BY: Renato Barbruni

Mito e coscienza collettiva
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Il mito, inteso come narrazione di gesta di personaggi eroici, rappresenta, nel pensiero junghiano, il presentarsi al livello della coscienza collettiva della trama della realtà profonda che non avrebbe altrimenti modo di essere percepita. Il mito è la manifestazione per immagini delle strutture atemporali, gli archetipi, dell’inconscio collettivo. Il mito inoltre ha acquistato, nello sviluppo del pensiero junghiano di Silvia Montefoschi, la rappresentazione, o la metafora, di accadimenti nel divenire dell’essere. Nel mito, come nella leggenda e nella favola, è la psiche stessa profonda che si narra, racconta di sé, o meglio si dispiega in quella narrazione. Il materiale mitologico non è quindi da spiegare ma da ascoltare. Vi è una differenza fondamentale tra la nozione di “spiegare” e la nozione di “ascoltare”. Spiegare in ultima istanza vuole dire ricondurre un certo fenomeno a un significante che lo renda significativo, ma questa operazione appiattisce la realtà a ciò che già si conosce di essa; l’ascolto equivale invece a una sorta di contemplazione della cosa atta a far sì che da essa io tragga una dimensione non prima conosciuta.
In questa sezione partendo da questi presupposti verranno presentati vari elementi mitologici presenti nella nostra realtà contemporanea, e discussi alla ricerca del loro valore evolutivo.
Gli autori da cui si trarrà ispirazione oltre a Jung sono Silvia Montefoschi e James Hillmann che rappresentano i due più importanti continuatori del pensiero junghiano. Essi sono gli autori che più hanno contribuito allo sviluppo dell’opera speculativa di Jung.

BY: Renato Barbruni

Indicazioni e suggerimenti per chi inizia una psicoterapia
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Il RAPPORTO CON IL SE’ PROFONDO

  • Che cosa si intende per vita spirituale
  • La fonte della vita spirituali

In questo contesto la vita spirituale assume i connotati di esperienza di se stessi di fronte a se stessi. Ognuno di noi vive una tale esperienza, ma di essa spesso non si accorge poiché non vi presta la necessaria attenzione; certo è che chiunque ha una vita spirituale. E’ infatti esperienza di tutti il fatto che quando rivolgiamo il pensiero alla nostra realtà interiore, ciò ci rivela la presenza di un mondo che non sappiamo descrivere adeguatamente. Tutti possiamo riconoscere il fatto che di fronte a certi accadimenti, più o meno significativi e dirompenti della nostra vita, sentiamo qualcosa che percepiamo come assolutamente nostro, individuale e soggettivo. Questo modo soggettivo e personale di vivere gli accadimenti compone l’insieme della vita spirituale. E questo campo di esperienza costituisce il vero oggetto del lavoro psicoterapeutico. E’ lì che noi soffriamo o gioiamo; è da lì che traiamo orientamento per le scelte importanti della nostra vita. La fonte della nostra esistenza è dentro di noi, in quel luogo che da sempre è chiamato la Vita Interiore, o Anima.

CHE COS’E’ LA PSICOTERAPIA ANALITICA

  • Aiuto
  • Analisi e introspezione
  • Le immagini interiori
  • Mutamento e rapporto con le proprie immagini


“…nello spazio interiore dell’Anima danzano i sogni e le speranze per la nostra vita…”

La psicoterapia analitica è quella prassi di intervento sul disagio psicologico che trova nella coriflessione (tra paziente e analista) sulla dimensione interiore degli accadimenti dell’esistenza, il momento essenziale al fine di superare lo scacco esistenziale espresso nella modalità del sintomo.
L’orientamento teoretico e filosofico che ispira la prassi psicoterapeutica da me esercitata si inscrive nella psicologia analitica di orientamento junghiano e nella psicologia umanistico-esistenziale. In queste psicologie, più che in altre, il sintomo, cioè il grumo di sofferenza patito, è collocato lungo lo scenario dell’esistenza della Persona, in quanto punto-momento di interruzione del fluire autentico della vita. Il sintomo, quindi, in questa visione olistica dell’essere umano, non può essere svincolato dall’insieme delle esperienze profonde del soggetto.

La nozione di “psicologia” in questo contesto filosofico e teoretico, riacquista il significato di discorso della psiche dove al termine psiche viene restituito il suo originario significato di Anima in quanto momento interiore in cui gli accadimenti si traducono in significativi per il soggetto. Gli accadimenti della vita sono sempre gravidi di significato per il soggetto che li vive. Quel significato può essere colto direttamente oppure può sfuggire alla capacità di comprensione. Il significato di un accadimento della vita può esser colto sul piano del pensiero, quindi con un forte grado di consapevolezza, ma può essere anche colto su altri piani quali per esempio a livello emotivo, a livello somatico, e più in generale esso può segnare una traccia di sé come sintomo psico-logico: cioè può divenire oggetto psichico. Psicologia analitica significa quindi analisi della psiche nelle sue rappresentazioni per immagini interiori. Queste immagini costituiscono il riflesso dei contrappunti dell’esistenza. La psiche, in questa concezione filosofica, non è indicata e definita come organo pensante dell’essere umana, essa in effetti trasborda dalla mente, si espande all’esistenza complessiva. L’esperienza psichica colora tutta la vita del soggetto, manifestandosi in vari ambiti.

Tutta la nostra realtà è costituita da Psiche. Questa affermazione merita una ulteriore spiegazione. E’ opinione comune ritenere che la psiche sia come un organo collocato dentro il nostro cervello. Quindi avente una sua collocazione spaziale ben definita. Più che un organo, essa è meglio rappresentabile come un momento spazio temporale del continuum dell’esistere della Persona. In altre parole si può dire che mano a mano che noi esistiamo punteggiamo la trama dell’esistenza di momenti in cui riflettiamo dentro di noi ciò che viviamo e siamo (ciò che vivendo siamo); questa riflessione interiore, come una specie di registrazione dell’accadere, è l’evento psichico, esso da “luogo” a Psiche, o meglio all’esperienza psichica. Non bisogna però pensare che la “registrazione” avvenga sempre in modo volontario e consapevole, infatti la maggior parte degli accadimenti raggiunge l’organo registratore in modo del tutto naturale senza la partecipazione dell’atto di volontà. La volontà infatti è un prodotto di Psiche, non è il contrario.


“…quando l’armonia rischiara i miei pensieri, l’incanto si svela ai miei occhi…”

STRUMENTI E PRASSI

Lo svolgimento di una psicoterapia attraversa varie fasi e si esprime in diverse modalità in cui vengono utilizzati diversi “strumenti”. Il punto centrale è il colloquio che si instaura tra paziente e analista. Il colloquio si esprime in diversi stili e si orienta ai diversi e molteplici contenuti della vita della Persona. Si passa dalla biografia del paziente all’analisi dei suoi vissuti e dei sentimenti ad essi collegati fino all’interpretazione dei sogni. Attraverso il racconto di episodi salienti della vita si giunge ad una comune riflessione sul valore di quegli accadimenti e sul loro significato oltre che sulla loro portata esistenziale, quanto cioè quegli accadimenti abbiamo inciso sulla vita. Proprio attraverso la riflessione sugli avvenimenti salienti della vita è possibile per il paziente rendersi conto delle proprie intenzionalità più autentiche. La presa di coscienza di queste varie intenzioni conduce ad una più profonda conoscenza di sé, a quella che viene chiamata “allargamento della consapevolezza di sé”. Spesso, infatti, le persone non hanno coscienza del vero motivo che le ha spinte ad una certa scelta o ad una certa rinuncia. Questa erronea conoscenza di sé spesso si traduce in un senso più o meno profondo di insoddisfazione. L’insoddisfazione in effetti è la spiacevole sperimentazione soggettiva della distanza tra ciò che penso di me e ciò che vedo di me stesso. Un percorso psicoterapico non si esaurisci nell’osservazione del passato, ma, in questo contesto, si sviluppa nell’abbracciare le istanze in avvenire, cioè in ciò che stimola e motiva il soggetto nella sua vita. E’ quindi molto importante osservare i desideri, i progetti, gli aneliti della Persona dato che ciò fornirà un quadro più esauriente per una conoscenza più profonda.

