continua a eludere la domanda terribile ch ela sua ombra gli porta inseguendolo in ogni luogo. Qual è il senso della vita, ma soprattutto qual è il senso della morte?
La conoscenza come presa e dominio sulla natura, una conoscenza che non aiuta a interloquire con la natura, ma pretende di dominarla epurandola da ciò che la ragione non comprende e non può quindi accettare. E’ qui delineato lo schema di pesniero della cultura contemporanea.
BY: Renato Barbruni
Al di la della vita
Al di la della vita
di Martin Scorsese
I personaggi del film appaiono come riflessi di dolore e sofferenza trasudanti anima. E’ un affresco scuro dalle tinte forti, un viaggio nell’inferno della nostra era, nell’inferno di una coscienza morale votata al prolungamento della vita sul piano biologico, metafora concretistica della salvezza. Si pensi all’accanimento terapeutico.Questa tematica la si ritrova nel film di Kenneth Branagh “Frankenstein” la cui riflessione si trova su questo sito.
L’etica della salvezza è traversata dalle inquietudini esistenziali del protagonista che si trova a rendersi conto di quanto egli sia posseduto dalla ossessione di salvare. La morte di una giovane è l’occasione perla domanda drammatica: “ma cosa vuole dire salvare una vita?” Emblematiche le frasi del personaggio quando dice: “Col tempo mi sono accorto che io ero lì per essere testimone, come uno straccio per il dolore…” E poi ancora: “Mi hanno insegnato che salvando gli altri avrei salvato me stesso, mentre mi sono perso.”
E’ l’etica della dedizione al prossimo che viene messa in discussione.In vari momenti del film osserviamo scene nelle quali il personaggio che svolge il ruolo di colui che salva esprime la consapevolezza del limite della sua azione se non interviene la piena collaborazione di colui che è salvato. Ad esempio quando il tossicomane per l’ennesima volta arriva al pronto soccorso il medico di guardia gli dice: “Adesso di daremo qualcosa, poi uscirai di qui, per poi tornare un’altra volta.” Tutto sembra inutile. E’ lo sgomento che prende chiunque operi nel campo della solidarietà sociale. Quella frustrazione di fronte a molte persone che non sanno o non vogliono farsi carico di se stesse.
Il protagonista vive nel ricordo della morte di una giovane trovata per strada, un ricordo che lo assilla schiacciandolo nel senso della colpa, la colpa di non aver saputo restituire la vita a chi l’aveva perduta.Simbolo questo di un rapporto con la vita ormai troppo mediato dalla tecnologia, così anche la tematica escatologica della salvezza o vita eterna, che traversa la coscienza occidentale e cristiana, svilisce nel puro atto del procrastinamento dell’evento biologico chiamato vita.
Il momento catartico del protagonista è affidato all’incontro con il vecchio che vuole lasciarsi morire poiché accetta l’ora della sua fine;ma l’egoistico affetto dei familiari trattenendolo lo inchioda a una vita legata ad una macchina, piuttosto che intrecciata con l’anima. Il medico ha gli strumenti per costringere il cuore dell’uomo a tornare a battere. D’altra parte, se il cuore obbedisce unicamente alle leggi della biochimica da cui dipenderebbe il suo continuo battere, basta ripristinarne le condizioni. Ma il vecchio, che chiede attraverso un dialogo telepatico col protagonista di poter morire e quindi essere salvato con la morte, è votato a liberarsi dell’involucro solo biologico del corpo, e invoca la morte come vera salvezza, da una vita che a quel punto della sua vicenda personale ha fatto il suo tempo. Il senso della morte è il tema che serpeggia in tutto il film, e quando parliamo del senso della morte dobbiamo fare i conti col tema fondamentale per l’uomo che è l’Anima. Allora la giovane che muore davanti ai suoi occhi mentre egli tenta di procrastinarne la vita, è proprio l’anima del protagonista. Egli la incontra all’angolo di una strada, gettata come immondizia in un mondo fatto solo di materia. Suoni, rumori, colori,riprese veloci, quasi frenetiche, suscitano la presenza ingombrante della materia che invade ogni anfratto, così che la città è schiacciata in una interminabile notte, la cui alba è ritrovato quando il protagonista ritrova il senso della morte, ritrovando la pace con se stesso e il mistero chiuso nella propria esistenza.
