BY: Irene Barbruni

Il pianto: la sua funzione psicologica
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Il pianto è una reazione emotiva molto forte che coinvolge tutto il nostro corpo e, come la risata, è tipicamente umano. Nel periodo infantile e nelle donne gli episodi di pianto sono molto più frequenti che non negli uomini adulti. Prima dell’adolescenza non si riscontrano differenze tra maschi e femmine, quindi è culturalmente che il pianto è stato associato ad una debolezza della personalità e quindi poco tollerato nell’immagine del maschile.

Il pianto è il primo linguaggio che il neonato utilizza; egli nasce totalmente dipendente dalle cure materne ed è quindi fondamentale per la sua sopravvivenza richiamare l’attenzione di chi può accudirlo. Alcune ricerche hanno evidenziato come il pianto abbia un certo tipo di suono a seconda della lingua parlata dalla madre; da ciò gli studiosi hanno dedotto che il bambino imiti i suoni che ha sentito quando era ancora nel grembo materno. Emerge quindi la stretta ed intima relazione tra nascituro e madre. Questo ci dice che la comunicazione non è solo un trasferire da un punto all’altro  un contenuto, ma è esperienza di comunione tra i due.

Quindi per il neonato il pianto è la prima modalità di espressione e precede il linguaggio che compare dopo molti mesi. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che, anche dal punto di vista evolutivo, il pianto possa aver preceduto l’utilizzo del linguaggio. A tale proposito il neurologo inglese Michael Trimble, nel suo libro intitolato “Why Humans Like To Cry” spiega che il piangere è un passo fondamentale nell’evoluzione dell’uomo. Trimble afferma che esso avrebbe anticipato il linguaggio parlato e, proprio attraverso di esso, gli uomini hanno iniziato a mostrare le proprie emozioni. Va aggiunto che, attraverso il pianto, vengono mostrati i  sentimenti che sono  espressione della realtà interiore. Il neurologo spiega che il pianto è collegato all’auto consapevolezza dell’uomo e quindi allo sviluppo dell’empatia verso gli altri e più precisamente la compassione (patire con). L’essere umano piange per un’emozione o meglio ancora quando vive un forte sentimento.

Nella società odierna il pianto è in realtà poco tollerato poiché è visto come segno di debolezza e di mancanza di capacità di sopportare la realtà. In un certo senso abbiamo perso il significato del pianto in alcune situazioni. Ad esempio un tempo esistevano le “piagnone”, chiamate anche prefiche (nell’antica Roma la donna messe a capo di quelle pagate per piangere), che erano delle donne che venivano pagate per piangere ai funerali. All’epoca spesso la morte arrivava in modo improvviso e non si conoscevano le cause poiché la scienza non forniva le spiegazioni che oggi invece propone. Quindi l’evento della morte era più vicino alla superstizione e legato ad antiche tradizioni pagane. La cattiva sorte, quindi, che diventava causa di dolori improvvisi veniva “esorcizzata” ricordando la fragilità della condizione umana, ed il pianto rituale e collettivo era un modo di sostenere la paura che la morte suscitava.

Non solo oggi il pianto ha perso la sua importanza, ma anche il sentimento della tristezza è considerato negativo, essa deve essere “scacciata via”. In realtà la tristezza è importante perché è testimonianza della nostra capacità di affrontare la sofferenza, di “patirla” quindi viverla. Trattenere il pianto, se accompagnato da una desensibilizzazione di sentimenti come la tristezza e la compassione non ci rende più forti, ma meno evoluti e soprattutto meno consapevoli. Infatti spesso il pianto è “liberatorio” e trasforma il sentimento di tristezza in sorriso e gioia. Essere in contatto con il proprio dolore è segno di forza ed equilibrio interiore; anche perché nel dolore si cela una sapere più profondo.

Il pianto è tipicamente umano, ma in ambito botanico ritroviamo il ricorso a questo termine in alcune situazioni. Ad esempio quando in primavera si potano le viti è chiamata lacrima la linfa che può uscire dal taglio. Questa lacrima è considerata fondamentale poiché significa che la pianta si sta preparando a riprendere la propria produzione di frutti. Quindi simbolicamente la lacrima è associata ad un momento di trasformazione, di mutamento prima di una nuova fioritura. Questa immagine  non solo è segno di una profonda fede nella vita e nei suoi eventi, ma ci fa comprendere quanto proprio una visione più poetica ci aiuti a leggere con più profondità gli accadimenti che viviamo, in particolare quando sono motivo di sofferenza.  Quindi viviamo il pianto per quel che è: un momento di partecipazione ad un evento doloroso, ma che ci introduce in una visione più profonda.

BY: Irene Barbruni

La mitomania: quando la bugia diventa patologia
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La parola mitomania deriva dal greco “mithos” (favola) e “mania” (follia). Il limite tra “normalità” e patologia riguarda il controllo e l’equilibrio di  questo atteggiamento mentale; possiamo parlare di mitomania quando questo equilibrio viene meno.

