BY: Irene Barbruni

Bourn out
Condividi Su:

Cosa si intende con sindrome del burnout?

Per “sindrome del burn-out” si intende quello stato di esaurimento psicofisico accompagnato da un calo significativo di motivazione e di impegno nell’ambito del proprio ruolo professionale. E’ una patologia che si incontra in modo particolare in quelle professioni che si occupano di aiuto verso gli altri, come medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi, educatori, ecc.)

Come si manifesta, quali sono i sintomi?

In conseguente ad una situazione di stress prolungato si può verificare un esaurimento psicofisico, deterioramento relazionale, inefficacia professionale e disillusione. Tutto ciò si traduce nella perdita di interesse per la propria professione e di conseguenza anche lo sfilacciamento del senso di responsabilità del proprio ruolo. La persona vive sensazioni di tensione ed ansia accompagnate dal cambiamento nell’atteggiamento verso le varie operazioni che vanno a costituire l’insieme del proprio lavoro. La sindrome è nello specifico l’effetto di un processo reattivo-difensivo verso il proprio ruolo professionale, che viene vissuto come deludente, frustrante e pesante. In altre parole, l’operatore sperimenta un tale stato di stress e tensione che lo porta a disimpegnarsi nel proprio lavoro, e ciò può comportare una crisi sul piano della propria identità soggettiva e sociale.

Quali sono i fattori che determinano questa sindrome?

Per semplificare possiamo distinguere le cause in due tipologie: quelle relative al momento storico-sociale in cui viviamo e quelle di carattere soggettivo.
Il burn-out è stato descritto recentemente. I primi studi del fenomeno risalgono a metà degli anni settanta. Negli ultimi anni c’è stato un progressivo aumento dell’interesse verso questo fenomeno in quanto si è osservata una maggiore incidenza del problema. In modo particolare nella società contemporanea l’idealità, che accompagna ogni professione, specialmente quelle di aiuto al prossimo, e l’etica che ne consegue, sono state risucchiata dalla dimensione economica ed efficientista. In altri termini, il lavoro è sempre più percepito come una prestazione economica, piuttosto che un’attività sociale. In realtà qualunque lavoro è un atto sociale, in quanto nella società gli individui vivono in un’interazione di sussidiarietà, di interdipendenza.
Naturalmente vi sono poi le caratteristiche della personalità individuale che rendono un soggetto più a rischio. In generale le problematiche esistenziali personali come una separazione coniugale, difficoltà relazionali e familiari, rendono il soggetto più vulnerabile all’instaurarsi della sintomatologia.

Quali sono le categorie lavorative più a rischio?

Le categorie più a rischio sono quelle legate ai servizi sociosanitari ed educativi, dove il coinvolgimento emotivo è più forte, e dove il proprio lavoro non è sempre accompagnato da risultati verificabili entro un determinato tempo. La mancanza del risultato del proprio operato sviluppa il sentimento della propria inutilità. Per esempio un insegnate di ragazzini che non studiano e non ottengono risultati positivi percepirà vano il suo operare, e in fine lo valuterà inutile; in questo caso, il soggetto, per difesa tenderà ad assume atteggiamenti di eccessivo distacco fino ad arrivare al cinismo.
Quando si fa più forte la dissociazione tra fatica (energia impiegata) e percezione del significato del proprio operato, il soggetto si smarrisce in un senso di vuoto. L’uomo non può stare senza un significato, se lo percepisce può sopportare anche enormi difficoltà. Non né quindi il burn-aut una sindrome psicofisica, ma un segnale della crisi tra prassi ( l’agire), e il significato di quell’agire.

Per sottolineare questo concetto prendo spunto dal raffronto tra colore che svolgono un ruolo di assistenza come volontari e colore che lo svolgono come lavoro. Tra i volontari il burn-aut è statisticamente inferiore; ciò può essere spiegato da dal fatto che in questi l’idealità è più alta, ma minore responsabilità; mentre per chi svolge un’attività d’aiuto come professione l’idealità tende a scendere col tempo, ma permane la forte responsabilità. Questo vuol dire propri che a fronte di altre variabile: orario, stipendio, ecc. il livello di idealità svolge un ruolo significativo.

Quali possono essere le conseguenze più gravi?

Dal punto di vista individuale, se la problematica non viene individuata ed affrontata, possiamo assistere a problemi di salute anche importanti, con varie conseguenze. e in alcuni casi ad abuso di sostanze. Sul piano collettivo abbiamo invece una scarsa qualità dell’accoglienza e della cura dell’utente, in particolar modo se parliamo dell’ambito socio-sanitario ed educativo. Dal punto di vista dell’azienda e delle risorse economiche, questa sindrome porta ad aumenta del fenomeno dell’assenteismo e del turnover.

