BY: Irene Barbruni

L’autostima
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L’autostima è il valore o giudizio che un individuo attribuisce a sè stesso, quindi dipende dalla valutazione positiva che ognuno si può dare.

WiebkeBleidorn dell’Università della California ha realizzato la prima ricerca che studia l’influenza del genere e dell’età sull’autostima in differenti tipi di culture. Dai dati raccolti emerge che gli uomini tendono ad avere più autostima rispetto alle donne e, senza distinzione di sesso, aumenta con l’età.

Alcuni studi hanno messo in evidenza come nell’epoca contemporanea, soprattutto negli adolescenti, è molto presente la preoccupazione dell’apparire sui social media al meglio e molto spesso viene utilizzato il photoshop.  Vi sono statistiche che riguardano l’Italia che riportano di come nella maggior parte dei casi le donne italiane dichiarino di avere una media o bassa autostima, facendo posizionare l’Italia penultima nella classifica dei paesi coinvolti nella ricerca (ricerca “Beauty Confidence e Autostima” promossa da Dove e realizzata in collaborazione con Edelman Intelligence).

L’autostima è legata alla dignità soggettiva che un individuo ricava esclusivamente dal rapporto con sè stesso. Essa è un concetto ambiguo perché difficile da osservare, in quanto a volte può essere arduo capire se è veramente autostima o in realtà sia “eterostima”; ossia un valore ricavato dal consenso degli altri, quindi, ad un aderire al modello proposto dalla società a cui si appartiene.

L’autostima invece è legata esclusivamente all’esigenza di capire il valore personale. Nell’epoca contemporanea è data molta importanza al successo, ossia al consenso degli altri; ciò è reso ancora più amplificato dall’utilizzo di internet. Viviamo in un tipo di società che spinge alla ricerca dell’applauso e al sensazionalismo che quindi spinge, come abbiamo detto, l’individuo verso l’adesione al modello prevalente. Ogni individuo, però, possiede il suo valore proprio nell’ unicità che non può trovare espressione in un solo modello. Fondamentale è fin dall’infanzia rendere l’individuo meno dipendente dall’idea che il valore di sé si deve trarre dai “successi” che ci rendono protagonisti agli occhi degli altri. Coltivare la stima di sé alimentandola attraverso la cura dell’immagine che forniamo agli altri, non significa curare la propria autostima. A ciò spesso si aggiunge un ulteriore fatto che riguarda un’immagine finta legata ad un tipo di modello che limita l’individuo e nel quale non può alla lunga sentirsi rappresentato. Coltivando invece la vera autostima, in cui è il dialogo con il proprio sentire che deve essere affinato, si raggiunge un certo grado di serenità con se stessi. Una foto che ci ritrae in un momento gioioso o malinconico acquista significato quando la si riguarda associata ad una esperienza che abbiamo vissuto e non rimane vincolata alla sola immagine estetica. Un’immagine estetica che spesso è esclusivamente legata al modello, sia maschile che femminile, che la società propone e spesso, impone. Non a caso dalle ricerche statistiche si evidenzia che l’autostima cresce con l’età, ossia con la maturazione della personalità. Una maturazione che comporta la capacità di giudizio sempre meno vincolata dalle lusinghe sociali. Nel giudizio che la persona matura esprime di sé viene compreso non solo il suo aspetto e il suo immediato modo di comportarsi, ma anche la sua storia e le vicende che ha dovuto affrontare e superare. Da tutto ciò egli ricava la stima di sé, che non vuol dire “piena autostima”, ma stima relativa al possibile livello di realizzazione raggiunto.

Solo chi è in pace con sé stesso è in pace con il mondo, recita un antico proverbio.

BY: Irene Barbruni

La forza della speranza
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E’ trascorso un anno circa dall’inizio di un’emergenza sanitaria che non ci aspettavamo. Senz’altro le ricadute psicologiche di questo periodo storico hanno notevoli differenze individuali, poichè la pandemia non ha certo colpito tutti allo stesso modo. C’è chi ha perso delle persone care, c’è chi vive in modo più o meno importante i problemi economici conseguenti, chi si è ammalato. Senza voler entrare nelle molteplici conseguenze che tale situazione può avere avuto in casi specifici, cercherò di descrivere ciò che accade a livello psicologico.

Importante è capire il tipo di atteggiamento che abbiamo di fronte a situazioni difficili e dolorose della nostra vita. Di fronte al dolore possiamo rimanere intrappolati, oppure trovare la capacità trasformativa che in esso esiste. Riuscire a conservare il sentimento della speranza diviene fondamentale. Un sentimento, quello della speranza, tra i più importati dell’essere umano.  Sperare vuol dire attendere fiduciosamente un futuro migliore, ossia, nonostante il dolore, la paura e la sofferenza, non perdere quell’intuizione che anche in ciò che non comprendiamo esiste un senso che lo rende sopportabile.

La speranza permette di intravedere un futuro prossimo in cui il dolore è destinato ad affievolirsi. Nella speranza ritroviamo il dialogo con la situazione contingente cercando quella capacità trascendente che abbiamo in noi e che ci permette di non identificarci nel dolore e nella sconfitta. La speranza è alla fin fine un’intuizione del Bene; nella filosofia di Kant troviamo l’idea che nel genere umano vi è una naturale ed innata predisposizione alla realizzazione delle intuizioni prime del Bene.

La speranza è un’esperienza psicologica essenziale e ne possiamo trovare una descrizione esauriente in tante immagini poetiche come quella di Emily Dickinson: “La speranza è qualcosa con le ali, che dimora nell’anima e canta una melodia senza parole, e non si ferma mai”. E’dunque un sentimento più che un concetto mentale. Possiamo definirla come uno stato d’animo che avvolge la personalità da un pathos che la tiene sollevata dal dolore e la protegge dall’annichilimento. Quindi è uno stato d’animo che va protetto, poiché il suo inquinamento è letale. A livello psicologico ed esistenziale è proprio la negazione della speranza a determinare l’angoscia.