Studio biografico

Il raccontare la propria vita è una delle attività verbali più frequenti tra le persone. E’ qualcosa che tutti fanno sia pure senza un particolare metodo e senza una finalità precisa se non quella di comunicare in fondo chi siamo. Ma non è poi così semplice raccontare di sé, o meglio sapersi raccontare al fine di conoscere meglio la nostra vita. Per un psicoterapeuta è estremamente importante acquistare la capacità di facilitare il racconto di sé da parte del paziente. Jung diceva che la psicoterapia in fondo è un’arte, e in questo contesto è più evidente cosa intendesse dire. Il dialogo tra paziente e analista si può sviluppare in tanti modi, certo è importante che l’analista abbia l’abilità necessaria a far sì che il suo paziente riesca a narrare di sé nel modo più spontaneo e libero ma anche creativo. Questa qualità dell’analista (in parte derivante dalla sua preparazione, in parte proveniente dalla sua predisposizione personale in quanto elemento della sua personalità), aiuta il paziente ad inoltrarsi dentro di sé alla ricerca di quel saliente momento che c’è in ogni esperienza vissuta. Il racconto può risultare piatto e banale come in effetti la vita sembra mostrarsi, ma se sappiamo raccontare e ascoltare in modo adeguato, si procedo oltre quella apparente banalità, e scopriamo momenti che così acquista valore di significativo per la nostra vita. Vi sono registi cinematografici o scrittori che pur narrando di vite quotidiane fatte da sentimenti consueti riescono a trarre un’opera d’arte da quelle immagini e da quelle storie. Quello che comunemente è chiamato momento artistico è quel magico momento in cui ci appare un senso delle cose che trascende la realtà puramente materiale. Così capita che mentre raccontiamo di quella particolare volta in cui eravamo con gli amici, in quella particolare sera abbiamo capito qualcosa di significativo di noi o della persona che amiamo. Questo momento magico è reso manifesto dal saper raccontare.

Il sonno

E’ determinante dormire bene, ed intervenire sul sonno disturbato è essenziale. Ci sono vari modi per facilitare il recupero di un sonno soddisfacente. Di fronte ad un sonno con gravi motivi di disturbo l’ausilio del farmaco diviene necessario. Il medico curante saprà trovare il farmaco più adatto, in quanto lo psicologo non può prescrivere farmaci non avendone la preparazione specifica. A parte queste considerazione preliminare necessaria relative a situazioni di disturbo particolari, si possono indicare suggerimenti che se attuati opportunamente sono in grado di farci migliore la qualità della ore destinate al riposo e alla notte. Un aspetto su cui è bene riflettere è proprio la “qualità delle ore notturne”. Nella nostra cultura non si dà molto importanza alla qualità delle ore notturne altrimenti non vedremmo riempite le notti di tanto clamore e confusione; non assisteremmo alla continua ricerca di ora da vivere svegli, quasi che la notte e il sonno siano delle tasse da pagare che si cerca di eludere. La notte come tale non ha alcun valore nella attuale cultura. Riflettere sul significato e sul valore che diamo alle ore notturne è dunque il primo passo. Da qui possiamo trovare il modo di riorganizzare il tempo della notte, partendo dalle ore serali. Questa riorganizzazione va progettata su misura per ogni individuo in quanto ciascuno ha la propria sensibilità e il proprio temperamento. La qualità della vita serale e notturna migliora la possibilità di sognare. Dormire (bene) è molto importante al fine di sognare e contemplare e contemplare, attraverso il sogno, la realtà interiore. Infatti molti studi sull’argomento hanno confermato che noi dormiamo per sognare. Il motivo dell’importanza del sogno è relativo alla riorganizzazione delle tracce della memoria.

Il sogno

Da un lato è utile l’interpretazione del sogno, ma dall’altro è oltremodo determinante per recuperare la capacità contemplativa troppo spesso compromessa dall’uso costante e prevalente del pensiero razionale. Introdursi nel linguaggio simbolico e poetico del sogno promuove una inversione degli abituali modi di pensare – per cui la realtà è solo quella chi ci appare là di fuori -, mentre nell’esercizio contemplativo delle immagini del sogno, lentamente ci rendiamo conto che la realtà è più sfumata e meno cristallizzata, ed è colta nella sua trasparenza da ciò che appare.

Il diario personale

Redigere un proprio diario personale è una forma di scrittura oggi non più comunemente usata, ma essa trova nel lavoro analitico un suo spazio e una rinnovata dignità. Lo scrivere di sé, per se stessi ha lo scopo di aiutare il soggetto a ritrovare quel dialogo interiore smarrito che se esercitato con la necessaria serietà ed impegno può aiutare lo sviluppo di modalità di pensiero, quali ad esempio il pensiero poetico, che conducono a rivelazioni del nostro mondo interiore insospettate.


“…rileggendo le mie parole riscopro un senso dimenticato…”

PAROLE INTRODUTTIVE AL PERCORSO DI ANALISI

Qualche raccomandazione e qualche suggerimento per chi inizia un lavoro di conoscenza di sé sono necessarie, in quanto possono aiutare il soggetto desideroso di svolgere bene il proprio compito di ricerca personale. Innanzi tutto è molto importante trovare il giusto analista: quella persona che per caratteristiche professionali, legate alla sua formazione, e per caratteristiche personali, sia in grado di stabilire col suo paziente un giusto rapporto di reciproca collaborazione. E’ in questo senso che ho voluto realizzare un sito web attraverso il quale rendo nota la mia preparazione e il mio percorso formativo. Nel sito ho infatti inserito il mio curriculum professionale e formativo per dare un quadro di riferimento a chi è alla ricerca di un analista. Fatta questa necessaria premessa soffermiamoci sul paziente o Persona in analisi.

E’ bene che la Persona si collochi con un atteggiamento di fiducia nel lavoro di ricerca interiore. La costanza delle sedute, la giusta concentrazione sono atteggiamenti indispensabili per il buon esito della terapia. Inoltre è bene alle volte leggere qualche libro che l’analista suggerirà in funzione dei bisogni conoscitivi della Persona.
Esistono fondamentalmente tre tipi di psicoterapia. La psicoterapia breve; la psicoterapia d’appoggio, e la psicoterapia analitica.
Un terapeuta preparato e ricco d’esperienza sa destreggiarsi in tutte e tre le forme, e sceglierà quella più appropriata in base alle esigenze e in funzione alle aspettative della Persona.
Solitamente un terapia breve ha una durata di qualche seduta ed è mirata ad alleviare la presenza di un particolare sintomo dalla vita del paziente. Naturalmente il sintomo in questione non avrà una particolare tenacia o non sarà profondamente radicato nell’esperienza interiore della Persona, altrimenti un terapia breve non può avere nessun effetto durevole. Spesso si scambia l’effetto della semplice rassicurazione (che alle volte ha buon esito in personalità plastiche) come una forma di terapia breve. O altrimenti si scambia l’assuefazione ad un certo comportamento appreso come terapia breve. Nessuna terapia breve più veramente risolvere un vero problema, lo più attenuare o peggio nascondere. Si deve essere molto chiari su questo. Quando la situazione sintomatologica della Persona è complessa e profonda l’unica via è una psicoterapia di ampio respiro che tocchi vari elementi della personalità.