La capacità di mentire o di deviare dalla verità  fa parte dello sviluppo dei processi del pensiero del bambino. Infatti questo tipo di pensiero discordante con la verità presuppone la capacità di riflettere su cosa pensano e cosa provano gli altri e su ciò che conviene dire. Nel bambino la capacità di distinguere tra reale e fantasia è conquistata in modo graduale. Prima dei sei anni non possiamo parlare di menzogna in quanto il bambino non è sempre in grado di distinguere tra fantasia/gioco e realtà. Dall’età di circa otto anni il bambino possiede gli strumenti riflessivi e cognitivi per essere più consapevole e quindi possiamo dire che ha la capacità di mentire. Le bugie possono avere differenti scopi, spesso servono per evitare delle conseguenze negative ad esempio. Anche nel bambino, per quanto sia frequente il ricorso alla bugia, è bene fare attenzione quando essa è utilizzata per apparire agli altri in modo differente dalla realtà che egli vive. Se inizialmente l’uso della bugia ha lo scopo di evitare un giudizio, un rimprovero, e se ciò non viene dal bambino messo in discussione dalla sua sensibilità etica, ciò può deviare verso l’abitudine di inventare frottole e falsità tanto da giungere a convincersi della loro verità. Inoltre, anche se è una tappa nello sviluppo, essa non deve compromettere le capacità base di relazione con gli altri e con se stesso. Ed è proprio la riflessione etica circa la veridicità del proprio pensare che aiuta la maturità del bambino, che altrimenti, attraverso la bugia che inventa, squalifica l’altro e se stesso.

Il gioco della bugie, delle invenzioni arbitrarie allo scopo di manipolare il giudizio dell’altro evolve nell’età adulta nella mitomania. In età adulta il mitomane, attraverso storie inventate, crea un’immagine di sé allo scopo di acquistare valore agli occhi degli altri, anziché cercare il miglioramento di sé. Il mitomane a volte è cosciente di mentire, ma altre volte la partecipazione ideativa ed affettiva è talmente grande che finisce per perdere il contatto con la realtà. Lo scopo della pseudologia (inventare bugie) ha lo scopo di suscitare negli altri talvolta ammirazione e talvolta compassione. I soggetti solo in apparenza sono sicuri e quindi spesso convincenti, in realtà sono insicuri e hanno un forte bisogno di rassicurazione. H. Haenseller ha inserito la pseudologia all’interno dei meccanismi di difesa. Effettivamente il mitomane si nasconde in un’immagine di sé che modifica per essere ciò che non è.

Non è sempre facile gestire un rapporto con chi ha questo tipo di tendenza per il fatto che è propenso ad alterare la realtà. In questi casi è sempre bene chiedere il consiglio di un esperto che possa eventualmente diagnosticare alcune patologie che possono essere associate ad un tale modo d’essere, per poter quindi dare il giusto sostegno ed aiuto alla persona coinvolta. Quando invece ci troviamo di fronte ad un bambino, come abbiamo detto, dobbiamo considerare la normalità di tale comportamento, ma è sempre bene riflettere comunque su che cosa può spingere a mentire su qualcosa che lo riguarda personalmente e cercare di comprendere quale bisogno esprime (ricerca di attenzione, di compassione oppure di apparire più bravo ad esempio). Se invece ci troviamo di fronte ad un adolescente dobbiamo tener presente che, sebbene anche in questa fase la totale sincerità verso il genitore non ce la possiamo aspettare, dobbiamo fare attenzione quando il giovane altera eccessivamente l’immagine che vuole dare di sé, perché in tale atteggiamento si può nascondere un disagio profondo che va indagato. Mentire a se stessi per ottenere un risultato dagli altri è un modo di manipolare e non ha origine solo dalla propria insicurezza, ma da un’esigenza di uso e dominio sugli altri. Lo sviluppo dei media e l’esigenza dell’apparire stimola la costruzione di un’immagine di sé altra, rispetto alle propria realtà soggettiva. Tali abitudini complicano l’autentica ricerca di sé, tipica di ogni essere umano. La mitomania, ampliata attraverso l’uso dei media, diviene un modo di apparire.  Ecco che la riflessione sulla propria soggettività, unità al valore etico della relazione autentica, con un amico o con i propri genitori, è il giusto richiamo per arginare tale deriva.  

BY: Irene Barbruni

IL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO
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Il disturbo ossessivo compulsivo è caratterizzato dalla presenza sia di pensieri intrusivi che da comportamenti compulsivi. Il termine ossessione deriva dal latino obsidere che significa bloccare. Questo tipo di disturbo può presentarsi in diversi modi, ad esempio: temere eccessivamente i germi, aver un timore sproporzionato di procurare danni o di perdere il controllo, sentire il bisogno di sistemare gli oggetti in un determinato modo.

Anche se il soggetto è consapevole che i suoi atti o le sue idee ossessive sono insensati, non riesce a non riprodurli, quindi a non evitare di attuare un certo rituale. I rituali li ritroviamo nel mondo infantile come nell’uomo primitivo, ma diventano un disturbo nel momento in cui non placano l’ansia, ma anzi divengono motivo di ansia, che è dovuta all’aspetto compulsivo cioè al fatto che il soggetto non può sottrarsi. I rituali che, normalmente fanno parte del mondo infantile, solitamente vengono superati nell’età adulta per lasciare spazio ad una maggiore consapevolezza. Essi possono comunque riapparire in alcune situazioni, magari particolarmente stressanti, senza assumere significato patologico.

Le ossessioni sono quindi pensieri, immagini o impulsi vissuti come disturbanti. Purtroppo questo tipo di patologia diventa molto invalidante nella vita della persona. Solitamente l’esordio si evidenzia in età adolescenziale, anche se recentemente si è osservato un aumento di casi anche in età infantile.  É più comune nei maschi dove assume più frequentemente una sitomatologia più grave.

Ma cosa nasconde questo tipo di sintomatologia?