E’ giusto differenziare tra desiderio e speranza in quanto il primo è legato alla volontà, la seconda è  una condizione di attesa che non vuole imporre nulla alla realtà. Essa sa attendere quel Bene che verrà nel modo in cui si presenterà. C’è anche differenza tra  fede e speranza. La prima è la certezza di cose di cui si ha speranza, mentre la seconda è l’attesa viva e fiduciosa in un bene futuro di cui comunque non si ha certezza.

Quindi è fondamentale che si comprenda l’occasione di crescita interiore che una situazione storica difficile e dolorosa porta in sé. L’atteggiamento e le risorse che possiamo mettere in atto possono cambiare radicalmente a seconda del nostro stato d’animo: se è di speranza o di chiusura nella difficoltà. Una frase di Victor Frankl può ben riassumere ciò che è stato detto: “Se non  è in tuo potere cambiare una situazione che ti reca dolore, potrai sempre trovare l’attitudine attraverso la quale affrontare tale sofferenza.”

Coltiviamo quindi l’attitudine alla speranza, aiutiamoci a custodire questo sentimento primordiale ed essenziale che anima la nostra vita.  Quando una gemma nasce lo fa senza rumore, prima non c’è, poi, all’improvviso è lì, nonostante il freddo, che essa, annuncia, sta per passare.

BY: Irene Barbruni

Hikikomori: malessere profondo in continuo aumento
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Hikikomori, che in giapponese significa isolarsi, è un termine che è stato scelto per definire una problematica che riguarda quei giovani che si ritirano socialmente. Inizialmente questo tipo di disagio è stato osservato a partire dagli anni Ottanta in Giappone, ma negli ultimi decenni sta interessando sempre più individui, anche nel nostro paese e in generale in tutti i paesi sviluppati. Si tratta di giovani, ma anche giovanissimi, che non studiano né lavorano e che si ritirano nella propria stanza annullando le interazioni sociali, spesso anche con la propria famiglia, in quanto dormono durante il giorno e stanno svegli nelle ore notturne. L’unico contatto con il mondo esterno lo hanno attraverso internet e i social network.

Le statistiche mostrano una netta prevalenza dei maschi, ma si presume che le ragazze siano in numero maggiore e che in molti casi non vengano segnalate, poiché culturalmente l’isolamento femminile assume una rilevanza minore soprattutto in determinati contesti culturali.

L’individuo inizialmente si auto reclude per evitare l’ambiente scolastico; spesso si evidenzia un fattore scatenante che non sempre appare evidente agli occhi dei genitori (un brutto voto, piuttosto che difficoltà con i compagni di classe o fenomeni di bullismo). Nella personalità del ragazzo si possono comunque osservare delle caratteristiche quali: difficoltà ad entrare in contatto con gli altri e angoscia della relazione. Questi disagi portano ad un eccesso di rinuncia e a declinare la propria vocazione relazionale (comunque presente in ogni essere umano), verso i mass media, i quali vengono percepiti mediatori, che quindi fungono da filtro protettivo nella relazione. Tutto questo porta ad un graduale peggioramento delle capacità di reggere e sopportare le frustrazioni che fanno parte delle esperienze quotidiane e delle relazioni interpersonali. Le relazioni che si instaurano davanti ad un computer hanno delle caratteristiche che portano ad un impoverimento delle capacità relazionali, poiché prive del contatto diretto e spontaneo con l’altro.

Spesso il disagio si manifesta con il rifiuto della scuola mostrando una grande sofferenza; accade solitamente nei primi anni delle superiori, ma anche già alle scuole medie. Il fattore scatenante può apparire agli occhi dei genitori, come abbiamo detto, un episodio innocuo,  ma che in una personalità fragile diventa motivo che giustifica la resa e quindi  l’abbandono scolastico ed infine l’auto-reclusione.

Diventa quindi fondamentale riconoscere i primi segnali di disagio; nel momento in cui il ragazzo comincia a saltare giorni di scuola e rinuncia a momenti di condivisione con i propri pari,  come lo sport o altri momenti di incontro. Il confronto tra genitori ed insegnanti in questa fase è fondamentale, come chiedere consiglio ad un professionista per evitare che si arrivi ad uno stadio troppo critico che richiederebbe un intervento più lungo e difficile.

Attualmente la didattica a distanza e il divieto, per motivi sanitari, di frequentare in libertà luoghi sociali, rende più difficile la valutazione della gravità di alcune situazioni. In questo momento storico delicato diventa quindi ancora più importante osservare con attenzione i nostri figli. Il confronto con la realtà e le esperienze dirette con gli altri, fatte anche di momenti di sofferenza e frustrazioni, sono fondamentali per la crescita. La consapevolezza che nella vita sono le difficoltà che riusciamo a reggere a renderci più forti e non solo quelle che riusciamo a superare, è una riflessione che non deve mai mancare nel lavoro educativo. Ogni età prevede delle frustrazioni con cui l’individuo deve confrontarsi per la propria crescita. Queste ultime riflessioni possono essere spunto per la prevenzione di disagi che riguardano la sfera relazionale, ma certamente nel momento in cui si sospetta l’instaurarsi di un ritiro sociale è  importante intervenire in modo tempestivo.