La psicoterapia d’appoggio è indicata in particolari stati d’animo di sofferenza, in situazioni esistenziali dove la Persona ha smarrito la sua naturale capacità di affrontare i problemi in modo autonomo. In questi casi necessita di un appoggio per prendere certe decisioni o per maturare un più appropriato atteggiamento di fronte a certe nuove necessità. Immaginiamo ad esempio quando la Persona si trova a vivere un lutto improvviso, o una separazione particolarmente sofferta. Spesso queste sofferenze hanno solo bisogno di un qualificato appoggio che sappia, sia pure attraverso un sostegno, spingere la Persona verso il rinnovamento di sé, un rinnovamento che restituisca un senso nuovo alla propria vita. In questo ambito l’elemento “conoscenza di sé” assume una portata circoscritta e comunque mirata al campo della decisione. Non va comunque mai dimenticato che la “conoscenza di sé” è il primo atto di ogni agire. L’azione dell’uomo è sempre in qualche modo legata a ciò che “egli sa di sé”, o semplicemente e più frequentemente a ciò che “egli pensa di sapere di sé”. Spesso infatti decidiamo cose sbagliate perché abbiamo una errata visione di noi stessi. Quindi “sapere di sé” è fondamentale. La differenza è l’approfondimento di questo “sapere”. Nella psicoterapia d’appoggio è un sapere limitato e circoscritto alla situazione in se stessa; nella psicoterapia analitica il sapere di sé diviene il punto centrale. Il lavoro nobile è la conoscenza di sé, il sottoprodotto o effetto è il giusto comportamento, giusto in quanto consono a quel sapere di sé.


“come una musica l’incanto e la gioia guidano i miei passi, dimentico di tutto mi abbandono al sogno…”

GLOSSARIO

Autentico. Termine che nella psicologia esistenziale vuole indicare la vera vita del soggetto in quanto la vita che il soggetto conduce ed esprime rispetta pienamente le sue intrinseche vocazioni, e la sua vera particolare natura.

Co-riflessione. Costituisce il momento dell’alleanza riflessiva tra analista e paziente. E’ una della fase dell’analisi che sono: espressione – accoglimento; dialogo-richiesta – risposta-delucidazione; sintesi coriflessiva

Dimensione interiore. La risonanza intima degli accadimenti della vita, e inoltra la rielaborazione soggettiva degli accadimenti dell’esistenza che sono: esperienze, progetti, aneliti, sentimenti e vissuti.

Disagio psicologico. L’insieme delle sofferenze psicologiche che definiscono e esprimono un malessere che impedisce o semplicemente ostacola la vita del soggetto

Esistenza. L’insieme della vita sul piano biologo, relazionale e sociale, spirituale e ideale di ogni singolo soggetto umano.

Intenzionalità. Si intende quella spinta verso quel qualcosa che ci è intimamente necessario; anche quel manifestarsi di un anelito strettamente relativo alla profonda immagine di noi stessi.

Olistico. Termine che designa lo scenario complesso della vita di in soggetto, per cui nulla delle particolari esperienze che egli fa può essere separata dalle altre. L’uomo nei suoi vari comportamenti, atteggiamenti, pensieri e sentimenti è sempre un tutt’uno altamente organizzato in un significato che totalmente lo rappresenta.

Scacco esistenziale. Frattura traumatica, o impedimento del fluire dell’esistenza, contratta nella forma inautentica della monotonia senza speranza di divenire se stesso da parte del soggetto.
Sintomo. Manifestazione visibile o comunque percettibile da parte del soggetto del suo disagio esistenziale.

BY: Renato Barbruni

Le dimensioni dell’amore
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L’ESPERIENZA DELL’AMORE

Partiamo dall’anima per parlare dell’amore, poiché l’amore è un’esperienza dell’anima, poiché nell’amore l’anima fa sì che noi si faccia esperienza del mondo.
L’anima è il farsi persona del mondo, e lo può fare soltanto nelle esperienze totalizzanti, una di queste è l’amore.
L’amore ci percuote fino nel più profondo anfratto del nostro essere, al limite estremo della nostra forma esistente. L’amore trasforma e trascende, l’amore insegue e persegue. Nell’esperienza d’Amore ciascuno sente la necessità di andare altro se stesso, è quel senso di inadeguatezza che accompagna il momento dell’essere in-amore. Dire “sì” all’Amore è dare assenso al proprio spirito innovativo, poiché l’Amore svanisce quando svanisce l’anelito al proprio divenire. In questo caso assoggettiamo l’esperienza d’Amore alla conservazione della nostra quiete, non ci affidiamo alla sua (dell’Amore) spinta innovativa. Chi Ama è in perenne rinnovamento, rimane giovane nello spirito.
L’Amore è uno dei temi dell’Anima, ed è probabilmente il tema entro il quale si esprime l’Anima come discorso, come movimento verso la sua realizzazione. In Amore l’Anima si invera. E’ questo il senso della favola greca di Eros (Amore) e Psiche (Anima). E’ l’incontro con Eros che rende Vera, attuata, Psiche (Anima).

L’AMORE COME INCANTO SOGNO E PASSIONE

L’esperienza dell’incanto che come un’aura circonda l’amante preso dal pensiero dell’amato, fa sì che venga mutato il rapporto con l’interezza del reale. Attraverso il suo amore chi ama vede un mondo nuovo.

Il sogno come facoltà di trasfigurazione creativa, introduce l’amante verso aneliti di nuove possibilità di esistenza.

La passione costituisce la condizione abituale per cui l’amante si senti circonfuso in una realtà più grande a lui trascendente.

L’AMORE E IL DOLORE ovvero L’AMORE E IL SUO PARADOSSO

Prendiamo spunto da una poesia di Prevert, in cui troviamo le tracce dell’ombra dell’Amore: il dolore. Inevitabile, il dolore accompagna l’amore da sempre e per sempre.

PRIMA COLAZIONE

Lui ha messo
Il caffè nella tazza
Lui ha messo
Il latte nel caffè
Lui ha messo
lo zucchero nel caffelatte
ha girato
il cucchiaino
ha bevuto il caffelatte
ha posato la tazza
senza parlarmi
s’è acceso
una sigaretta
ha fatto
dei cerchi di fumo
ha messo la cenere
nel portacenere
senza parlarmi
s’è alzato
s’è messo
l’impermeabile
perché pioveva
e se n’è andato
sotto la pioggia
senza parlare
senza guardarmi
e io mi son presa
la testa fra le mani
e ho pianto

Sconsolata una donna piange la fine miserevole dell’incanto e del sogno e della passione; e la realtà che le appare è svuotata di senso, poiché lo spirito non alberga più entro le mura del rapporto tra lei e il suo uomo. Quelle mura si sono dissolte svelando un mondo opaco e sterile.

RESURREZIONE

Piano piano,
nel silenzio del mattino,
risboccia il fiore
eludendo la morte.
Il sole, lassù,
sorride, e sull’orizzonte risplende
il bacio della vita.
Un cigolio di finestra
riapre al giorno
la prigionia da inutili
e vuote passioni:
una pietra si spacca
rivelando un manto bianco,
un sudario inutile
e una gioia appena sentita.

Renato Barbruni

La fine di un amore si presenta alla donna della poesie, – ma può essere anche un uomo -, nel letto disfatto del risveglio mattutino, memoria della notte appena trascorso dove l’intimità è scolorita e scomparsa, rivelando “un sudario inutile”, un fare che non porta a nulla. I due non sono più Amanti, ma si costringono in un rapporto che sopravvive alla morte del loro essersi Amati. Ma quando lo sguardo procedo oltre la monotonia rassegnato e colpevole, e si torna ad ascoltare il flusso inesauribile del sorgere perenne della vita, la speranza si accende e illumina nuovamente lo scenario del proprio destino.

Ma il dolore è spesso accompagnato nell’amore dalle trame sottile e taglienti del senso della colpa. La colpa che deriva dall’aver inflitto una sofferenza,  di aver inflitto un dolore lacerante. Soffre chi è lasciato e soffre che lascia. Chi è lasciato soffre perché vede svanire il suo sogno, ma alle volte soffre perché incapace di lasciare libero l’altro rivelando così un modo di amare troppo intriso del desiderio del possedere. Perché l’amore si porta ancora dentro l’inquinamento che la storia dell’umanità gli ha imporesso. Il rapporto tra uomo e donna, in epoche passatre, era asservito alla conquista di nuove terre nella strategie della guerra. I conquistatori obbligavano al matrimonio o stupravano le donne della terra conquistata per aver da loro figlio che sarebbero così diventati eredi della terra conquista. In quel tempo storico l’amore deve aver subito una deformazione genetica, assorbendo in sé il senso del potere. Per cui uno possiede l’altro: ne ha il possesso.