Come si può prevenire?

Dagli studi condotti negli ultimi anni sappiamo che il sostegno sociale e soprattutto il recupero dell’idealità della professione svolta hanno un forte valore protettivo rispetto alla sindrome. Ma a questi aspetti devono essere aggiunti elementi organizzativi del lavoro quali un certo grado di coinvolgimento nelle decisioni e di autonomia. Infatti spesso la sindrome è riscontrata dopo circa 3-4 anni di lavoro in soggetti giovani che vivono la frustrazione di non vedere realizzati nel concreto le proprie aspettative. Quindi, se è presente più coinvolgimento ed autonomia è chiaro che la persona mette in atto le proprie risorse e affronta la situazione lavorativa non in modo passivo, ma attivo. Come spiegato prima, è fondamentale che il proprio ruolo lavorativo sia inserito in una visione etica del proprio operato.

Cosa è consigliabile fare qualora ci si riconosca nei sintomi?

Bisogna tener presente che il livello del burn-out rimane tendenzialmente stabili nel tempo, in quanto la sindrome è una risposta ad uno stress cronico e non acuto. Questo rende la sintomatologia a volte difficile da considerare con il giusto peso. Sicuramente qualora un operatore percepisca un forte aumento dei sintomi descritti sopra, che perdurano nel tempo, è bene ricerchi aiuto per valutare la propria condizione psicologica nell’esercizio del proprio lavoro, senza aspettare che la sintomatologia trovi come luogo di espressione il corpo e quindi emergano problematiche fisiche.

Come possiamo invece riconoscere i segnali della sindrome su un collega o una persona che è vicino a noi?

Sicuramente se osserviamo in un operatore, che ha precedentemente dimostrato un certo entusiasmo nel proprio lavoro, la presenza significativa di cinismo e un conseguente abbassamento del proprio impegno nel lavoro, è probabile che ciò sia il segnale di una problematiche di questo tipo. Certamente vanno anche valutate le possibili problematiche della vita personale, in quanto il logoramento delle relazioni interpersonali deve essere un sintomo e non una causa della sindrome del burn-out. Bisogna cioè stabilire se la difficoltà ha origine per la mansione svolta o se deriva dalla propria vita personale, l’intervento sarà di conseguenza.

Se impariamo a conoscerci, attraverso un dialogo interiore, saremo più in grado di intervenire alla soluzione dei problemi. Quindi dovremmo, certo occuparci del mondo che ci circonda, ma non trascurare il mondo che è dentro di noi.

BY: Irene Barbruni

Depressione post partum
Condividi Su:

Che cosa è la depressione post-partum (dpp)? Quali sono i disturbi dell’umore e d’ansia perinatale ?

La depressione post-partum è una forma di depressione vera e propria che però esordisce nelle 4 settimane successive al parto. Quindi, la sintomatologia è sostanzialmente la stessa di una depressione con esordio non successivo al parto, ma i vissuti di malessere sono riferiti al rapporto con il neonato e in generale alla nuova condizione di madre. L’umore depresso è presente per la maggior parte della giornata ed è accompagnato da una marcata diminuzione di interesse e piacere nelle diverse attività giornaliere e, in generale, i sintomi comportano una compromissione significativa nelle incombenze quotidiane della madre.

Quali sono i sintomi specifici della depressione post-partum, dell’ ansia e del disturbo ossessivo compulsivo post-partum? Come si può capire se una paziente ne è affetta?

I sintomi specifici della dpp riguardano una grave ansia, pianto spontaneo, insonnia e disinteresse verso il neonato. Il disturbo ossessivo compulsivo post-partum riguarda pensieri ossessivi di poter fare del male al bambino. Per capire se una paziente ne è affetta è importante osservare se l’umore depresso persiste dopo i primi dieci giorni dal parto (uno stato che può essere passeggero). E’ fondamentale rivolgersi ad uno specialista, in quanto nella cura è fondamentale la tempestività della diagnosi. Inoltre, è importante la valutazione del professionista in quanto spesso le donne, che soffrono di depressione, tendono a nascondere la sintomatologia perché è quasi sempre accompagnata da un forte senso di colpa e di vergogna. Quindi se c’è un sospetto è bene approfondire.

Quante donne soffrono all’incirca di depressione post-partum?

I dati statistici ci dicono che circa l’8/12% delle neo-mamme soffrono di depressione post-partum ed alcuni dati descrivono un fenomeno in crescita.