Abbiamo parlato del rituale. Il rito mette in atto una serie di comportamenti simbolici che, secondo alcuni autori, nell’uomo primitivo hanno preceduto e hanno dato lo spunto per l’elaborazione dei miti. E. Durkheim afferma che il rito è il mito messo in azione. Il significato del rito lo possiamo ricercare nell’ambito dell’antropologia, come ad esempio quelli che hanno la funzione di controllo delle forze naturali, oppure di protezione in alcune fasi di passaggio nella vita di un individuo.  Secondo la psicologia freudiana il rituale presente nel disturbo ossessivo compulsivo, è un tentativo di ridurre l’angoscia derivata da pulsioni che il soggetto non può soddisfare, perché ritenute non accettabili. Questa teorizzazione risente molto della visione per la quale l’essere umano è percorso da pulsioni che deve saper controllare o meglio che il super io controlla e censura. Questa interpretazione poteva andare bene in una società chiusa, molto dogmatica, dove i comportamenti erano molto controllati e stereotipati; non è più però la situazione attuale. L’interpretazione che ne fornisce la psicologia analitica junghiana ci aiuta a capire meglio l’origine del sintomo. Nella psicologia analitica, il rito è paragonato ad un contenitore psichico della trasformazione, che è necessario per preservare l’equilibrio in momenti di transizione da un modo d’essere ad un altro.  Questa lettura ci spiega meglio del perché il sintomo scaturisce da un momento di forte tensione per il soggetto, un esame importante, la perdita del lavoro, una decisione da prendere che comporta il rischio di perdere la sicurezza. Un percorso psicoterapico avrà lo scopo di supportare il soggetto verso un differente modo di scoprire e affrontare ciò che è fonte di ansia profonda per lui. Quindi incentivare lo sviluppo di capacità più consapevoli e mature.

Come già sottolineato il disturbo ossessivo compulsivo è molto invasivo nella vita della persona e per questo motivo è fondamentale che venga riconosciuto e curato poiché i sintomi tendono ad aggravarsi con il tempo.

BY: Irene Barbruni

La proiezione
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La proiezione è quel processo per cui qualcosa di interno al sistema psichico viene considerato proveniente dall’esterno.

Secondo Jung essa può riguardare sia contenuti inconsci considerati negativi dal soggetto, che quindi se ne libera spostandoli sull’oggetto esterno, sia aspetti positivi che vengono spostati a causa di una sottovalutazione di sé. Essa può assumere forme più mature o meno. Ad esempio l’empatia presuppone la capacità dell’individuo di proiettare la propria esperienza per capire il mondo soggettivo di un’altra persona. Per questo motivo Jung parla di due tipi di proiezioni: una passiva e una attiva. Nel primo caso la proiezione non è frutto di un’intenzione, mentre nel secondo fa parte dell’atto di immedesimazione.

Alcuni test utilizzati per l’indagine della personalità sono chiamati proiettivi in quanto cercano di far emergere i contenuti psichici inconsci di un individuo. Infatti lo stimolo proposto nei test proiettivi è volutamente ambiguo, indeterminato proprio per sollecitare una risposta personale nel soggetto testato. I test proiettivi possono utilizzare il disegno, come i test grafici, oppure stimoli di diverso genere che devono essere interpretati dal soggetto. Ad esempio due dei test maggiormente utilizzati come il Rorschach e il Thematic Apperception Test presentano delle figure indefinite oppure, nel secondo caso, delle situazioni in cui si trovano dei personaggi. In queste prove non esistono risposte giuste o sbagliate, ma ogni risposta viene analizzata, siglata e il protocollo confrontato con dei dati di riferimento che permettono l’inquadramento diagnostico.

Al di là delle riflessioni che fanno parte del lavoro dello specialista, se nella quotidianità facciamo attenzione possiamo scoprire che la percezione della realtà che ci circonda è in massima parte dovuta proprio alla proiezione, a cui si aggiunge una valutazione logica e razionale. In altre parole, ognuno di noi vede la realtà a modo suo. E’ normale che di fronte allo stesso paesaggio due persone che lo guardano lo percepiscano e lo vivano in modo personale, soggettivo, proprio perché ognuno trasferisce sul mondo esterno il proprio mondo interiore. Riflettendo nel nostro intimo su questi aspetti  possiamo scoprire alcuni elementi proiettivi nel nostro modo di porci agli altri,  avendo così la possibilità di riflettere su noi stessi, sulla nostra realtà interiore per poter arricchire la conoscenza delle dinamiche che animano il nostro profondo sentire. Da ciò può nascere l’occasione di migliorare la nostra e l’altrui conoscenza e di conseguenza possiamo approdare ad una maggiore qualità nel rapporto con noi stessi e con gli altri. Le proiezioni quindi ci aiutano a scoprire il soggettivo, il personale che si aggiunge e qualifica la percezione sensoriale e la conseguente elaborazione logica; ciò in quanto ognuno nel proprio intimo è unico ed irripetibile.

BY: Irene Barbruni

La ferita dell’aborto spontaneo
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L’aborto spontaneo colpisce dal 15 al 30% delle gravidanze, quindi statisticamente ha una frequenza elevata. Per questa ragione si può osservare una certa tendenza alla banalizzazione dell’evento, testimoniata da frasi ricorrenti come “capita a molte donne” oppure “è risaputo che può capitare”; affermazioni che possono far intendere che non è un lutto vero e proprio. Molte donne riferiscono di non sentirsi legittimate nel proprio dolore; quindi frequentemente non vi è la giusta attenzione verso le possibili conseguenze psicologiche.