Soffre chi lascia poiché si sente pervaso della colpa che deriva dal vedere il dolore della persona che ha un tempo amato e che forse a quel punto ama ancora, se pur di un amore diverso, più fraterno. E quando la colpa giunge agisce come distruzione di tutto ciò che incontra. Allora l’insicurezza pervade colui che sta compiendo l’atto del lasciare fino al punto di non saper più cose fare. Ne scaturiscono comportamento ambigui, discontinui e paradossali.

UNO SGUARDO ALLA POESIA

Jacques Prévert

QUESTO AMORE

Questo amore
Così violento
Così fragile
Così tenero
Così disperato
Questo amore
Bello come il giorno
Cattivo come il tempo
Quando il tempo è cattivo
Questo amore così vero
Questo amore così bello
Così felice
Così gioioso
Così irrisorio
Tremante di paura come un bambino quando è buio
Così sicuro di sé
Come un uomo tranquillo nel cuore della notte
Questo amore che faceva paura
Agli altri
E li faceva parlare e impallidire
Questo amore tenuto d’occhio
Perché noi lo tenevamo d’occhio
Braccato ferito calpestato fatto fuori negato cancellato
Perché noi l’abbiamo braccato ferito calpestato fatto fuori negato cancellato
Quest’amore tutt’intero
Così vivo ancora
E baciato dal sole
E’ il tuo amore
E’ il mio amore
È quel che è stato
Questa cosa sempre nuova
Che non è mai cambiata
Vera come una pianta
Tremante come un uccello
Calda viva come l’estate
Sia tu che io possiamo
Dimenticare
E poi riaddormentarci
Svegliarci soffrire invecchiare
Addormentarci ancora
Sognarci della morte
Ringiovanire
E svegli sorridere ridere
Il nostro amore non si muove
Testardo come un mulo
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Stupido come i rimpianti
Tenero come il ricordo
Freddo come il marmo
Bello come il giorno
Fragile come un bambino
Ci guarda sorridendo
Ci parla senza dire
E io l’ascolto tremando
E grido
Grido per te
Grido per me
Ti supplico
Per te per me per tutti quelli che si amano
E che si sono amati
Oh si gli grido
Per me per te per tutti gli altri
Che non conosco
Resta dove sei
Non andartene via
Resta dov’eri un tempo
Resta dove sei
Non muoverti
Non te ne andare
Noi che siamo amati noi t’abbiamo
Dimenticato
Tu non dimenticarci
Non avevamo che te sulla terra
Non lasciarci morire assiderati
Lontano sempre più lontano
Dove tu vuoi
Dacci un segno di vita
Più tardi, più tardi, di notte
Nella foresta del ricordo
Sorgi improvviso
Tendici la mano
Portaci in salvo.

BY: Renato Barbruni

Lo struggimento dell’anima
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Anima

IL tema dell’anima è il tema fondamentale della psicologia, è il tema che fonda la psicologia. Il termine “psicologia”, in senso etimologico, significa discorso sull’anima. La psicologia nel corso della sua storia, inseguendo il sogno illusorio e fuorviante di divenire Scienza, si è data strumenti di indagine e riflessione tipici delle scienze naturali. Così facendo ha dell’anima indagato più la sua forma apparente, lasciando sulla sfondo la vera essenza di essa. L’anima è un’esperienza particole dell’essere umano: è quell’esperienza dell’unicità attraverso la quale sentiamo risuonare dentro di noi un certo evento; in quel caso quell’evento entra dentro di noi e va a costituirsi come la nostra realtà interiore restituendoci il vissuto della soggettività; è un’esperienza che trasformare un evento in significativo per me. Il guardare quel particolare albero diviene esperienza di Anima nell’istante in cui il mio guardare trasforma quell’albero in qualcosa che ha significato per me.

L’esperienza del proprio significato

Il soggetto umano nella sua evoluzione percorre due linee direttrici:
1- quella che lo porta a sempre migliori capacità di adattamento;
2- quella che lo conduce a sempre più profonde riflessioni sulla modalità del suo rapportarsi al mondo.

L’evoluzione che porta il soggetto a migliori capacità di adattamento trova il suo riferimento iniziale nelle esigenze fisiologiche. In generale sono le esigenze che si riferiscono agli appetiti della biosfera. In questo ambito d’esperienza il soggetto, per così dire, è guidato dalle condizioni e dalle circostanze ambientali.
La linea direttrice che conduce il soggetto a sempre più profonde riflessioni sul modo di rapportarsi al mondo ha come punto di riferimento un fatto prettamente umano: il valore etico del proprio esserci nel mondo.
Questa esperienza è espressa da domande del tipo: perché esisto? Quale fine giustifica la mia presenza nel mondo? Quale scopo ha la mia azione?

In effetti il passaggio storico dalla condizione animale a quella umana avviene proprio come momento riflessivo circa il valore etico dell’azione esercitata sul mondo. Alle sue origini l’uomo si trova ad essere animale predatore come tanti altri; ma ad un certo punto della sua storia accade qualcosa di inaspettato. Egli, osservando le sue mani lorde del sangue della sua vittima, si trova a domandarsi il perché, il motivo di ciò che ha fatto: il perché del suo uccidere. Domanda questa che scaturisce dall’inquietudine esistenziale tutta umana che è vissuta come compassione e sentimento di pietà verso la vittima. La giustificazione della propria alimentazione, della propria sopravvivenza sul piano fisico-biologico, non è sufficiente a placare l’inquietudine e l’orrore di fronte alla pietà della sofferenza mortale. Qui nascono ritualità che costituiscono il nucleo di molte religioni come il rito dell’uccisione sacrificale dell’animale. In questi riti l’uccisione stessa e l’animale ucciso costituiscono l’offerta a Dio. L’uccisione diventa momento sacro: “sacrificare” e “sacrificio” trovano la loro comune radice etimologica nel termine “sacro” e quindi “rendere sacro” . Il che ci porta a ritenere che l’atto dell’uccisione viene recuperato sul piano di una giustificazione trascendente, quindi recuperato sul piano della giustificazione etica. In questo senso si può dire che l’uomo non può stare senza una giustificazione etica, e si può altresì affermare che l’uomo è un sistema etico. Eticità e umanità sono indissolubili.

E’ evidente che le domande relative ai significati non possono trovare risposta sul piano di una spiegazione meccanicistica del mondo, utilizzando quindi lo schema interpretativo di causa-effetto. Infatti il soggetto non si pone l’interrogativo circa la causa del suo esserci, ma si interroga sul fine, sullo scopo. Il mondo dei fini è il mondo dei significati, quindi dei valori, dove una cosa trova la sua giustificazione in qualcosa che la trascende (in un assoluto che trascendendola la comprende).

Ma cosa vuol dire che una cosa trova la sua giustificazione in qualcosa che la trascende?

Ogni cosa non è finita in se stessa, ogni cosa rimanda ad altro. La lampada, la scrivania, il tavolo, la sedia, tutti gli oggetti che si trovano nella mia stanza non sono finiti in se stessi, rimandano sempre a qualcosa d’altro. La mia matita, per esempio, rimanda allo scrivere che le si pone come trascendente rispetto ad essa: la mia matita trova la sua giustificazione (del suo esserci nel mondo) nel mio scrivere. Lo scrivere, a sua volta, rimanda ai miei pensieri, ma non soltanto a quelli poiché ad essi soggiace la mia esigenza di scrivere, di esprimere e comunicare certi miei contenuti mentali propri della mia esistenza. E tale esigenza, del comunicare, rimanda, a sua volta, al rapporto che io, come soggetto umano, vivo con l’Altro con il quale anelo comunicare.

Da ciò possiamo ricavare due considerazioni:

· la prima è che ogni cosa vive in un rapporto;
· la seconda è che il valore dell’esistenza di una cosa non è mai appreso immediatamente nell’atto percettivo, ma è colto nel trascendimento di questo.