Il fenomeno non ha tuttavia solo motivazioni circoscritte alla sfera relazionale, ma investe proprio l’etica e la valorizzazione delle relazioni umane. L’attuale società sta sviluppando un’etica della relazione tutta piegata sul successo e sull’apparire, e ciò squalifica proprio la dimensione relazionale, la quale invece rappresenta il cuore dell’esperienza umana. Quindi promuovere una cultura della relazione, intesa come relazione di reciprocità, aiuta a contrastare la deriva autistica che osserviamo in quei giovani che si chiudono in se stessi e nella loro stanza.

BY: Irene Barbruni

La pazienza: virtù fondamentale per la crescita dell’individuo
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Oggi la pazienza è una virtù spesso dimenticata, lo stile di vita contemporaneo è caratterizzato dalla presenza di esperienze che si susseguono velocemente, tendiamo ad annoiarci facilmente e tutto ciò deriva da una certa incapacità di attendere.

Quindi in una società in cui un ritmo di vita frenetico è prevalente, la pazienza è spesso erroneamente associata alla passività. Invece essa è un non -fare che lascia spazio alla riflessione, la quale è alla base di un comportamento successivo più efficace. Uno studio inglese ha calcolato il limite massimo di attesa: si perde la pazienza dopo soli 8 minuti e 22 secondi. Al computer la sopportazione si abbassa ulteriormente e l’attesa di un minuto porta già una cattiva influenza sull’umore che si altera velocemente.

Un altro esperimento, condotto per la prima volta nel 1972 da Walter Mischel dell’Università di Stanford, ha dimostrato quanto la capacità di attesa nei bambini sia la base per una personalità più capace di gestire lo stress e raggiungere una maggior sicurezza nella propria vita. Nell’esperimento alcuni bambini di 4 anni sono stati lasciati soli in una stanza con un marshmallow. Era stato loro chiesto di non mangiarlo e il premio della capacità di resistere, sarebbero stati altri marshmallow. Alcuni bambini, seppur con difficoltà, furono in grado di resistere alla tentazione, altri invece non riuscirono a trattenersi. Alcuni anni dopo l’autore ha rivisto gli stessi bambini. Chi era riuscito a resistere alla tentazione-marshmallow era anche capace di gestire lo stress ottenendo buoni risultati a livello scolastico mentre, gli “impazienti” erano divenuti adulti più insicuri, meno capaci di concentrarsi e di controllare i propri impulsi. Il fatto di resistere alla tentazione era associato alla capacità di contenere il desiderio che spinge a cedere verso una gratificazione immediata, al fine di raggiungere qualcosa di più appagante. Questo aspetto è fondamentale nella realizzazione della propria vita; ecco perché la pazienza è fondamentale per la crescita dell’individuo.

La pazienza non è una caratteristica dei bambini, ma deve essere appresa. Pensiamo al neonato che se ha fame piange fino a che la mamma non si prende cura di lui. Buona parte dell’educazione deve portare il bambino ad acquisire la capacità di vivere un’attesa riflessiva, animata dal sentimento fiducioso della speranza in un esito positivo. Quindi la pazienza è un sentimento ed uno stato d’animo molto complesso entro il quale albergano e si evolvono capacità psicologiche determinante.  La persona capace di attendere con serenità mostra padronanza di sé, il superamento dalla dipendenza da cose o sostanze. Infatti ciò che genera la dipendenza da cose o sostanze è proprio l’impazienza, la necessità violenta che non trova disciplina in quella personalità. L’esercizio della pazienza è quindi un importante supporto; spesso citata con la temperanza come una virtù fondamentale per l’evoluzione della persona. Nella filosofia orientale è una virtù ritenuta tra la più significative. Per esempio Confucio così si esprime: “Il nobile acquieta la sua persona prima di mettersi in moto. (…)  Egli si raccoglie nella mente prima di mettersi a parlare”. Ed è proprio l’esercizio della pazienza che ci permette di riflettere e di trovare il giusto distacco dalle emozioni che ci potrebbero dominare. 

BY: Irene Barbruni

Come affrontare il problema Covid-19 da punto di vista psicologico
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La situazione attuale di emergenza ci fa vivere uno stato emotivo caratterizzato da crescente paura. La paura, come tutte le emozioni primarie, ha una funzione fondamentale per l’essere umano in quanto ci pone nello stato d’animo di allerta, in cui viene acuita la capacità di prevenire i pericoli. Essa deve, comunque venir commisurata alla minaccia per svolgere adeguatamente la sua funzione. Oggi la percezione della pericolosità di una situazione è stimolata, alle volte guidata, dai messaggi che arrivano dai mass media e non è agevole per noi trovare la giusta misura per leggere la realtà che stiamo vivendo. Quindi è facile che ognuno di noi possa o sottovalutare il pericolo che corre o viverlo in modo eccessivamente ansioso. Per trovare il giusto equilibrio è bene evitare ricerche compulsive di informazione ma utilizzare esclusivamente fonti sicure; in questo caso: Ministero della Salute (http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus) e Istituto Superiore di Sanità (http://www.epicentro.iss.it/coronavirus ).  Con le giuste informazioni e la giusta modalità emotiva possiamo attivare anche i comportamenti corretti per affrontare la situazione.