Il vissuto di sofferenza relativa all’interruzione della gravidanza arriva solitamente poche settimane successive alla scoperta del concepimento. Sicuramente lo stato psicologico della donna è notevolmente influenzato da fattori sia caratteriali che legati alla storia personale. Ad esempio, un aborto spontaneo che avviene in una donna che è alla prima gravidanza, magari cercata da tempo, può avere un impatto notevole sullo stato psicologico. Riconoscere l’espressione del dolore come legittimo in seguito ad un evento significa anche trovare il modo per superarlo. La donna che vive questo tipo di perdita, deve sentirsi in diritto di esprimere il proprio dolore e di cercare supporto e aiuto. In ambito psicologico l’aborto spontaneo è considerato un trauma poiché esso è un evento che non deve essere sottovalutato. Infatti diversi studi mostrano l’insorgenza di sintomi quali ansia e depressione nei mesi successivi all’evento. Fondamentale è, quindi, riconoscere ed avere la possibilità di condividere il dolore dandosi il tempo per superarlo. Se la donna non trova sufficiente supporto per affrontare questo difficile momento della vita è bene che si rivolga ad uno psicoterapeuta.

Non sono neanche da sottovalutare le conseguenze psicologiche legate all’interruzione volontaria di gravidanza. Infatti mentre le donne che hanno un aborto spontaneo tendenzialmente vivono un dolore psicologico inizialmente superiore, con il passare del tempo hanno un miglioramento dei sintomi psicologici insorti. Invece, le donne che hanno un’interruzione di gravidanza volontaria possono sviluppare sintomi anche a distanza di più tempo. Questo perché il vissuto che accompagna questa esperienza è molto diverso. Alcuni studi ci dicono che 8 settimane dopo l’ i.v.g. il 44% presentava disturbi psicologici, il 36% disturbi del sonno, il 31% si era pentito e l’11% si era fatto prescrivere psicofarmaci dal proprio medico di famiglia.  Altre ricerche hanno messo in evidenza che circa il 30% ha ancora dubbi riguardo la decisione di abortire al momento dell’i.v.g.: questi sono  dati che devono far riflettere.

Il momento della scoperta di una gravidanza è un evento delicato nella vita di una donna. Soprattutto quando la gravidanza è all’interno di una situazione problematica ella si trova in una condizione psicologica vulnerabile, dove le influenze interne ed esterne giocano un ruolo fondamentale nella decisione finale. E’ alta la probabilità che una donna prenda una decisione che non trova corrispondenza con una scelta davvero consapevole. Questo può portare quindi a sentimenti di rimpianto che possono presentarsi in periodi successivi. Quindi è importante la giusta consapevolezza relativa alla sofferenza psicologica per supportare la donna che si trova a viverla.

L’evento dell’aborto tocca dimensioni molto personali e profonde della donna. Attraverso quell’evento, una parte di sé viene meno e come tale ciò comporta una sofferenza sul piano psicologico ed esistenziale. Dalla donna si genera la vita e quando questa  possibilità di essere viene interrotta, il vissuto che ciò promuove attiva sentimenti profondi. Sono questi che vanno accolti, curati e quindi risolti di quell’evento, al fine di restituire alla donna la sua serenità nel rapporto con se stessa.  

BY: Irene Barbruni

La violenza psicologica
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A differenza della violenza fisica, che si rende visibile dai gesti violenti e lascia segni sul corpo, la violenza psicologica è meno evidente in senso concreto poiché colpisce il mondo interiore del soggetto. Spesso, se sentiamo parlare di maltrattamento ci vengono in mente le aggressioni fisiche, ma la violenza psicologica è un vero e proprio abuso che può assumere forme diverse. Si può parlare di questo genere di violenza quando siamo in presenza di comportamenti, atteggiamenti che generano un determinato clima psicologico e che si ripetono nel tempo, ma che possono essere più o meno intensi e più o meno nascosti.

Per descriverla dobbiamo considerare sia ciò che possiamo osservare nel soggetto che mette in atto gli abusi emotivi, sia la vittima con i suoi stati d’animo.

Nel primo caso abbiamo una personalità che tende a sviluppare atteggiamenti di dominio e di controllo sugli altri, specialmente verso quelle personalità più inclini a farsi dominare.  La volontà di potenza del dominante si può esprimere attraverso atti, modi e parole che tendono ad umiliare l’altro, svalutandolo e criticandolo. Generalmente non sono critiche costruttive, vale a dire critiche che mirano al miglioramento dell’altro, ma sono finalizzate ad instillare insicurezza per rendere quella personalità sempre più debole e adatta ad essere comandata e dominata. Il potere fine a se stesso è la vera finalità di queste personalità, che vivono un notevole piacere a sentire l’altro succube ed intimidito. Non dimentichiamo che il piacere per il potere è uno dei sentimenti più forti dell’essere umano; è proprio la lotta contro questo demone a caratterizzare le personalità che anelano ad esprimere atteggiamenti di pace e di concordia.

In queste situazioni possiamo osservare delle critiche che inizialmente riguardano dei commenti negativi saltuari, fino ad arrivare a veri e propri insulti anche in contesti sociali. Le azioni praticate dal dominante si sviluppano fino a invadere ed inquinare le scelte personali del dominato (dal vestire alle scelte di lavoro ad esempio), ad avere un controllo sulla vita quotidiana (come gli spostamenti e i contatti sociali). Spesso chi sta mettendo in atto comportamenti dominanti tende ad attribuire alla vittima la causa dei propri atteggiamenti aggressivi. Inoltre vi è la tendenza ad isolare l’altro attraverso un progressivo discredito delle persone familiari e delle amicizie: la vittima rimane quindi isolata e vive sentimenti di colpa e vergogna.