Per trovare il valore esistenziale di una determinata cosa devo dunque individuare il rapporto nel quale quella cosa è situata. Quando si dice che nella nostra società non ci sono più valori ciò non è del tutto esatto. Il fatto è che sono mutate le relazioni nelle quali le cose e le persone sono collocate. Cosicché i valori sembrano scomparsi: ma in effetti ciò che è scomparso è un modo di relazione. Per trovare i valori contemporanei dovremmo indagare e scovare le relazioni in cui le cose e le persone si danno.

Facciamo un esempio.

Nella cultura contadina l’anziano aveva un ruolo e quindi un valore centrale. Ciò era determinato dal rapporto economico che le nuove generazioni avevano nei confronti dell’anziano che solitamente era il proprietario della terra. Il rapporto, in questo caso economico, che intercorreva tra genitore e figlio determinava il valore del padre. Infatti il padre rimandava alla titolarità della proprietà della terra. La proprietà della terra è l’elemento trascendente che individua e valorizza il ruolo sociale e interpersonale agito e incarnato dal padre. Con il mutare delle condizioni economiche e di proprietà, nonché delle modalità di acquisizione della proprietà, la centralità dell’istituto del patriarcato, e quindi del padre, viene meno. Il rapporto è chiaramente mutato. Questo mutamento modifica il valore di quella figura sociale ed affettiva. Risulta quindi mutato il valore affettivo e il valore sociale di quella figura. La morte del patriarca era senza dubbio una tragedia più profonda – sia sul piano sociale che sul piano personale – della morte del padre nella società contemporanea.

Quindi abbiamo osservato che il rapporto quale realtà immanente è colto mediante l’atto del trascendimento, trascendimento che ha come intenzione quella della ricerca del valore, inteso qui come relazione fondamentale.

Il rapportarsi è quindi la modalità che più d’ogni altra sostanzia (da sostanza, realizza, rende concreta, manifesta, rendere visibile) l’esperienza umana, che ha come sua matrice basilare l’anelito alla scoperta del senso, della giustificazione dell’esserci.
Senza un qualche significato della propria esistenza l’uomo non può vivere come uomo. Se l’uomo non ha tra le mani un significato che lo spinge a superare se stesso, sarà indotto a trovare tale significato nell’immediatezza della sua vita, e ciò lo porterà ad enfatizzare gli appetiti istintuali, quelli relativi all’appagamento immediato dei bisogni fisiologici, e quindi sarà preda della legge naturale.

Il bambino nasce in questa condizione, ed è destinato a rimanerci se non trova la possibilità di cogliere il valore etico del proprio rapporto con il mondo. Se egli è preda degli istinti tenderà a vivere il rapporto in modo utilitaristico.

Poiché egli sperimenta prevalentemente una sola legge, il soddisfacimento immediato dei suoi bisogni, questa tenderà a strutturare tutta la sua personalità. In una tale situazione esistenziale al bambino non interessa la crescita del rapporto, ma solo se stesso, un se stesso tutto identificato nei suoi bisogni immediati.

Possiamo osservare, ai fini del nostro discorso, che il bambino instaura rapporti con il mondo delle cose e con il mondo delle persone.

Con il mondo degli oggetti il bambino ha rapporti di tatto, di conoscenza e di funzionalità. Questo è un rapporto finalizzato al loro uso e a soddisfare determinati bisogni, come il piacere per esempio. In questo tipo di relazione il bambino impara a “dominare e usare”. Sono capacità importanti e che lo aiuteranno ad affrontare più adeguatamente la vita.
Il dominare diviene capacità di gestire, di governare certi processi dell’esistenza; l’usare evolve nella capacità del soggetto di poter disporre degli oggetti o situazioni che mano a mano gli si pongono di fronte.

Anche con il mondo delle persone il bambino sviluppa interazioni di conoscenza e funzionalità. Anche in questo caso il bambino impara a dominare e ad usare. Ma qui la situazione esistenziale possiede ben altre potenzialità di sviluppo. Se il rapporto con le cose non riesce ad andare oltre le categorie sopra menzionate – dominio e uso (quindi è una relazione che possiede un potenziale evolutivo limitato)-, la relazione con il mondo delle persone ha notevoli possibilità di sviluppo. Ad esempio non soltanto di crescita conoscitiva, ma bensì di crescita e ampliamento etico, e quindi dell’evoluzione della coscienza quale sperimentazione soggettiva della dimensione storico-universale. Quando parliamo di eticità parliamo di quell’elemento che costituisce l’interfaccia tra la dimensione personale-individuale-particolare e la dimensione collettiva-storica-universale. Difatti le problematiche etiche si collocano proprio nel momento di relazione tra il soggetto in quanto entità singolare e il soggetto in quanto elemento di una totalità sovraorganizzata. E’ evidente che la realtà etica spinge il soggetto a uscire dalle propria dimensione di individuo per aprirsi ad interrogativi sovrapersonali che derivano dalla dimensione storico-universale.

(Se l’oggetto è muto e si piega al volere del soggetto, la persona non si piega e ciò ende il rapporto più problematico)

Quando il bambino interagisce prevalentemente con il mondo degli oggetti e non riesce a scorgere differenza tra questo e il mondo delle persone, tenderà a trasferire le competenze acquisite nel primo modo di rapportarsi al secondo. In altre parole tratterà le persone come fossero oggetti poiché per lui non vi è differenza significativa. Tenderà ad enfatizzare le sue competenze in ambito di dominio e uso. Quanti rapporti umani possiamo definire fermi a questo stadio?

Si rende necessario quindi che il bambino impari a cogliere la pecularietà inerente al rapporto con il mondo delle persone. E la pecularietà è proprio la forte connotazione Etica di tale rapporto: la presenza in esso dell’amore.

Ma l’amore ahime! subisce l’inquinamento delle modalità prevalenti in un individuo: nell’amore infatti noi viviamo la nostra personalità. L’amore risente della immaturità o maturità della personalità; in altre parole risente del livello evolutivo raggiunto dalla persona.
Una personalità abituata a esprimersi in un rapporto di dominio e uso sarà una personalità ferma alla dimensione egoica quindi prevalentemente egoriferita: sarà una persona che non riesce ad uscire da se stessa. Infondo il rapporto con gli oggetti non ci permette di porre il problema “dell’oggetto”: quindi siamo schiacciati al livello delle esigenze immediate dell’Io; mentre il rapporto con una Persona ci obbliga a domandarci “dell’Altro”. Naturalmente questo interrogarsi dell’Altro sarà più coinvolgente se esiste con l’altro un profondo legame d’amore. Ma questo amore deve essere aiutato a svincolarsi dall’inquinamento delle modalità egoiche: dominio e uso.

Da quanto detto si ricava la necessità che il soggetto percepisca se stesso come utile e necessario all’altro del suo amore. Egli deve sperimentare quella dignità soggettiva che lo porta a sentire come di valore la sua presenza nella relazione. Ma come è possibile realizzare una tale forma di rapporto?
Il discorso è complesso basti però ora accennare ad un punto essenziale. Un rapporto è vero e autentico quanto rispetta l’esigenza di ciascuno di trovare se stesso. Quando lascia libero ciascuno di esser ciò che è: ed è questa ricerca di sé che costituisce l’equilibrio su cui poggia l’esigenza ed il valore di quel rapporto.

La solitudine: un’esperienza tra emarginazione e spazio soggettivo

La solitudine, come esperienza, può assumere i connotati dell’emarginazione; ma può anche delinearsi come lo spazio soggettivo nel quale emerge la parola interiore: la realtà interiore dello spirito.

Due modi diversi di vivere la stessa esperienza che risentono, per la loro definizione, del livello di coscienza o meglio della maturazione della personalità.
Infatti una personalità immatura (più avanti spiegheremo cose intendiamo per immatura) tenderà a vivere la condizione di solitudine come l’esperienza dell’emarginazione, cioè percepirà l’assenza dell’Altro come vuoto esistenziale: come incompletezza della propria esistenza.
In una tale esperienza è predominante, nel campo della coscienza, il senso del vuoto inteso come nulla. Un nulla schiacciante che mortifica la persona e ne svilisce il valore soggettivo.
Quest’insieme di vissuti e sentimenti presuppone un significato e un anelito propri dell’essere umano.
Il senso del vuoto, sperimentato di fronte alla mancanza della presenza dell’Altro, rimanda e suppone l’anelito verso l’Altro; rimanda all’essenzialità, per la Persona umana, che l’Altro ci sia, che l’Altro si faccia presenza nel rapporto.