Oggi ci viene chiesto di cambiare le abitudini per qualche tempo riportandoci all’interno delle nostre case. Una situazione che ci appare anche difficile per il fatto di essere abituati ad una notevole libertà di movimento. In più il senso dell’obbligo ci può far sentire come in gabbia; possiamo vivere una certa ansia claustrofobica. La riflessione sulla giusta ragione all’origine da tali sacrifici ci aiuta da un alto a sopportare il limite imposto, e dall’altro a prendere piena coscienza che il comportamento individuale ricade su tutti sia in positivo che in negtivo. Il confine del nostrospazio soggettivo è labile, e l’effetto delle nostre scelte agiscono sugli altri. Inoltre per spirito di emulazione ci sentimento meglio se quello che dobbimao fare lo fanno in molti. Quindi questa emergenza può essere ben vissuta come riflessione sul nostro modo di vivere, consapevole di far parte di una grande famiglia e che non esiste un bene solo personale, ma il vero bene è quello che tocca tutti. Sollevandoci su un piano etico affronteremo meglio e con più coraggio le situazioni difficili che abbiamo di fronte. Un tempo che per alcuni è anche accompagnato da preoccupazioni economiche, non dimentichiamolo: questa emergenza tocca significativamente la sfera economica, ma il tutto va valutato come un’emergenza temporanea.  

Diverso è senz’altro il vissuto degli operatori sanitari che si trovano a fronteggiare non solo l’ansia legata alla situazione, ma gli viene richiesto un impegno enorme per il bisogno di assistenza che cresce. Soprattutto in questi casi l’essere umano non può che trarre forza trovando un senso profondo di sé. Ed è questo senso profondo di sé che nutre la nostra azione, ma soprattutto, è da esse che possiamo trarre una conoscenza più umana di noi steassi: siamo gli uni legati agli altri.

BY: Irene Barbruni

I nostri sogni al tempo della pandemia. I sogni onirici: strumento di contatto con se stessi e risorsa da riscoprire in questi mesi di sofferenza
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In queste settimane, ormai mesi, in cui ci troviamo a vivere una quotidianità diversa dove il tempo trascorre principalmente, e in alcuni casi solamente, tra le mura domestiche,  raccontare i propri sogni onirici ai nostri familiari può essere occasione per risvegliare un modo attraverso cui  comunicare con la nostra interiorità. Senza bisogno di alcuna interpretazione possiamo scoprire, per esempio, se sogniamo alcune situazioni in modo simile o diverso. Anche chiedere di raccontare i sogni ai bambini può essere un modo per dialogare con loro e creare un momento quotidiano di ascolto. In caso di incubi notturni, soprattutto per quanto riguarda i bambini, è importante cercare di dare loro rassicurazione e cogliere l’occasione per riflettere insieme su paure o ansie profonde. Attraverso il dialogo e il racconto dei propri sogni e delle proprie esperienze, i timori tendono a placarsi. L’ascolto privo di giudizio affrettato, ma partecipato interiormente, è un insostituibile fonte di benessere;  ciò proprio perché ci aiuta ad ascoltare la nostra interiorità. Ma,  se le ansie del bambino ci appaiono troppo invasive, è bene chiedere aiuto ad un professionista in modo da elaborare, col metodo giusto, l’insieme dei suoi vissuti interiori.

Quindi, anche attraverso il ricordo e il racconto di un sogno, possiamo coltivare una preziosa risorsa per contattare il nostro mondo interiore che oggi, più che in altri momenti, è fondamentale per salvaguardare il nostro benessere psichico.

Dagli studi della neurologia sappiamo che la finalità del sonno è proprio sognare. Infatti in quella  fase del sonno avvengono processi neurologici importanti per l’encefalo. Ma avviene anche una ridefinizione dell’insieme dei contenuti della psiche; le conoscenze pregresse e profonde interagiscono con le esperienze attuali. Il sogno è il risultato, per immagini e sensazioni, di un tale profondo dialogo interiore. Quindi, il sogno ha un’importanza fondamentale per l’uomo. L’interpretazione dei sogni risale ad epoche molte antiche ed appartiene a più culture fino ad arrivare a tempi più recenti, come il famoso libro sull’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud.

Non in tutti i percorsi psicoterapeutici i sogni sono utilizzati come momento riflessivo e di conoscenza di sé. Autori come Jung e la Von Franz hanno ampiamente spiegato come i sogni dei pazienti spesso forniscano una corsia preferenziale verso la parte della personalità più nascosta.

Nel sogno si risveglia una parte più saggia che, se contattata, può aiutare lo sviluppo di una visione più completa della personalità. Il materiale onirico spesso aiuta nel percorso verso il superamento di alcuni sintomi o meglio “malesseri esistenziali”. Marie Louse Von Franz spiega, in modo approfondito, quanto sia complesso interpretare i sogni, in quanto spesso ci rivelano ciò che non vogliamo o sappiamo vedere, ma che rimangono un prezioso mezzo per indagare il proprio universo interiore.

Interessante notare come i sogni, che fanno parte della prima parte della vita, riguardino più facilmente l’adattamento alla vita esteriore e materiale, mentre quelli che riguardano la seconda parte della vita riguardano il mondo interiore e il senso profondo dell’esistenza.

Certo i simboli e le immagini che emergono dal sogno non possono trovare il loro unico scopo in un’interpretazione razionale, poiché ciò snaturerebbe la loro funzione; ossia il contatto con il centro di noi stessi. In quanto ogni essere umano non è definibile solo da ciò che la ragione può comprendere. Il grande filosofo francese Pascal, diceva: “Il cuore ha ragioni che la ragione non comprende”. Il cuore sta a significare non tanto o soltanto il luogo delle emozioni, ma proprio il centro dell’esperienza della personalità. Una entità, la personalità, composta da molte dimensioni. È per questo che Jung amava rappresentarla come un fiore che, composto da tanti petali,  trova nella sua armonia il centro vitale. Ecco che in una psicoterapia, che prevede l’utilizzo del sogno, esso diventa il racconto di una storia parallela al racconto della storia diurna. Una storia che esprime un’esigenza che non sempre è avvertita coscientemente, come la ricerca appunto dell’armonia della propria totalità. Spesso le immagini e i simboli di un sogno riescono a trovare quella sintesi che le parole non possono raggiungere e che è indispensabile per sperimentare il senso di se stessi.  È proprio questo linguaggio simbolico e poetico del sogno ad aprirci ad un uso più artircolato della coscienza, la quale non deve essere considerata come l’unica via che ci conduce alla verità di noi stessi; perché tante cose che albergano dentro in noi, la coscienza non sa vederle nè interpretarle. Il sogno ci porta là dove la ragione non riesce ad andare, in un luogo oltre la ragionevolezza e  l’intelligenza della ragione, eppure un luogo ricco di senso e di significati.