Chi subisce violenza psicologica vive una profonda ferita sul senso di sè, in quanto si sente costantemente come se ci fosse qualcosa di sbagliato in se stesso. Il vissuto di vergogna e di smarrimento esistenziale comporta la difficoltà a chiedere aiuto aggravato dall’isolamento dai familiari e conoscenti. Questo tipo di violenza va a colpire l’idea che la persona ha di se stessa deformandola: questa deformazione causa un’ulteriore sofferenza in chi la subisce. Essa non è solo fatta di parole, ma di atteggiamenti, di clima psicologico in cui la vittima si sente imprigionata poiché pensa che sia vero ciò che gli viene gettato addosso, fino a credere di essere la causa della sua sofferenza.

Ci sono personalità che hanno una sorta di capacità al plagio; ossia possiedono delle loro caratteristiche che in relazione a determinati soggetti riescono a creare uno stato di soggezione che limita o a volte addirittura esclude la libertà di determinazione dell’altro. Nei rapporti di amore malato, ad esempio, osserviamo un soggetto che ha potere e dominio sull’altro. Troviamo questo tema in diverse opere come, ad esempio, il dramma di H. Ibsen “Casa di bambola” dove la protagonista femminile si convince di essere poca cosa in confronto al marito, anche se è lei che lo aiuta in silenzio. Quest’ultimo invece non sopporta l’idea di essere stato aiutato proprio da lei, una donna che in fondo lui non apprezza. Anche nel romanzo “Ritratto di signora”  di Henry James, troviamo il tema del potere: un’ombra che può essere parte di molte trame amorose. Questo perché l’offerta di sé, che fa parte dell’amore, spesso è scambiata per resa e quindi vittoria di uno su l’altro.

Dobbiamo anche considerare la violenza psicologica presente nei mass media e nella società. Certe immagini o anche espressioni linguistiche sono violenza psicologica perché violano l’idea intima che uno ha di se stesso. E a questo riguardo è bene riflettere sul mondo dell’infanzia che purtroppo non è, a mio giudizio, tutelato di fronte al significato celato dietro alcune immagini, pubblicitarie e non, che ad uno sguardo attento non possono non risultare atti violenti di fronte ad una personalità in crescita.

BY: Irene Barbruni

Insonnia
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L’insonnia fa parte dei disturbi del sonno – veglia ed è caratterizzata da una riferita insoddisfazione riguardo alla quantità o qualità del sonno. Le problematiche durante il sonno notturno possono avere caratteristiche diverse: difficoltà ad addormentarsi, presenza di frequenti risvegli ed un risveglio precoce. Queste difficoltà sono considerate un vero e proprio disturbo nel momento in cui si riscontra una certa frequenza nel tempo, una compromissione nella vita dell’individuo (lavorativa e sociale) e quando non si è in presenza di fattori che possono influenzare la qualità del sonno come uso di sostanze o altre patologie mediche che possono giustificare questo tipo di sintomo.

Uno studio condotto nel 2019 e pubblicato sulla rivista Scientific Reports ha registrato un aumento dei problemi relativi alla quantità e qualità del sonno nella popolazione italiana. Dai dati emerge che il 30% degli intervistati dorme un numero insufficiente di ore. Inoltre gli studiosi hanno evidenziato che un basso livello di istruzione e un basso reddito sono associati a maggiori problemi di sonno. Anche il fumo influenza negativamente la durata e la qualità del sonno. Vi sono anche dati quantomeno curiosi in quanto si evidenzia che le coppie sposate dormono meglio e che le coppie che hanno figli piccoli hanno meno problemi di sonno rispetto a quelle con figli maggiori di 14 anni. Dormire poco e male contribuisce, in età avanzata, al declino cognitivo e oggi sappiamo che si tende a dormire meno rispetto a qualche decennio fa e soprattutto sempre più giovani non dormono in modo adeguato.

I dati possono essere molteplici ed avere più letture, ma certamente non possiamo non considerare che almeno in parte la qualità del sonno dipende dalle abitudini che abbiamo e da quanto ci prendiamo cura del “nutrimento” che arriva dal sonno. Certamente studi recenti hanno anche evidenziato come la pandemia abbia peggiorato, tra le altre cose, anche la qualità del sonno delle persone. E’ importante capire quando l’insonnia fa parte di un quadro patologico più complesso come stati d’ansia o stati depressivi, che vanno diagnosticati e curati tempestivamente. Diversamente possiamo cercare di prevenire i disturbi del sonno quando sono associati ad abitudini sbagliate e difficoltà ad affrontare ansia e paure che fanno parte della quotidianità, soprattutto in un momento storico come quello attuale.

Il sonno è fondamentale per rigenerarsi dopo le attività diurne, prendersi cura delle abitudini legate al sonno, anche quando si è più giovani, è importante per avere un alleato in più nel momento in cui la vita ci porta ad avere maggiori preoccupazioni e maggiore stress. Spesso infatti si legge che il sonno è un antistress naturale.

Per prendersi cura della nostra qualità del sonno è importante porre degli accorgimenti nel tempo che precede il riposo cercando di accompagnare il corpo e la mente verso il sonno in modo graduale. Prendere coscienza dell’importanza del sonno notturno è un fondamentale fattore per attivare tutti quei comportamenti/abitudini che riguardano la vera prevenzione.