L’Io, diceva Edmund Husserl, ha natura intersoggettiva. Ciò significa che l’IO non c’è, come realtà empirica, se non nel continuo rapportarsi all’Altro. L’anelito al rapportarsi è dunque connaturato all’Io. E’ tanto connaturato da costituire una condizione ontologica: vale a dire una condizione essenziale per l’esserci dell’Io.
Da ciò possiamo ben affermare che se l’Io è impedito o impossibilitato all’esperienza della relazione, il vissuto dell’alienazione è inevitabile. Ciò che viene alienato, sottratto, è l’Io in quanto soggetto. E a ciò consegue la inevitabile mortificazione della Dignità Soggettiva. L’Io fa comunque esperienza della conoscenza, sia pure su un piano puramente e meramente percettivo, ma non fa esperienza della conoscenza come fatto soggettivo in quanto l’esperienza della soggettività è negata.
L’elemento di immaturità, accennato sopra, si colloca proprio in questo punto: l’Io non vive l’esperienza del relazionarsi, oppure, se la vive, ne percepisce la natura condizionante: in altri termini non può essere se stesso.

Nella sua evoluzione un Soggetto umano incontra vari tipi di bisogni la cui soddisfazione è essenziale affinché il cammino continui verso stadi sempre più maturi.
Il bambino viene al mondo portando una serie di bisogni la cui soddisfazione è essenziale per la sua sopravvivenza: basti pensare al bisogno di essere nutrito, protetto dal freddo, ecc. Vi sono poi altri bisogni, come ad esempio l’essere accarezzato o tenuto in braccio, la cui soddisfazione presuppone la presenza dell’Altro. E’ anche attraverso tali momenti che il bambino comincia ad entrare in relazione con l’ambiente umano.
Superata questa fase, e ovviamente soddisfatti questi bisogni primari, il bambino sarà facilitato ad aprirsi verso il mondo che lo circonda. Durante quel periodo egli elabora un atteggiamento positivo verso l’ambiente. Egli sorride alle persone, guarda con interesse qualunque cosa gli venga presentata. Il bambino è pronto a tuffarsi nel mondo umano costituito di relazioni sempre più complesse.
Ed è proprio in questo periodo che il bambino, spinto dall’anelito all’incontro con l’Altro, impara il linguaggio il cui esercizio gli richiede uno sforzo notevole. Ma egli è guidato da un grande anelito d’amore verso il suo prossimo, così fa di tutto per essere accolto e accettato dall’Altro.
E’ qui che emerge il bisogno di appartenenza, di appartenere ad una comunità: qui emergono i bisogni psicologico-relazionali. Qui l’Io manifesta in modo più evidente la sua natura intersoggettiva.
L’esperienza di sentirsi emarginato, di sentirsi escluso è primitiva, è l’altra faccia dell’anelito a stare-con-l’Altro.

Una soggetto che nel corso della vita non abbia superato tale fase, quindi non abbia sperimentato se stesso come interlocutore dell’Altro, tenderà a vivere i momenti di solitudine come momenti di esclusione dagli altri, e quindi a viverli come negazione del proprio Io o negazione del proprio anelito relazionale.

In una fase storica dove il fatto relazionale è scaduto a momento solamente comunicativo e non già di autenticità, l’esperienza della solitudine è molto diffusa.
Nell’infanzia il bambino è lasciato sempre più spesso solo poiché a lui non è richiesto di entrare in rapporto significativo con il mondo degli adulti. Allo stesso tempo le esperienze relazionali tra coetanei sono ridotte tanto più quanto i giochi collettivi vengono meno praticati. Le attività che il bambino svolge sono sempre più individuali, e individualizzanti. I momenti di aggregazione sono ristretti nel tempo e nello spazio.
Nell’organizzazione della famiglia, come nell’organizzazione della scuola (tanto per citare due realtà sociali rilevanti nella vita del bambino), l’accento posto al fatto relazionale va da un massimo di trascurabile ad un minimo di assenza.
Quanto si adopera la scuola per insegnare ai bambini a rapportarsi tra di loro? Quanto li aiuta a comprendere le reciproche differenze?
E la famiglia non ha forse delegato quasi completamente alla scuola l’educazione dei figli, abdicando al ruolo che essa ha sempre svolto di trasmettitore di valori? E così facendo, la famiglia si deresponsabilizza al perfezionamento dei valori umani. Poiché i valori non sono dati nella storia dell’uomo una volta per tutte, ma seguono una loro evoluzione. E chi li fa evolvere se non l’uomo stesso nel corso della sua esistenza? Cosicché l’elaborazione dei valori è sempre più affidata alla struttura economica dominante. Così anche i valori diventano oggetto di consumo, invece di essere momento di elaborazione soggettiva delle realtà relazionali vissuta.
Dove oggi il bambino può recuperare quel senso della relazione umana che sente premere dentro di sé, ma che non riesce a sperimentare in una società che solo a parole si definisce “umanistica”, ma che rivela essere invece prevalentemente tecnocratica, massificante e materialista?

Fin qui la denuncia dei connotati di emarginazione relativi all’esperienza di solitudine.
Colta in questa luce la solitudine sembrerebbe possedere solo aspetti negativi. Ma non è così. In essa sono presenti aspetti interessanti e positivi.
La solitudine è anche lo spazio nel quale può emergere quella parte di ogni singolo soggetto umano che ne costituisce l’aspetto più personale. Alludo ancora una volta alla soggettività.
Quando alle volte il bambino gioca da solo nella sua stanza, dentro di sé egli sperimenta un mondo molto personale, frutto della sua fantasia, della sua capacità creativa di ristrutturare la realtà attraverso i suoi sogni, le sue paure e attraverso i suoi aneliti più profondi e ispirati.
Un bambino in effetti non è mai solo. E’ meglio dire: un bambino che si sente amato, accolto in un mondo pieno di calore, non sperimenterà la solitudine solamente perché fisicamente accanto a sé quel giorno non c’è nessuno: poiché egli avrà imparato a dialogare con se stesso, in se stesso con un se stesso che si fa presenza viva dentro di lui, che si fa presenza interlocutrice dentro di lui.
Chi sperimenta la solitudine la sperimenta sempre, anche quando è in un luogo affollato, poiché non ha imparato a godere della presenza dell’Altro in sé stesso.
Quindi possiamo dire che sperimenterà la solitudine chi non avrà imparato a dialogare, parlare con l’Altro, un altro da sé, un soggetto staccato, diverso da sé stesso. E il dialogo con l’Altro è possibile solo nel caso che si sia superata la fase egocentrica, la fase narcisistica dell’anelito relazionale.
E ciò è possibile solo se il soggetto sarà evoluto ad una fase superiore dell’Amore: dall’Amore Egoriferito, all’Amore Eteroriferito. Da chi pone sé stesso al centro dell’Amore, a chi pone sé stesso come il centro dell’Amore.

E’ la nascita dell’Io Etico.

Il vuoto esistenziale è colmato dal partecipare alla vita di quell’Altro che porta il suo fardello di sofferenza e limitazione, un fardello che suscita speranze nuove. Ciò vuol dire che cogliamo l’Altro, quale significativo per noi, quando in esso intuiamo la presenza di quella frattura interiore che lo rende ai nostri occhi “colui che necessita del nostro amore quale momento di ricomposizione di quella ferita”. Il riconoscimento di quella ferita è possibile solo, però, se trova in noi la eco che la fa significativa ai nostri occhi. Lo strutturarsi di un rapporto significativo con l’Altro aiuta a rompere l’isolamento interiore poiché aiuta il soggetto a cogliersi degno di esserci nella relazione. Quindi la riflessione etica si configura quale superamento della solitudine che a sua volta va intesa come scissione tra l’esperienza della vita e il suo senso che viene sperimentato come inutilità esistenziale.