BY: Irene Barbruni

Descrizione dei tipi psicologici: in quale vi riconoscete?
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Sia in noi stessi che nelle persone che abbiamo vicino, riconosciamo diversi tipi di carattere, ossia diversi modi di affrontare il mondo e le relazioni. Ognuno di noi possiede una propria natura, un proprio modo di essere e non esistono delle modalità migliori di altre, poiché ognuna ha dei punti di forza e dei punti deboli. Ciò che conta per il nostro benessere è non tradire mai la nostra natura, ma, se mai, cercare di superare alcune debolezze rimanendo però sempre se stessi.

Nel suo libro, Il concetto dell’angoscia, Kierkegaard sottolinea le necessità del singolo soggetto a divenire ciò che in potenza egli è, pena cadere preda del sentimento dell’angoscia, e della disperazione. Vissuti che sorgono proprio all’interno delle crisi di identità: cioè un soggetto che non sa o non può essere se stesso. Il non poter esser se stesso dipende da situazioni ambientali e relazionali, mentre il non saper essere se stessi dipende dall’incapacità di capire ciò che si è. E qui subentra un altro problema: spesso le persone desiderano essere o somigliare a qualcuno che idealizzano, ma ciò le porta lontane da se stesse. Il tema della perdita della propria natura, viene evidenziato da  un particolare indice del test di Rorschach definito tipo di risonanza intimo primario e secondario. Ciò che determina il possibile malessere in un tipo di personalità non è tanto il fatto che sia un tipo estroverso o introverso (anche se la presenza in modo equilibrato di entrambe le modalità sicuramente risultano un vantaggio), ma se l’attuale modalità adottata dal soggetto è in sintonia con il suo tratto originario. Alcune persone nascono con la tendenza all’introversione, ma per ragioni storiche, ambientali e relazionali della loro vita, hanno dovuto cambiare modo d’essere, divenendo estroversi. Ma sarà un’estroversione un po’ caricaturale, perché non autentica. Può avvenire anche il contrario: l’estroverso che deve divenire introverso, egli si sentirà amputato sperimentando un  profondo disagio.

Questo mutamento della tipologia introverso/estroverso è molto evidente nei processi evolutivi dell’infanzia. Oggi si tende a privilegiare la modalità estrovertita: viviamo in una società che tende più a sviluppare l’estroversione che non l’introversione. In questo periodo di forzata clausura si osserva che sono proprio le persone estrovertite, o con poca attitudine all’introversione, quelle che trovano maggiore difficoltà a sopportare l’inattività. Essendo il loro mondo posto fuori di sé,  avvertono un forte sentimento di esclusione. Mentre la persona che ha una maggiore attitudine all’introversione ritrova dentro sè un mondo con cui interagire.

Ad ogni modo, si diceva che si privilegia l’estroversione per cui i percorsi formativi tendono a sviluppare tale tendenza, non rispettando le effettive autentiche qualità/necessità del soggetto.  Questi processi di mutamento del proprio tipo psicologico portano a difficoltà notevoli nel rapporto con se stessi, con l’altro e con la realizzazione nella propria vita: è meglio quella gallina che sa fare la gallina piuttosto che la gallina che vuole essere un’aquila: quest’ultima si ridurrà a non essere né una gallina né un’aquila.

Quindi si diceva del problema esistenziale del soggetto che non può essere se stesso o non sa essere se stesso. Non può per ragioni ambientali, mentre non sa essere se stesso perché ignora ciò che gli è necessario. Spesso è proprio questo il tema di molti percorsi di psicoterapia: la scoperta della proprie soggettive  necessità.   

Quindi è importante cercare di conoscere la nostra natura per non tradirla o, peggio, cercare di assumere un tipo di atteggiamento che ci porta all’opposto di ciò che siamo. Cerchiamo quindi di descrivere alcune tipologie di personalità descritte dal noto psicoanalista C.G.Jung. Come abbiamo detto si può distingue tra tipo estroverso e tipo introverso (concetti ripresi appunto nel test di Rorschach). Questa dinamica duale e profonda interagisce con le quattro funzioni psicologiche fondamentali che sono: pensiero, sentimento, sensazione ed intuizione. 

Come abbiamo detto ognuno di noi possiede una propria natura, un proprio modo di essere e non esistono delle modalità migliori di altre, poiché ognuna ha dei punti di forza e dei punti deboli. Ciò che conta per il nostro benessere è non tradire mai la nostra natura, ma, se mai, cercare di superare alcune debolezze rimanendo però sempre se stessi.

Abbiamo descritto la dinamica degli aspetti introversivi ed estroversivi della personalità (concetti descritti dal noto psicoanalista C.G.Jung). Questa dinamica duale e profonda interagisce con le quattro funzioni psicologiche fondamentali che sono: pensiero, sentimento, sensazione ed intuizione.  Queste funzioni sono organizzate in opposizione. Il pensiero trova il suo opposto nel sentimento, come la sensazione trova il suo opposto nell’intuizione e viceversa.