Quando però l’insonnia arriva in modo inaspettato e non è dovuto da cattive abitudini è bene accogliere questo disagio e cercare di comprenderne il senso. A questo riguardo cito un passo tratto dal libro di Giobbe 7,13: Quando io dico:”il mio giaciglio mi darà sollievo, il mio letto allevierà la mia sofferenza”.Tu allora mi spaventi con sogni e con fantasmi, tu mi atterrisci. Ciò che inquieta è ciò che ci serve, ciò che ci fa crescere se sappiamo interpretarlo. Nel testo biblico le immagini oniriche scuotono la coscienza del dormiente, con lo scopo di spingerlo verso la propria evoluzione,  verso l’adempimento della propria perfezione custodita nel profondo dell’anima. Le trepidazioni notturne, che causano l’intermittenza della temporalità del sonno, sono causate dalle inquietudini della propria esistenza. Quando cioè l’esistere non è più un concatenarsi di fatti anonimi, ma l’insieme di eventi portatori di un significato che siamo convocati a decifrare. Qui è bene che ciascuno svolga una profonda riflessione su se stesso. Ma ciò è in contrasto con l’attitudine presente nella società contemporanea, la quale porta le persone a vivere scivolando da un’esperienza all’altra, presi tutti dalla smania di muoversi, di vivere le situazioni della vita sempre più velocemente e quindi vissute superficialmente. Durante il sonno, attraverso la magnifica esperienza del sognare, la nostra mente cerca di interpretare e di svelare il senso esistenziale e spirituale delle nostre esperienze quotidiane, guidandoci quindi verso un atteggiamento più riflessivo. Interpretare il senso del sogno diviene quindi una necessità per capire quali atteggiamenti o quali modi di pensare portano il soggetto alla deriva, o comunque verso modi di essere non corrispondenti alle vere necessità della sua vita interiore, della sua dimensione spirituale.

Proteggere il tempo dedicato al sonno quindi è fondamentale. Una corretta ecologia della temporalità del sonno diviene una necessità basilare. Rispettare il silenzio della sera, recuperandola alla sua sacralità, cercare di trovare più pace in quelle ore che precedono il riposo, e non inquinarle con troppe attività sia motorie che visive, è benefico ed indispensabile. Spegnare quindi tv e telefonini, che sono portatori di ulteriore inquietudini, oltretutto vacue,  diventa un gesto di rispetto verso noi stessi.   

BY: Renato Barbruni

I DUE MODI DEL SILENZIO
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  • Il silenzio come “rinuncia” alla presenza
  • Il silenzio come “attesa” di una presenza

C’è un silenzio che è rinuncia alla presenza, che è mortificazione, o meglio automortificazione. Questo silenzio è presente nelle situazioni di sofferenza esistenziale. La persona che vive il dolore derivante dalla propria esistenza, che è vissuta come vuota, inutile, priva di scopo e senso, si condannano al mutismo, al silenzio in quanto rinuncia a produrre la propria parola sul mondo e nel mondo. E’ ammutolito in quanto la parola, il dire di sé a sé o ad altri, non ha più alcuno scopo, essendo egli svuotato di intenzioni relazionali. Il motivo per cui pronunciamo parole sta nella relazione, scaturisce dall’istituzione di una relazione. La parola è il terzo che unisce i due. Ma prima della parola, c’è l’intenzione di coprire la distanza tra i due che sono lì convenuti; prima ancora dell’intenzione di coprire  tale distanza, è necessario che essa sia percepita e sia causa di struggimento e di nostalgia per la ricomposizione della unità umana primordiale.  Ciascuno di noi porta dentro di sé la ferita primitiva della scissione dell’essere. E’ quella ferita che ci racconta di una antecedente unitarietà relazionale tra il soggetto presente a se stesso e il soggetto allontanato da sé. Per fare un esempio semplice, che illustri questo stato dell’anima, basti pensare alla unità primordiale tra il bambino nel ventre della madre e la madre stessa. Ogni essere umano sorge alla propria esistenza entro l’orizzonte di un rapporto, egli è parte di quel rapporto. Possiamo anche pensare, in termini più assoluti, che il soggetto è parte di una relazione cosmica: da essa egli sorge alla propria singolarità, che conquisterà nel momento in cui  vedrà scindersi la relazione primordiale e primitiva. L’esperienza interiore della scissione, che conduce alla singolarità, permane negli strati più profondi dell’anima a memoria dell’unità antecedente. Da questa ferita permanente, memoria di un’epoca e di un evento che ha costituito il soggetto nella sua unità di singolarità, scaturisce tutto l’intenzionarsi racchiuso nella parola, in tutte le svariate forme attraverso le quali si esprime. La parola è il suono emesso dalla bocca dell’uomo, ma essa abbraccia anche tutti i segni che egli sa produrre e che possiedono la qualità di promuovere la comunicazione. Per comunicazione non si intende tanto il trasferimento di un dato di conoscenza da un punto all’altro, ma proprio il rendere comune quel dato di conoscenza, far sì che i due, riconoscendosi in esso, ritrovino l’atmosfera della loro relazione. “..Fai che loro siano in me come io sono in te, da essere una cosa sola…[1]”, si legge nel Vangelo di Giovanni a significare la ricomposizione salvifica dalla scissione causata dal peccato originale, il quale si configura come la separazione-scissione per antitesi tra l’uomo e Dio Padre, tra il singolo e l’universale. Il singolo costituitosi  come tale immediatamente si pone in antitesi con l’universale da cui è sorto. L’atto costitutivo del singolo è un atto di superbia, intesa come atto di antitesi. In questo senso l’intellettuale, il singolo che si crede intelligente, si pone sempre in antitesi all’esistenza di Dio.   Come quell’uomo che non vuole innamorarsi per non perdere la propria individualità[2], anche se continua a cercare una donna, in quanto la mancanza di un affetto gli pesa. Quindi egli cerca l’esperienza della comunione quasi sempre confusa con la ricerca del piacere sessuale. In verità si può vivere un’esperienza di unione senza perdere la propria individualità. L’arte rinascimentale mette in scena l’armonia e la comunione, mentre l’arte del novecento raffigura, nelle sue opere, la scissione (vedi Picasso e le opere dell’astrattismo). Queste immagini sono penetrate nella coscienza di ciascuno inquinando la capacità di intuire la comunione. L’archetipo che emerge dalla teologia cristiana della Trinità raffigura la comunione nella distinzione, concetto che la logica aristotelica e la logica novecentesca non sanno capire. La capacità di saper cogliere l’elemento trascendente tra i due che si avvicinano,  è estremamente importante, perché costituisce l’elemento decisivo per l’acquisizione dell’esperienza della comunione tra un soggetto e l’altro.