Qual è la differenza tra “la tristezza/malinconia” e la depressione post-partum?

Il 70% delle madri vive uno stato denominato “baby blues” (“blues” significa malinconia) che è caratterizzato da un senso di tristezza dovuto alla stanchezza fisica e mentale del travaglio e al cambiamento ormonale nelle ore successive al parto. Questo stato però è differente dalla dpp sia per la durata (scompare solitamente entro 15 giorni) che per la sintomatologia meno intensa.

Può capitare, parecchio dopo la nascita del bambino, di soffrire di dpp o ansia?

In genere la dpp esordisce entro le quattro settimane dalla nascita del bambino e raramente si riscontrano casi ad un anno o oltre l’anno. Quindi, se i sintomi vengono riscontrati successivamente si deve valutare se ci si trova di fronte all’insorgenza di uno stato depressivo e/o ansioso non legato alla maternità ma ad altri fattori, oppure, più facilmente, ad una depressione post-partum non riconosciuta e, quindi, ad una sintomatologia che si è accentuata nel tempo.

La domanda di una madre: Non mi sento legata al mio bambino, anzi provo repulsione: sono una madre orribile?

Questo senso di repulsione può essere dovuto alla sensazione di incapacità di saper affrontare tutto ciò che la cura del bambino comporta. Quindi può insorgere da un forte senso di responsabilità più che da repulsione Il sentimento di inadeguatezza porta spesso a rifiutare i compiti ed è frutto di una non corretta valutazione di sé cioè di una sottovalutazione di se stessi.

Dove bisogna recarsi per ottenere assistenza e supporto per la dpp, ansia post partum, depressione in gravidanza o qualsiasi altro tipo di umore perinatale ?

La situazione deve sempre essere valutata da uno specialista, che può indirizzare verso un sostegno psicologico che in questi casi è fondamentale. La donna non può essere lasciata sola con questi suoi stati d’animo e il supporto dei familiari non è sufficiente proprio perché non saprebbero interpretare adeguatamente quei sentimenti e potrebbero alimentare il senso di colpa.

Quanto tempo ci vuole per recuperare la depressione post-partum?

In caso di un percorso terapeutico solitamente diversi mesi. Ciò non deve essere confuso con le terapie brevi, che mirano più ad interessarsi del sintomo, lasciando irrisolto il problema di fondo.

Quali sono i fattori di rischio per le psicosi post-partum?

I fattori di rischio di episodi postpartum con manifestazioni psicotiche si riferiscono ad una precedente diagnosi di disturbo della personalità. Ma sarei cauta nel delineare fattori di rischio al di fuori di ciò che ho appena menzionato; è sempre bene non generalizzare. Soprattutto va ricordato sempre che gli eventi psicologici non si comportano in modo meccanico, cioè uguale per tutti. Ogni essere umano ha una sua particolare sensibilità e proprie risorse. In psicologia spesso “due più due” non fa quattro: alle volte fa tre e altre fa cinque. Nel senso che le risorse di ciascuno possono essere celate o sopravalutate.

La domanda di un papà: come faccio ad aiutare la mia compagna che sta attraversando la dpp ?

Cercando di essere molto presente nella gestione del bambino e non far mai mancare l’appoggio, oltre che operativo, anche emotivo alla propria compagna. Non forzare momenti di intimità se la donna non ne sente la necessità. Quindi, è necessario un alto tasso di tolleranza da parte del partner. Una tolleranza/accettazione che sia partecipazione empatica ai vissuti della neo-mamma. Tale esperienza è un’occasione di crescita per l’uomo, che deve essere capace di far evolvere le proprie capacità interiori e relazionali; deve saper mettere al centro la sua sensibilità empatica e riflessiva per raggiungere momenti di profonda condivisione.

La dpp, seppur come dice il nome “post”, può accadere mentre si è ancora incinta?

Diciamo che ci possono essere delle condizioni psicologiche di inquietudine e sofferenza che portano a stati d’ansia troppo accentuati. In questi casi l’appoggio dello psicologo aiuta a stemperare e a sciogliere quelle tensioni, in modo da affrontare la gravidanza con l’atteggiamento giusto. In fondo è uno dei momenti più belli della vita di una donna; la vita le passa attraverso e si rigenera.

Si può soffrire di dpp dopo un aborto spontaneo?