Antologia

Frammento da “Cosa accade al cielo quando piove” di Renato Barbruni

…Soltanto nelle trame infinite dei pensieri infiniti di Dio può esserci l’instabilità. Ma è l’instabilità di ciò che è infinito, eterno e dunque questa è soltanto il battere delle ciglia che sospende per una frazione di tempo lo sguardo, mentre la mente lo tiene, e l’anima si affida alla memoria di ciò che è stato visto. E’ il destino dell’anima quello di affidarsi, poiché essa vive nella sua sospensione, essa vive sospirando; non tocca e non si esaurisce nelle cose certe, essa è sospesa, sospesa tra le cose attuate e le cose in avvenire. Questo è il tremore dell’amore: chi ama è sospeso tra l’attualità, il compiuto, e le cose in avvenire, ciò che è da compiersi. Illusoriamente chi ama pensa di vivere nell’instabilità e pensa che l’amore sia precario: ma l’amore è eterno. Possiamo sospenderne la percezione, la consapevolezza per qualche istante, ma esso vive nella costanza eterna del pensiero di Dio….

Dall’Enneadi di Plotino:

“Credo perciò che gli antichi saggi, che cercarono di ottenere la presenza degli esseri divini erigendo templi e statue, dimostrarono di aver ben visto nella natura del Tutto; essi intuirono che, pur se quest’anima è docile ovunque, è tanto più facile ottenerne la presenza là dove venga escogitato un ricettacolo acconcio, un luogo particolarmente atto a ricevere una qualche porzione o fase di essa, qualcosa che la riproduca o la rappresenti e che riesca, come uno specchio, ad afferrare un’immagine di essa.”

Il ricettacolo che raccoglie l’anima è l’incontro d’amore; è il luogo spazio temporale dove l‘anima si fa presenza e si personifica nell’esperienza del Noi.

Miguel de Unamuno

“Per avere compassione di tutto, per amare tutto, l’umano e l’extraumano, il vivente e l’inesistente, bisogna sentir tutto dentro di sé, dare a tutto una persona. Poiché l’amore personifica ogni cosa che ama, ogni cosa di cui ha compassione… Si ama soltanto chi ci somiglia… è l’amore stesso quello che ci rivela la nostra somiglianza con loro, l’amore personifica tutto ciò che ama. Ci si innamora di un’idea unicamente personificandola.”

L’esperienza dell’amore si svolge nell’intimo della persona là dove la persona diviene persona, nel senso di una esperienza che ci trasforma personificando ogni atto: ogni atto diviene me.

I bisogni dell’anima o soggettività trascendente

Un grande psicologo americano, Abrhaam Maslow, in un suo importante lavoro, Motivazione e personalità, elabora una teoria interessante sullo sviluppo della personalità. Egli costruisce il suo ragionamento intorno alla nozione di “gerarchia dei bisogni”.
La personalità, dice l’autore americano, cresce e si sviluppa in seguito alla soddisfazione di determinati bisogni, che liberano la coscienza di altri bisogni più evoluti. Nella prima fase della vita sono prevalenti e più presenti i bisogni della sfera biologica. Nei primi mesi di vita il bambino si può dire che non fa altro che mangiare e dormire.
Sembra quasi che non mostri altri bisogni se non quelli alimentari.
Mano a mano che i mesi passano assistiamo all’emergere di altri bisogni: il bambino si guarda intorno, diviene più curiosa e mostra di gradire il contatto fisico con l’adulto; vuole essere preso in braccio, piange quando lo si rimette nella culla.
A volte sembra che non voglia più abbandonare l’abbraccio della madre.
Già in quella prima fase della vita la madre sente in se stessa naturale parlare al bambino, rendendolo così partecipe delle cose che fa’.
Anche se la madre sa che il bambino non capisce le sue parole, ciò nonostante continua a parlare e così facendo il bambino si sente e vive l’esperienza della relazione.
Oltre all’abbraccio, al sorriso, agli sguardi che il bambino sente rivolti a lui, anche la parola, sia pure incomprensibile, lo conduce nel mondo relazionale ove trae quel senso di appartenenza che costituisce un bisogno tra i più importanti.
L’apparire di questo bisogno, dice Maslow, introduce il bambino nella sfera psicosociale. E’ qui che il soggetto si misura con gli altri, ed è qui che nasce tutta una serie di bisogni che andranno a fondare la problematica relazionale. Proprio nel relazionarsi con l’Altro il soggetto è spinto a rivolgere lo sguardo su di sé alla ricerca del proprio valore relazionale. Ed è qui che la domanda si sposta dal valore nella relazione al valore soggettivo, cioè dal valore di se stesso al di là della relazione.

E’ in questa fase che emerge alla coscienza del soggetto la problematica intrapersonale, vale a dire il rapporto con se stesso. In altre parole si fanno sempre più presenti i primi bisogni dell’anima.
Qui indichiamo solo alcuni di questi bisogni.

Il bisogno di autostima, è uno dei bisogni fondamentali dell’anima in quanto è l’esperienza che porta il soggetto a godere del rispetto di se stesso. L’autostima non va confuso con l’eterostima (la stima da parte degli altri). La stima (o eterostima) è un valore che gli altri ci attribuiscono, l’autostima è il valore che noi stessi ci attribuiamo. In tante crisi di identità è proprio l’autostima che viene a mancare anche quando gli altri sono prodighi di stima nei confronti del soggetto. Quando viene a mancare il rispetto di se stessi la personalità frana.
Un altro bisogno dell’anima è li bisogno all’autorealizzazione. E’ il bisogno di un soggetto di realizzare la propria unicità e irripetibilità. Se un soggetto non può realizzare se stesso vive un sentimento di alienazione che lo porta alla disistima. Questo sentimento negativo è presente in tanti stati d’anima che sfociano nella depressione.

I bisogni etici sviluppano altre dimensioni dell’anima. Fra questi il bisogno di giustizia. Tutti ricorderanno il discorso della montagna: “Beati colore che hanno fame di giustizia, perché verranno saziati.” L’anelito alla giustizia è uno dei bisogni etici che il bambino sente frustrato. Spesso nei suoi confronti l’adulto tende a dimenticare che la giustizia non ha età. Molti bambini vengono soddisfatti nei loro bisogni biologici, sono ben nutriti, protetti da mille pericoli, ma forse non godono di quella giustizia profonda che condurrebbe loro a sperimentare il senso e la dignità della propria presenza come persona nella relazione. Ecco che abbiamo toccato una altro bisogno fondamentale dell’anima: la dignità soggettiva. Forse possiamo anche dire che questo sia il bisogno più importante. In termini mistici è la risposta alla domanda che Sant’Agostino si poneva con grande inquietudine: “Ma chi sono io Signore che mi hai cercato in ogni luogo?” Il che vorrebbe dire: Quale valore ho per te Signore? Il valore che sento di rappresentare è sperimentato con quel sentimento di dignità soggettiva che fa sì che io avverta l’importanza del mio esserci nel mondo, il senso della mia stessa esistenza. Il valore soggettivo è sperimentato a prescindere, e trascendendo tutti i ruoli che il soggetto può interpretare e vivere nel corso della sua vita. Il valore è trovato in quel unico e irripetibile che è l’anima. Diceva Jaspers: “…l’anima è divenire, espansione, differenziazione, nulla di definitivo e di compiuto…”

Una relazione umana deve tenere conto dei bisogni della biosfera, dei bisogni psicosociali e dei bisogni dell’anima. Deve anche tenere conto dei tempi dell’evoluzione del soggetto, dei conflitti che vive il soggetto nella sua realtà relazionale e nel rapporto con se stesso.