 Quell’esperienza diviene il terzo che unisce, o meglio, ri-unisce i due,  ricomponendoli nella antecedente unità primordiale. Quando l’esigenza di questa unità primordiale non è più percepita o, a causa della sofferenze non tollerata, viene rimossa e annichilita, il soggetto si sottrae al sentimento di comunione e la parola diviene oggetto inutile. Da qui il mutismo e il silenzio conseguente.  

Bloch trasfigurazione

C’è un silenzio che è “attesa” di una presenza, di presenza a se stessi, quando le parole narrano della vera essenza e di ciò che  necessita alla vita interiore.

Lì si levò un albero. Oh puro sovrastare!

Orfeo canta! Grandezza dell’albero in ascolto!

E tutto tacque. Ma proprio in quel tacere

Avvenne un nuovo inizio, cenno e mutamento.

Animali si silenzio irruppero dal chiaro

Bosco liberato, da tane e nascondigli

E si capì ch’essi non per astuzia

O per terrore in sé eran così sommessi,

ma per l’ascolto. Ruglio, grido, bramito

parve piccolo nel loro cuore. E dove quasi

non v’era che una capanna al suo ricetto,

un anfratto delle più scure brame ordito,

con un adito dagli stipiti sconnessi, –

tu creasti per loro un tempio nell’udito.

         La stupenda poesia di Rilke descrive il miracolo della nascita di un nuovo soggetto d’ascolto, come un universo che si dispiega in forma radiante. Ma il nuovo soggetto dell’ascolto è tutt’uno con il nuovo soggetto narrante. Ed è un ascoltare che si fa percezione delle profonde trame dell’essere (“…un anfratto delle più scure brame ordito,…”) che,  mute, silenti e lontanissime dall’orecchio dell’Io, debordano in echi che scavalcano la barriera dei concetti-costrutti della mente, per vivificare (“…tu creasti per loro un tempio nell’udito.”) la sostanza essenziale dell’anima. Un ascolto quindi che dilata la dimensione percepita ed intuita dell’essere. Questo evento risveglia un particolare stato d’animo in cui si riflette una disposizione dell’anima, che generalmente rimane chiusa e soffocata  dal limite delle percezioni sensoriali. L’ascolto del mondo, in quel caso, è limitato agli eventi fisici colti sul piano della pura materia; ma, quando varchiamo l’asse della sensorialità e ci inoltriamo verso la dimensione dei significati, l’ascolto si fa più sottile, ma al tempo stesso, meno credibile perché preso dai dubbi circa il vero significato da attribuire all’evento. Nella poesia di Rilke è descritto l’ingresso improvviso della dimensione dello spirito nell’ascolto dell’essere, che, colto nella sua natura essenziale di puro spirito, restituisce la primaria esperienza della certezza.

         C’è quindi un silenzio dello spirito, quanto la fonte stessa dell’esistere declina verso  dimensioni che appaiono vuote, come il nulla. “Dio mio perché mi hai abbandonato?[3]”. E’ qui raffigurato l’assolutamente solo, l’assolutamente staccato dal flusso del senso. Gesù non muore in pace, non affronta la morte e il dolore che la precede, con serenità ma, se pur con forza, coraggio e accettazione, affronta l’evento con angoscia. Perché?  Proprio Gesù così ripieno di Spirito Santo, così vicino a Dio da essere a lui consustanziale, da esserne il figlio prediletto e la forza incarnata; Gesù che ha compiuto i miracoli, come può affrontare la morte e la sua sofferenza con angoscia? Dovrà vivere da uomo, e da uomo affrontare il grande tema dell’esistenza umana: il sentimento della  solitudine che è il retaggio della scissione tra l’uomo e Dio. Già nell’orto degli ulivi Gesù incomincia a rimuove da sé Dio. Già percorre il cammino verso la piena incarnazione per vivere da uomo, e affrontare il dolore da uomo, non da Dio. E’ la solitudine che marca il confine stabilito e tracciato tra l’umano e il divino. Ma è una solitudine apparente, percepito dal gioco errato della percezione e della logica del pensiero. Nell’atto “Nelle Tua braccia rimetto il mio spirito”, Gesù ritrova nell’intuizione  dell’amore da cui si sente avvolto, la Presenza di Dio Padre. Ecco che il silenzio dalla parole e dai concetti, fino a quel momento usati,  permette il riemergere della Presenza che si è tenuta lontana. Ed è nell’amore che il soggetto amante ritrova il senso della Presenza del Soggetto amato, in ciò si attua la comunione tra i due. “Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi.”[4] L’amore convoca Dio, la Presenza del Senso riconduce all’unità primordiale superando così l’esperienza della scissione.  


[1] Giovanni 17,21

[2] L’uomo egocentrico, tipico della società individualistica contemporanea, perde la capacità di cogliere la trascendenza, di vedere cioè  ciò che lo unisce all’altra persona, Egli è dominato dal piacere e dalla visione dionisiaca attraverso la quale la  sessualità è  percepita come atto di dominio e uso dell’altro, non certo di comunione.