BY: Renato Barbruni
Sinfonia d’autunno
Sinfonia d’autunno
di Ingmar Bergman
E’ l’incontro scontro di due donne attraverso il vissuto più o meno cosciente del loro fallimento come madri e come donne.
L’una, interpretata da Ingrid Bergman, la madre, tutta identificata e nascosta dietro la sua professione, una pianista affermata, tiene ben lontano il senso e la voce del suo fallimento, rafforzando così il rapporto con la musica e il suo pianoforte (tema che troviamo con altre motivazioni in “Lezioni di piano”). Il mondo relazionale di questa donna appare impoverito e agito in un evidente formalismo che la rende sempre più insensibile e lontana dal centro della sua esistenza. E’ una donna vuota quasi caricaturale nei gesti e negli schemi mentali;impreparata a cogliere il mondo dei sentimenti e dei vissuti profondi delle persone (emblematica la scena in cui ricorda con distacco e sarcasmo il suicidio di un suo amante, allontanando subito da se stessa la possibilità di una compassione che la porterebbe ad interrogarsi). Ma i fantasmi suscitati dalla incompiutezza esistenziale la sorprendono nella notte: dapprima un sogno, quasi un sensazione fisica di una presenza che invade la sfera intima, la sorprende con richiesta di affetto elementare che lei rifiuta con terrore. Qui l’aridità della sua anima si manifesta con tutta la sua carica grottesca. In seconda luogo il dialogo con la figlia che la inchioda al suo passato, un passato con il quale lei non vorrebbe fare i conti. La scena va anche letta in chiave simbolica come un tentativo di dialogo interiore della donna su se stessa alla ricerca di un qualche alibi che la sollevi dalle proprie responsabilità e dal terrore suscitato dal senso del fallimento esistenziale. Sarà lei stessa a smascherarsi là dove la sua abilità intellettuale si infrange nella stupefatta incapacità di comprensione. E’ da notare a proposito la puntigliosa lettura psicologica di un preludio di Chopin che riflette negli occhi della figlia un mondo relazionale perduto e irraggiungibile.
Dall’altra la figlia Caroline, interpretata da Liv Ulmann, che porta dentro di sé il fallimento della sua maternità nel ricordo della morte tragica del figlioletto. In ciò ella vede confermata la previsione della madre che non ha mai creduto in lei, e da ciò la lotta per recuperare un senso perduto. Appare come una donna incerta, chiusa in se stessa che vive al margine della propria autentica soggettività in bilico tra l’essere in sé e l’essere per l’altro. E’ il senso della colpa, agito e pensato quale primo motivo della sua incapacità (qui intesa come paralisi espiativa), che la schiaccia in quella posizione esistenziale. Da questa interpretazione di se stessa trae energia lo scacco che rende impossibile la sua evoluzione.
Il confronto con la madre, che parte come moto di rabbia e sfogo di profonde frustrazioni affettive, diviene momento di riflessione sul senso e sulla natura dell’essere madre alla ricerca di un modo di relazione ancora inesistente. Ciò che ancora sfugge alle protagoniste è il fatto che esse combattono l’un l’altra prima ancora di volgere la sguardo all’aspetto d’ombra dell’archetipo che le intrappola: l’archetipo della madre.
La presenza nel racconto di un’altra figlia, Hèlene, colpita nel corpo e nella capacità espressiva, disegna a caratteri forti tutta l’angoscia proiettata sull’archetipo della madre: una trama esistenziale, questa,tipica dei nostri tempi.
Fino a che il dramma rimane entro il limite della tematica madre-figlia, a cui si fa accenno nella frase che Caroline pronuncia al marito: “non si finisce mai di essere madre e figlia”, non ha sbocco risolutivo costringendo le protagoniste a cercare colpe, manchevolezze, scuse, alibi e difese. Per diverse ragioni, o diversi motivi, entrambe hanno di fronte,come si è detto, l’archetipo della madre che si presenta alla loro anima nella forma riflessa dalla cultura di riferimento che impone alla donna l’identificazione nella procreazione biologica e nell’accudire materiale del figlio del loro grembo. Là dove la libera espressione della soggettività dell’essere promuove l’apparire di motivazioni e aneliti diversi, il conflitto è inevitabile sia che vinca la condizione storicamente data, sia che prevalga la nuova forma di essere.