Ogni persona tende a sviluppare in modo prioritario una delle quattro funzioni. Così nel corso del tempo quella funzione diviene prevalente declinando la personalità verso le caratteristiche di quella funzione. Il modo di sentire, pensare ed agire viene colorato da quella funzione prevalente,  lasciando sulla sfondo, diremmo a livello inconscio, la funzione opposta.  La funzione opposta per il fatto di rimanere a livello inconscio, non riesce ad evolvere in modo equilibrato, per cui rimane immatura rispetto alla funzione prioritaria. 

Se noi pensiamo, ad esempio, a quelle professioni che richiedono abilità per lo più legate alla razionalità, potremmo notare la forte presenza nella persona della tipologia pensiero piuttosto che la tipologia sentimento. Un certo tipo di professione richiede lo sforzo di essere sempre logici, razionali e distaccati per poter essere maggiormente efficienti. Non che il soggetto non abbia sentimenti, ma quella dimensione gli è di difficile gestione, così sarà portato a cercare di razionalizzare tutto, anche il campo dei suoi affetti. Naturalmente questa è una definizione caricaturale cioè estrema, nel caso quel particolare soggetto non si sia  preso cura anche delle altre sue funzioni: del sentimento, della sensazione e dell’intuizione. Perché nel corso della vita comunque siamo sollecitati ad usare tutte le quattro funzioni. Quando quella particolare persona si innamora,  ma pretende di gestire quel sentimento e quella relazione come gestirebbe il suo lavoro, si condanna ad allontanarsi dal mondo del sentimento per rifugiarsi nel solo mondo del pensiero. Il sentimento non viene annichilito, ma rimane a livello inconscio in modo tale da non essere riconosciuto nella sua essenza. Questo è quel fenomeno che molti soggetti vivono quando non riescono a capire i sentimenti che provano, proprio perché la loro coscienza è lontana dal modo del sentire profondo. Il problema non sarà l’incapacità di amare, ma la difficoltà ad esprimerlo.

 Come abbiamo detto, ognuno, in base alla professione che esercita, è spinto più verso una dimensione, lasciando sullo sfondo le altre.  Ecco che l’introspezione e quindi l’osservazione di sé divengono fondamentali per un equilibrio più maturo della propria personalità. Insomma l’antico monito citato da Socrate, scritto sul tempio di Apollo a Delfi che recita: “Conosci te stesso” è fondamentale per la personalità che cerca l’armonia. Un po’ di introversione fa bene all’estroverso, come un pò di estroversione fa bene all’introverso, per ricordare ciò che abbiamo detto nel precedente articolo. Là dove siamo sollecitati al pensiero dovremmo tuttavia chiederci a quale sentimento questo è associato, e viceversa. Quale è la trama narrativa del sentimento che viviamo e in quale complessità esso si articola.

Così per ciò che riguarda le intuizioni è bene chiederci se si tratta proprio di intuizione o invece è una sensazione.  Per fare un esempio della differenza tra le due possibilità di metterci in contatto con la realtà nella quale siamo immersi, prendo spunto da due correnti pittoriche. L’impressionismo deriva senza dubbio dalla sensazione: basti pensare ai quadri di Monet. Il bellissimo dipinto titolato Le ninfee, è proprio una chiara raffigurazione di come l’autore si sia fatto prendere dalla pura sensazione del giardino che voleva ritrarre. Per quanto riguarda invece l’intuizione basti pensare ai quadri del romanticismo, per esempio a Caspar David Friedrich e al suo dipinto titolato, Viandante su un mare di nebbia. Se nell’impressionismo prevale la sensazione di quel paesaggio, nel romanticismo si svela l’intuizione intima tra autore e paesaggio; qui è rappresentata proprio l’unione mistica che è colta sul piano dell’intuizione. Spesso non siamo in grado di distinguere tra le due possibilità della nostra realtà interiore. Tuttavia l’esercizio dell’analisi introspettiva e l’osservazione dei nostri sogni, ci aiutano a guardare dentro di noi, e ciò ci insegna ad orientarci nel mondo sconfinato della vita profonda della nostra  Anima. 

BY: Irene Barbruni

Menopausa: i significati di una fase importante nella vita di una donna
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Il termine menopausa deriva dal greco ed è composto da mese e cessazione proprio perché corrisponde alla fine del periodo fertile nella vita di una donna. Non è una malattia, ma a volte questo cambiamento determina alcuni disturbi, poiché la scomparsa del ciclo porta anche alla mancanza di alcuni fattori protettivi. Ai cambiamenti ormonali e fisici si aggiungono gli elementi psicologici legati a questo periodo della vita. Nelle civiltà antiche la donna che entrava in menopausa acquisiva un potere particolare legato alla purezza ritrovata. La donna aveva, a quel punto della vita, portato a termine le fasi/trasformazioni legate al femminile (pubertà, adolescenza, maternità) e di conseguenza, la donna poteva accedere alle più alte cariche civili. Le donne diventavano una guida e avevano il ruolo di mantenere costante il legame tra comunità e mondo spirituale con vere e proprie funzioni sacerdotali. Ciò ritrova riscontro se si legge simbolicamente ciò che accade nel periodo della menopausa in cui l’energia si sposta dal basso all’alto e quindi alla coscienza; le vampate di calore ben testimoniano questo passaggio. Un momento certamente diverso ma di grande valore. Purtroppo oggi nella nostra cultura prevale spesso il timore e il vissuto di un evento negativo poiché legato all’invecchiamento. Oggi in cui viene esaltata la giovinezza e la buona salute, ma ancora più profondamente viene sposata una visione materialista a scapito di quella spiritualista.