La bellezza

Consideriamo il tema della bellezza partendo dalla parola greca Kosmo. Si riferisce, come è ben noto all’insieme organizzato di pianeti, stelle, galassie e altri corpi celesti che compongo l’interezza del mondo visibile. Anche la parola di origine latina Universo si riferisce alla stesso oggetto.
Nonostante si riferiscano allo stesso oggetto i due termini lo indicano e quindi lo definiscono attraverso accenti diversi. Il termine greco kosmo tende a significare “ordine opportuno”, “appropriata sistemazione”: cioè organizzazione di un sistema attraverso un principio di armonio e di equilibrio. Elementi questi ultimi che rientrano all’interno della dimensione dell’estetica. D’altra parte il termine cosmesi deriva proprio dalla parola cosmo. Mentre la parole latina Universo significa organizzazione intorno all’uno: uni-verso.
Questo termine quindi indica una aggregato che si organizza intorno ad un centro, seguendo un principio di autorità.Quindi il cosmo, come organizzazione del mondo visibile, trova nel principio estetico una forte componente organizzativa, anche se non l’unica.
Mentre Universo lo trova nel principio di autorità. Ma la parola Kosmo, fa osservare J. Hillman “abbraccia significati come “in maniera conveniente”, “decentemente”, “onorevolmente” (Politica della bellezza, pag,94 J. Hillman, Ed. Moretti e Vitali). Tutto ciò spinge il significato della parole a collocarsi come sintesi tra estetica e morale. Proseguiamo il nostro ragionamento citando ancora Hillman quando riporta le caratteristiche di Afrodite, la dea greca della bellezza.
“…Ma Afrodite era più che una gioia estetica: era una necessità epistemologica, perché senza di lei tutti gli altri Dei sarebbero rimasti nascosti, come le astrazioni della matematica e della teologia, ma mai realtà palpabili.”
Passo suggestivo questo che si riferisce ad una potenzialità portentosa inerente all’esperienza di Psiche quando è toccata da Bellezza-Afrodite. La bellezza ci giuda verso l’intrinseca verità delle cose. Come gli è possibile? Quando siamo affascinati da qualcosa, lì noi troviamo l’energia , la motivazione e, successivamente, il risveglio di una più elevate intelligenza tale per cui la cosa nascosta non è più celata ai nostri occhi. Una teoria filosofica, un modello matematico, una teoria politica, una musica, prima che catturarci razionalmente, ci affascina, ci seduce: armi queste proprie di Afrodite, quando la Dea decide che è giunto il momento per noi di passare dal mondo visibile a quello invisibile degli Dei. L’importanza della bellezza sta tutta qui: è un’esperienza che ci apre a dimensioni dormienti della nostra personalità, e ci fa, per questo, più svegli, e quindi più presenti a noi stessi.

BY: Irene Barbruni

Stress e malattia psicosomatica
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Non è semplice definire e spiegare il concetto di psicosomatica, in quanto è un termine complesso che ha diverse sfaccettature. Senza, quindi, avere la pretesa di esplorare la complessità di tale nozione cercheremo di riflettere sull’unità mente/corpo attraverso il punto di vista psicologico e in particolare attraverso il pensiero junghiano, tenendo ben presente che il concetto di psicosomatica attraversa più discipline (medicina, biologia, psicologia ecc..).

Partiamo dal concetto di salute e omeostasi del corpo, ossia l’assenza di malattia presuppone un equilibrio tra mente e corpo. Quando entriamo in contatto con un evento stressante l’equilibrio presente viene alterato e alle volte stravolto. La parola stress definisce la reazione dell’organismo ad uno stimolo che può essere sia di natura fisica che psichica. Lo stress di per sé è una modalità di adattamento dell’organismo che però può anche diventare esso stesso un fattore patologico. L’evento stressante porta ad un cambiamento e, quindi, la persona deve necessariamente ricreare un nuovo equilibrio. Dati sperimentali indicano che in molte malattie somatiche i ritmi biologici risultano alterati. In modo particolare assumono notevole importanza i bioritmi endocrini ed immunitari in quanto hanno una funzione di adattamento e di difesa.

Spesso quindi lo squilibrio generato da un evento nuovo della vita porta ad aumentare lo stato di stress e di inquietudine del soggetto. Se questo stato di cose alterato perdura può portare ad un evento patologico. Spesso noi cerchiamo di ritrovare una soluzione razionale agli eventi della vita, ma ciò non sempre è un metodo adeguato. Altre volte la capacità di trovare il significato simbolico di un evento ci aiuta a ristabilire l’equilibrio, portando beneficio. L’individuazione del simbolo ristabilisce l’equilibrio tra il mondo esterno e la realtà interiore del soggetto. Questo processo avviene attraverso i sogni nel sognare ed è per questo che si sogna. Un’altra facoltà, che tuttavia non viene usata spesso, è il pensiero trascendente, vale a dire la capacità di guardare la situazione problematica nel suo insieme (spesso implodiamo nei particolari) da un punto di vista più elevato, non solo quindi sul piano pragmatico: è questo il lavoro che si svolge durante l’analisi. L’esercizio di questa funzione/potenzialità aiuta a sviluppare uno strumento molto potente nel rapporto con la realtà nel suo insieme.

BY: Irene Barbruni

Il senso di fronte alla sofferenza
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L’uomo contemporaneo si considera un soggetto libero e autodeterminato, capace di gestire la propria vita, ma quando è posto di fronte ad un evento che ne limita di fatto il raggio di libertà torna a rivivere la situazione primordiale di sentirsi in completa balia dell’evento. Nel caso per esempio di una malattia il soggetto tende a percepirsi come una cosa, che tra l’altro è malata, e si trova amputato della possibilità di divenire, quindi si percepisce come un oggetto ormai determinato. La sofferenza può condurre verso la disperazione, oppure trasformarsi in una situazione esistenziale tale per cui la personalità ne viene investita e a sua volta trasformata.

In tanti momenti della vita, la capacità di tenere e di saper sopportare la sofferenza, può decidere le sorti di una persona, addirittura della sua vita. Questa dimensione soggettiva, entro cui il dolore è percepito, è costituita dallo sviluppo e dalle dinamiche della personalità, e da fattori culturali. Il lavoro psicologico tocca proprio questo aspetto: analizzare i fattori personali e culturali che non permettono al soggetto di vivere quel dolore autenticamente per quello che è. Se a quel certo episodio, causa di tanto dolore, riusciamo a togliere gli elementi di deficienza personale e di deformazione culturale, che sono gli aculei che amplificano la percezione del dolore, il soggetto potrà entrare in rapporto dialettico con la propria sofferenza e scorgere gli elementi euristici necessari alla propria evoluzione sul piano spirituale.

Nel libro “Uno psicologo nei lager”, Victor Frankl, medico recluso ad Auschwitz, racconta la sua esperienza in quella orribile situazione. L’osservazione di ciò che egli stesso come altri internati hanno vissuto, lo hanno convinto della decisiva qualità, tipicamente umana, di saper sopportare il dolore poggiandosi su un significato profondo della situazione patita.

Non tutti i soggetti però riescono a ritornare dal “mondo degli inferi”; infatti anche se un individuo può superare un grande dolore non è detto che abbia saputo trarre da tale esperienza le indicazioni per la sua evoluzione personale. Alcune persone rimangono intrappolate in un tale vissuto di precarietà da sviluppare un’idea negativa della propria vita. Questo vissuto depressivo è ben raffigurato nel mito di Orfeo in cui egli esce dagli inferi senza la propria amata e passa la sua esistenza a piangerne la morte.

Un’altra condizione esistenziale è espressa invece nel mito di Persefone e Demetra dove si approda ad una visione della vita in cui gioie e dolore sono come tasti bianchi e meri di un pianoforte che vanno a comporre l’interezza della vita. Anche se in questo caso un vero e proprio senso del dolore non è stato rintracciato, tuttavia è sviluppata una tale capacità di accettazione della sofferenza tale da rendere meno tragica la situazione vissuta. Ulteriori approfondimenti si trovano su www.ultimabooks.it dove sono disponibili in versione e-book i libri da cui sono state tratte queste considerazioni:”La ferita in seno” e “Logos e pathos, il senso della sofferenza“.

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