Entrambe quindi impattano all’interno dell’archetipo della madre senza riuscire ad accedere al piano dell’esistenza del femminile. In altre parole: o sono madri o sono figlie.
BY: Renato Barbruni
Stand by me
Stand by me
di Rob Reiner
Film che tratteggia a tinte tenui il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza; dal mondo incantato e incontaminato della fanciullezza ai presagi inquietanti dell’adolescenza. La trama si sviluppa dalla curiosità e dalla voglia di avventura di quattro ragazzi ancora impregnati dal pathos del gioco. L’occasione è andare a vedere il cadavere di un ragazzo finito sotto un treno. La ricerca del cadavere è simbolo e simulacro della perdita dell’innocenza, presagita come tragica conseguenza del divenire più grandi. Il viaggio, che conduce alla ricerca-scoperta della drammaticità della vita, è l’occasione per un’ultima esperienza di comunione tra coetanei i quali sentono tramontare un’epoca. Ciascuno percorre il proprio vissuto scontrandosi con quello degli altri.
BY: Renato Barbruni
La rosa purpurea del Cairo
La rosa purpurea del Cairo
di Woody Allen
La protagonista si muove tra le diverse proiezioni del suo maschile:
il marito: goffo, violento, fannullone e incapace di alcun rapporto con la sua compagna quindi col femminile, incarna la non curanza e la colpevole indolenza nel rapporto con la vita;
il personaggio del film: gentile e delicato, ma etereo, ingenuo fino alla incapacità di cogliere i veri bisogni della vita;
l’attore: persegue l’unica morale nel salvare la sua carriere di attore neanche molto apprezzato, e incapace di credere in se stesso.
Sono tre modalità maschili che la donna porta dentro di sé e che le conferiscono quella incapacità di orientarsi in modo concreto nella sua esistenza. La protagonista invece di affidarsi al suo sogno d’amore, che rappresenta l’intuizione sul senso della vita, preferisce colpevolmente rimanere li dove si trova a svolgere il solito rito: “entrare in un cinema e affidare ai personaggi lo svolgimento della trama esistenziale”. Metafora del cinema come fuga dalla realtà della vita.E’ il netto contrario dell’esperienza catartica dove la rappresentazione scenica è l’occasione per riflettere su se stessi. Un uso diverso del cinema, più consumistico ed edonistico, è proprio quello del demandare al personaggio cinematografico il compito di vivere per lo spettatore le singole esperienze, che rinuncia ad affrontare nel corso della sua vita reale.
BY: Renato Barbruni
The hours
The hours
di Stephen Daldry
Interpreti: Nicole Kidman, Julianne Moore, Meryl Streep, Toni Collette, Ed Harris, Claire Danes, John C. Reilly
Anno di produzione 2002
Il tema della ricerca di sé è in questo film espresso nella forma drammatica del conflitto tra omosessualità e pregiudizio sociale.
La prima donna ,Virginia (la scrittrice inglese Virginia Wolf),omosessuale che non riesce a trovare la forma esistenziale che le rappresenti adeguatamente la cognizione del sé profondo che ella vagheggia in se stessa, da cui trarrebbe un senso di adeguatezza e di serenità. La sofferenza psichica della donna è tutta decifrabile all’interno di questa dinamica intrapsichica, cioè tutta interna alla dialettica interiore dove le diversi immagini contraddittorie della propria anima si susseguono scavalcandosi senza la possibilità di ritrovare un filo che le armonizzi.
Laura, il secondo personaggio del film, è una donna che vive il dramma della propria natura, quindi della propria soggettività, scontrandosi con il ruolo assegnato alla donna di essere madre. Qui il dramma intrapsichico è sostenuto i quindi temperato nella dinamica relazionale: verso il marito e verso la progenie (li figlio già nato e quello che sta per nascere). Questi intrecci affettivi vengono vissuti come ciò che costituisce lo steccato invalicabile alla tensione auto conoscitiva ed auto affermativa della donna. Giacché la prima soluzione pensata (il proposito del suicidio) appare alla protagonista come l’unica soluzione: la morte come fuoriuscita dallo steccato. In essa è ancora presente la cognizione per cui la propria natura è colta come blasfema e irriverente nei confronti della vita relazionale-affettiva; l’abbandono della famiglia invece si colloca all’interno di una precisa cognizione per cui la protagonista scegli di trovare se stessa come punto essenziale e senso profondo del suo esserci nel mondo. Dinamica questa che il figlio subisce senza mai capire. Egli, identificato in questo abbandono, non riesce ad uscirne e vive la sua esistenza con senso tragico e fatalista.