Ogni donna dovrebbe cercare di scavalcare i vissuti negativi che derivano da una distorsione culturale, per dare il giusto posto e valore ad una fase della vita che non toglie ma aggiunge e completa la personalità. Infatti se il benessere, cioè il sentirsi bene, deriva prevalentemente dall’ immagine di sé offerta agli altri, una donna che si sente invecchiata, trae da ciò una diminuzione di valore soggettivo. Più siamo condizionati dalle icone della società consumistico/edonistica, più avvertiamo una sottovalutazione di noi stessi, quando vediamo i segni del tempo che passa. Mentre una donna che entra nella menopausa dovrebbe valutare la propria maturità raggiunta e quella ancora da raggiungere. Guardare al proprio processo spirituale più che all’aspetto immediatamente visibile. Nell’immaginario collettivo femminile la menopausa, intesa come fine della capacità riproduttiva, è vissuta come una limitazione del ruolo femminile. Anche se nella società contemporanea la donna non è più essenzialmente identificata con la capacità riproduttiva, è comunque identificata con la bellezza fisica così come si evidenzia nell’età giovanile. La fase della menopausa è quindi caricata di significati psicologici e legati all’identità tale da suscitare il senso di una mutazione che sancisce la fine di un’epoca: quella giovanile.  Il problema quindi va fatto rientrare proprio nell’identificare la gioventù come la vera età dell’oro. Il senso e la bellezza della propria vita non si esaurisce nella sola giovinezza, ma si prolunga nelle varie stagioni che la compongono. Perché è proprio l’accumulo di esperienze, prima vissute, poi delucidate e comprese nel loro significato, a costituire la vera effige di ogni essere umano. Non tanto quindi l’aspetto esteriore, ma la complessità della natura interiore dovrebbe essere posta al centro della nostra attenzione. Una capacità che ci porterà a migliorare il rapporto con noi stessi e con il nostro prossimo, garantendoci il vero benessere, in quanto capaci di stare bene con noi stessi. La menopausa quindi va affrontata con serenità, accettando il passaggio di stagione nella propria vita, ma confidando che in quella nuova stagione troveremo i frutti che ci servono per il nostro divenire.

Quindi oggi è importante che ogni donna riacquisti consapevolezza del proprio ruolo legato al mondo spirituale: ogni fase della vita deve essere vissuta tenendo conto del valore che apporta, poiché ogni stagione di quella vita ci conduce alla realizzazione  della pienezza della nostra Persona.

BY: Irene Barbruni

I TEST PSICOLOGICI COSA SONO E QUANDO VENGONO UTILIZZATI
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Il test psicologico è un reattivo (cioè un insieme di stimoli che attivano nell’individuo diversi tipi di reazioni) che viene utilizzato per avere una misurazione standardizzata ed obiettiva di determinate reazioni psichiche. La standardizzazione del test implica una determinata procedura di somministrazione che permette di poter comparare i dati di un individuo con il campione di riferimento.

In generale, i test psicologici vengono utilizzati per due ragioni fondamentali. La prima in quanto in determinati contesti (come ad esempio in quello giuridico o comunque nel momento in cui è necessario stendere una relazione psicodiagnostica) è importante affiancare alle osservazioni del professionista, dei dati più “obiettivi”. La seconda ragione è che il test permette di raccogliere molti dati in un tempo più breve rispetto ai colloqui psicologici; a volte è necessario cercare di approfondire lo stato psicologico di una persona nel più breve tempo possibile per diversi tipi di ragioni.

Importante è sottolineare però che sono strumenti che hanno un certo grado di obiettività, ma che comunque risentono del professionista che li somministra il quale, per non incorrere in errori, è bene che riferisca i dati raccolti alle informazioni circa la storia del paziente. Non è dal test che si legge la storia del paziente, ma dalla storia del paziente si comprende meglio il test.  Quindi bisogna sempre tener presente i limiti dello strumento; la somministrazione senza avere un minimo di informazioni sul testato non è possibile. I dati di qualunque test vanno quindi interpretati alla luce della persona che si ha di fronte, integrandoli  con i dati eventuali di altri test che possono aiutare al fine di raggiungere un’interpretazione più coerente e veritiera. Insomma solitamente si utilizzano due o tre test soprattutto quando si deve analizzare la personalità; la somministrazione è comunque affiancata da un certo numero di colloqui clinici.

Esistono tantissimi tipi di test che vengono scelti in base alla finalità dell’utilizzo. Per semplificare possiamo suddividerli in: test di intelligenza, test che misurano altre facoltà specifiche, test clinico-diagnostici e i test di personalità.

I test di personalità hanno lo scopo di esplorare la personalità nella sua globalità o in qualche dimensione più specifica. L’interpretazione di questi tipi di test prevede la lettura dei dati raccolti  non solo quantitativa ma anche qualitativa. In particolare i test proiettivi raccolgono informazioni che sono soltanto in parte conteggiabili; questo perché cercano di cogliere i processi inconsci. Per esempio due test proiettivi molto utilizzati sono il Rorschach e il T.A.T (in età adulta) o il C.A.T. (in età infantile). In queste tipo di prove le risposte o il racconto di storie (nel Thematic Apperception Test e nel Children’s Apperception Test ) costituiscono una produzione personale dell’individuo. Infatti non esistono risposte giuste o sbagliate e le informazioni raccolte costituiscono materiale unico e personale che rivela informazioni inconsce.