[3] Marco 15,34; Salmi 22 (21), 2

[4] Prima lettera di Giovanni 4,12

BY: Irene Barbruni

Ansia da prestazione
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In generale l’ansia è un’attivazione che comporta sia segnali emotivi che fisici rispetto ad uno stimolo esterno che richiede un certo impegno e concentrazione. Banalmente l’ansia che precede un esame spinge lo studente ad attivarsi per studiare e prepararsi al meglio. Quindi di per sé essa è fondamentale nella nostra vita. A volte però l’eccessiva attivazione comporta una problematicità e diventa un ostacolo per il soggetto. Uno di questi casi è l’ansia da prestazione, ossia quella preoccupazione eccessiva verso una situazione che si è in procinto di affrontare. Il soggetto vive un forte senso di inadeguatezza pensando a ciò che dovrà fare e, quasi sempre, tale atteggiamento lo porta verso un blocco e una valutazione negativa di sè stesso. L’ansia da prestazione è associata a varie manifestazioni somatiche, come palpitazioni e forte sudorazione, e spesso a vere e proprie problematiche come insonnia o problemi gastrointestinali.

Il soggetto vive una forte paura della valutazione negativa degli altri e un eccesso di auto-svalutazione. Essa può avere ripercussioni in differenti situazioni: lavorative e scolastiche oppure relazionali e sessuali.

L’individuo si sente incapace di affrontare le esperienze che lo attendono ed è quindi importante recuperare il senso della paura e del timore: il vero eroe non è colui che non prova paura, ma chi la affronta, che la sa gestire. Quindi la percezione di non sentirsi adeguati è comunque testimonianza di individui che sentono forte l’importanza di essere all’altezza della vita che ognuno è destinato a vivere. Una coscienza che permette di attribuire importanza a quella determinata situazione, quindi si configura come un elemento di maturità. Da qui il soggetto deve partire per riacquistare consapevolezza di sè stesso e della sua forza soggettiva.

Un altro elemento da tenere presente è il fatto che viviamo in una società che, attraverso gli spot pubblicitari e l’insieme dei messaggi che giungono anche da altre fonti, indicano e al fine impongono, un determinato tipo di personalità: deciso, impavido, che non ha incertezza e sopratutto che deve essere un vincente. Tutto questo aumenta la percezione del distacco, della lontananza dell’immagine soggettiva da quell’immagine imposta, che va a costituirsi proprio come un alter ego mai raggiungibile. Se riflettiamo per esempio sulla fruizione molto diffusa dei film pornografici, che impongono una sessualità e quindi una prestazione forte, ci si può spiegare del perché tanti giovani maschi cominciano a far uso del viagra, in quanto non si sentono all’altezza di ciò che la partner si aspetta da lui.

Chiaramente il modo e il luogo in cui si manifesta l’ansia da prestazione ci può raccontare meglio del significato particolare e personale che può avere. Comunque riflettere sul modello di riferimento attraverso cui emerge il senso di inadeguatezza può aiutare ad imparare a gestire l’ansia da prestazione.

BY: Irene Barbruni

Ragione e sentimento
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In diversi ambiti culturali ritroviamo il tema del confronto tra la parte più razionale di noi e quella legata alla sfera dei sentimenti: il conflitto tra mente e cuore. Esso viene ripreso numerose volte nell’ambito letterario e cinematografico, lo ritroviamo in molte fiabe e in diversi miti. Uno di questi è il mito di Eros e Psiche che racconta le vicende del dio dell’amore che si innamora di una bellissima mortale. Nel racconto troviamo Psiche che non può vedere il suo amato, poiché arriva solo durante l’oscurità della notte. L’oracolo aveva predetto che Psiche si sarebbe sposata con un mostro e le sorelle le suggeriscono di illuminare il suo amato per vederne il volto. Eros la scopre e mette in dubbio il suo amore. Psiche si troverà in seguito a dover superare diverse prove per riavvicinarsi al suo amato. Nuovamente in una delle prove la curiosità di vedere il contenuto di un’ampolla getta Psiche in un sonno profondo, come punizione di non aver saputo trattenere la curiosità. Eros però la salva, conquistato dall’impegno di Psiche, e i due si sposano.  Questo aspetto evidenzia come anche in ognuno di noi, il dialogo e l’equilibrio tra cuore e mente è la chiave per affrontare momenti importanti della vita.

Spesso ci interroghiamo sul senso di alcune scelte e ci domandiamo se ha prevalso la ragione o il cuore. In altri casi definiamo il nostro tipo di carattere identificando la nostra tendenza prevalente. Jung nell’opera “Tipi psicologici” suddivide le funzioni psicologiche in razionali ed irrazionali. Nel primo gruppo inserisce il tipo pensiero e il tipo sentimento, mentre nel secondo il tipo sensazione ed il tipo intuizione. Ognuno di noi possiede una propensione ad utilizzare una modalità piuttosto che un’altra, la strada dell’equilibrio non è quella del giudizio cercando una modalità giusta, ma di dare spazio al dialogo con noi stessi poiché è solo attraverso di esso che possiamo raggiungere l’armonia che fornisce la giusta serenità alle scelte che prendiamo.

Da ciò l’importanza di un’analisi introspettiva alla ricerca della modalità che abitualmente usiamo e quelle che non usiamo, che si sono come addormentate. Per evitare di rimanere troppo legati ad una sola modalità è bene tentare di esercitare anche l’altra. Chi è troppo razionale dovrebbe esercitarsi alla visione poetica della realtà; così del resto chi è troppo irrazionale, dovrebbe cercare di esercitarsi nella razionalità per riequilibrare il sistema di pensiero e di essere che lo caratterizza.

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