La terza protagonista, Clarissa, vive liberamente la sua omosessualità non rinunciando alla maternità, ma ignara del grande valore della sua vita che passa nella sua esistenza.
Tre livelli di coscienza e tre livelli di dramma. Un buon esempio di come le idee (l’apparato ideologico), influisca sul senso drammatico della vita.
Più in dettaglio i personaggi sono prigionieri delle loro immagini interiori:
- Lo scrittore che si suicida è preda dell’idea dell’abbandono da parte della madre, che invece se ne andò cercando la propria verità. Nel romanzo che scrive riporta la scomparsa della madre nella sua vita come un suicidio senza motivo; ciò allude alla quasi totale incomprensione del senso del gesto della madre. Egli ha trascorsola sua vita nella tortura della disperazione, ignaro perfino dell’amore che lo circonda: da parte del suo compagna che poi lo lascia e dice “Ho cominciato a vivere”, poi dell’amore fraterno a materno della cara amica.
- Virginia per essere libera deve vivere una seconda vita: “Vostra zia vive in una altra vita quando scrive”. Non riesce a stare in nessun posto, poiché non sta nella sua pelle, nella sua forma. Un anima alla ricerca della propria dimensione, una dimensione neppure immaginata, da qui il terribile scacco esistenziale che la porta al suicidio.
- Laura, dapprima è oppressa dal modo di pensare e di sentirsi colpevole e traditrice dell’amore altrui, poi sceglie la liberazione,alla ricerca della propria verità.
- Clarissa, prima ignara , poi sempre più consapevole delle errate convinzioni che ne hanno disturbata la vita.
BY: Renato Barbruni
Matrix
Matrix
di Wachowsky Brothers
Interpreti: K. Reevers, L. Fishsburne
Anno di produzione 1999
Il senso di Matrix sta nell’essere come una ragnatela, che sorregge e concatena i pensieri individuali nella coscienza collettiva, quando questa muta e diviene ideologia intrasoggettiva, cioè pensiero che regolamenta il rapporto tra i singoli individui. Cosa vuole dire tutto questo? Vuol dire che i pensieri del singolo individuo non sono mai soltanto i suoi; nel senso che un pensiero, qui inteso come teoria sul mondo che guida la lettura del mondo e delle operazioni e sensazioni, non è realizzato dal singolo individuo, ma proviene dalla mente collettiva, dalla coscienza collettiva. Se ne ricava che il singolo individuo non vede il mondo attraverso i suoi personali occhi, come lui erroneamente crede, ma attraverso quel guardare collettivo che proviene dalla coscienza collettiva. Questo fenomeno cruciale per la comprensione della nostra libera ed autentica soggettività, in contrasto con un modo di pensiero invece collettivo che espropria le qualità personali, è ben rappresentato nella metafora del film Matrix, dove appunto Matrix (la matrice) è il pensiero collettivo determinato dall’insieme dei pensieri delle menti organizzate sotto la guida della grande mente che tiene tutto sotto controllo. Come nel formicaio dove la singola formica non ha senso di esistere separata dalla comunità-formicaio (una comunità che è il vero organismo) che dà senso e ragione alla sua esistenza. Ma la formica non riesce neppure a concepire una propria individualità scissa dalla collettività del formicaio, che, per lei, rappresenta e agisce quale matrice (origine) di ogni suo anelito, desiderio e pensiero, e che in sostanza dà origine alla sua stessa esistenza. In un tale contesto gli individui sono spogliati della loro peculiare caratteristica che è quella di “essere se stessi”. La liberazione avviene proprio quale momento di fuoriuscita dal sistema di pensiero collettivo, da Matrix,dalla matrice che tutto origina.
Questo film, di ispirazione buddista (per ciò che concerne la teoria della conoscenza), trova la sua spiegazione e il suo senso proprio all’interno dell’intuizione del Buddha che vedendo la vera natura della realtà attraverso i veli dell’ignoranza, indica all’uomo il modo di uscire da Matrix, cioè dalla visione erronea di se stesso e della vita.