I test proiettivi propongo al paziente una figura ambigua, cioè, non definita, ed è proprio il processo mentale di completamento di quelle figure incomplete che fa scaturire, dal profondo della personalità, gli elementi che saranno utili allo psicologo per comprendere le tematiche presenti in quella personalità. Oltre a ciò si rende visibile la modalità di utilizzo dei processi sia percettivi che elaborativi del soggetto testato. Mentre i test a questionario si prestano maggiormente al confronto con i dati statistici, i test proiettivi sono utili anche per studiare  le modalità  soggettive del pensiero del paziente. Tutti siamo frequentemente sottoposti a prove proiettive, basti pensare al semplice gioco di interpretare la forma delle nuvole in cielo. Ognuno ci vede una certa figura. Possiamo ben dire: una propria figura, nel senso che è un’esperienza soggettiva. Oppure pensiamo a come ciascuno vive ed interpreta, ogni qualvolta vede un film, o legge un romanzo. Interpretare la realtà è una delle caratteriste più importanti e più usate: in quell’interpretazione vengono rivelate le tematiche custodite nel profondo del soggetto. Perché in fin dei conti ciascuno vive in modo personale ogni evento della sua vita, ed è quel modo personale che interessa l’indagine psicologica che si svela attraverso il test proiettivo.

Quindi, da una parte certi test ci aiutano prevalentemente a collocare il paziente entro una griglia statistica, mentre i test proiettivi permettono di individuare anche la modalità di quella soggettività, cercando i tratti difettosi e quelli più evoluti, utili per il percorso di  aiuto alle tematiche del paziente.  

BY: Renato Barbruni

Il dolore quale interlocutore dell’anima
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    La colpa connessa con il male, sia come malattia che come sciagura, impone la sua presenza da tempo immemore. Nell’interpretazione buddista la sofferenza è figlia terribile del karma, della colpa individuale. Risolvendo la situazione karmica, che il soggetto vive e subisce, troverà la verità del proprio irrisolto, e in quell’istante  troverà la pace. Nel cristianesimo la sofferenza del singolo individuo può non essere legata ai propri errori, ma alle colpe dell’umanità. Nella leggenda del Grande inquisitore, nel romanzo di Dostoevskij, I fratelli Karamazov, è descritta la catastrofe esistenziale dell’ateismo tragico. E’ Ivan, uno dei fratelli Karamozof, a parlare:“ Non è che non accetti Dio, (…) la mia è una rivolta. (…) Immagina di essere tu a edificare il destino  degli umani con lo scopo di rendere felici gli uomini, di concedere loro, alla fine, pace e serenità, e che per farlo sia necessario e inevitabile fare soffrire anche una sola creatura, quella bambina, per esempio. (…) ebbene acconsentiresti ad essere l’artefice a queste condizioni?” “No, non acconsentirei” disse Alëŝa. 

      Ivan si ribella all’idea che la salvezza passi attraverso la sofferenza dell’innocente. La sofferenza sarebbe giustifica se colpisce il colpevole, ma come la si può accettare quando è patita dall’innocente? Ma proprio affidare all’innocente la salvezza dell’umanità è al centro della sensibilità cristiana. Perché se la si patisce, la sofferenza, è tanto più di valore quanto più chi la patisce è innocente. Quindi non è una pena, né un risarcimento, ma la partecipazione al male oscure di cui è impastata l’esistenza. Infatti il male crea un’onda che colpisce ovunque, ed è quel bambino che, sofferente, patisce/subisce le conseguenze del mio agire malefico. E ciò in quanto c’è una profonda ed inalienabile interazione tra gli essere umani. L’ateismo tragico trova il suo fondamento in una visione cosmogonica in cui il male è fatto espiare agli uomini, come punizione calato dall’alto.  Cosicché costituisce una terribile ingiustizia quando colpisce l’innocente. “Perché proprio mio figlio deve patire questa sofferenza, questa menomazione, così piccolo e così innocente?” si domanda angosciata e ferita al cuore la madre del bambino malato. Tanto più tremenda è la malattia tanto più appare ingiusta. Ma il problema non è la malattia come castigo o conseguenza di una vita sbagliata, il problema è la presenza del dolore e di ciò che ne vogliamo fare. Fuggirlo finché è possibile? Ma esso è così intimo alla vita che prima o poi ce lo troviamo dinanzi, spavaldo, potente,  deciso a non  venire a patti. La situazione terribile del dolore non è attenuata dall’idea che è un castigo degli dei. L’unica via è quella di considerare il dolore come parte integrante della vita, di considerarlo come l’interlocutore più acuto ed intelligente per la nostra anima. Il dolore Sà quali paure albergano dentro di me, il dolore Sà quali debolezze, quali miserie si muovono e tengono prigioniera la mia anima. Non è un’esperienza muta, ma un’esperienza che edifica, che trasforma. Questo processo potente di mutazione e di trasfigurazione non solo agisce su chi patisce direttamente il dolore, ma anche su coloro che  amano e quindi patiscono con colui che si trova nel dolore. Il tema pittorico denominato “il compianto sul Cristo morto”,  non mette in scena solo la sofferenza del cordoglio, ma una partecipazione intima scoperta attraverso  la potenza del dolore, ma mutata dalla potenza più profonda e trasmormativa dell’amore. Questa convergenza di uno sull’altro, è potente, tanto da ridurre al minimo le barriere delle monadi in cui ciascuno si è chiuso. Il dolore li convoca a prendersi cura l’uno dell’altro, a sviluppare quel linguaggio attraverso cui si esprime l’atto della comunione nella sofferenza, tale da creare tra i due, e con i due, una cosa sola.  “Come tu Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola.”[1]       Ed è qui che il dolore riceve la sua sconfitta: da agente distruttore che scinde la struttura dell’essere, a esperienza sintetica che la glorifica. Questa convergenza, allora,  racchiude in sé il movente e la gestualità della comunione d’amore, dell’azione che promuove la Sintesi dell’essere. Perché nell’ora della passione, il mondo converge su se stesso in un tale atto di raccoglimento da modificare la struttura intima della materia e liberarla dal male oscuro che la annichiliva.   


[1] Giovanni 17,21

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