Certo che il vissuto in conseguenza di un aborto spontaneo può virare verso un sentimento di perdita profondo, tanto più se la gravidanza era desiderata e attesa. Ma anche in questo caso ogni persona reagisce e vive i fatti salienti della propria vita in modo altamente soggettivo. Le capacità di elaborare e ricomporre la frattura che si genera nel corso della vita sono fondamentali, come è fondamentale cercare di non farsi catturare dallo sconforto. Spesso le persone non sono coscienti di queste loro capacità e vanno aiutate ad individuarle. Se permane tuttavia il nocciolo di una disperazione, cioè di una difficoltà di sperare nel domani, questa fragilità latente può evolvere verso uno stato depressivo dopo una successiva gravidanza.

Come si possono aiutare altre donne che stanno soffrendo?

Il problema di questa sofferenza, oltre a fattori molto personali relativi alla propria storia, è anche legato ad una cultura che non sa dare valore alla maternità; per cui le donne comunque si sentono sole di fronte a questo evento della loro vita. Ma diciamolo chiaro: di fronte ad un evento che è importante per la vita di tutti. Mentre nella cultura consumistico-edonistica nella quale viviamo la maternità, che è un impegno, è stata compressa fino ad arrivare alle gravidanze indesiderate o problematiche. Basti pensare alle difficoltà legate al mondo del lavoro, dove la donna incinta è vulnerabile e non sufficientemente tutelata. Spesso la gravidanza è un evento che conduce la donna a perdere il lavoro.

Questo mio ragionamento vuole essere una esortazione a non limitarci a considerare gli eventi patologici, questo in particolare (dpp), come eventi morbosi, ma come i sintomi del disagio di una società che ancora non sa trovare gli equilibri giusti per tutelare il benessere di ogni individuo.

BY: Renato Barbruni

La crisi esistenziale
Condividi Su:

Crisi esistenziale, Crisi di identità.

Sono due termini che si possono sovrapporre in quanto la crisi esistenziale interviene di solito proprio durante una profonda crisi di identità della Persona. La nostra vita infatti si esprime attraverso varie identità. Tra le quali cito le identità affettive: siamo figli, padri, madri, fratelli, amici; le identità sociali ovvero i vari ruoli che interpretiamo nella società: il medico, l’idraulico, il falegname, l’impiegato postale, ecc. Ad ogni ruolo corrisponde una microidentità. L’insieme delle micro identità compone la Persona in cui riponiamo la nostra identità esistenziale. La crisi in una di queste identità, se grave, se colpisce il senso profondo del nostro essere Persona, provoca la crisi esistenziale. In questo caso viene ad incrinarsi il senso stesso della nostra presenza nel mondo.

L’analisi esistenziale o Daseinsanalyse,

raffigura un percorso di conoscenza di se stessi alla ricerca delle micro lesioni nelle varie forme dell’esistere di una Persona (le strutture trascendentali dell’esistenza). Spesso sintomi come stata d’ansia, attacco di panico, disturbi fobici o atteggiamenti compulsivi nascondono o derivano da queste microlesioni durante una fase di mutazione della struttura della Persona. La crisi, ad esempio in un rapporto affettivo può portare ad una crisi esistenziale in quanto quella crisi mette in discussione il modo di essere che il soggetto ricavava dall’esperienza di quel rapporto. Altresì può accadere che una crisi esistenziale possa mettere in discussione il rapporto affettivo.

L’identità e gli archetipi.

La psiche dice Jung è formata da archetipi, cioè da strutture ancestrali che ci portiamo dentro fin dalla nascita. Gli archetipi sono come degli stampini entra i quali si organizza l’energia psichica. Questa unità informatica a sua volta organizza i nostri vissuti, i nostri pensieri e infine i nostri comportamenti. Quando siamo identificati in una forma archetipica tendiamo a pensare e sentire il mondo attraverso di essa. Vi sono varie forma archetipiche che la mitologia e le religioni hanno messo in evidenza. Per esempio l’archetipo del Padre, o della madre, l’archetipo del Salvatore, del monarca; o ancora l’archetipo del viandante, del guerriero. Nel corso della nostra vita possiamo viaggiare attraverso varie forme archetipiche: questo spiega perché in certi tratti della nostra vita siamo attratti e tendiamo a comportarci in certi modo che poi, ad un certo punto abbandoniamo. Pensiamo ad esempio all’anelito al viaggio che può derivare dalla seduzione esercitata in noi dall’archetipo del viandante o dell’esploratore. Pensiamo ancora a forte senso di responsabilità di certe persone: esse non possono fare a meno di occuparsi di qualcuno. In questo caso la Persona potrebbe essere identificata con l’archetipo del Salvatore, o del monarca, o del Padre. Tutti questi archetipi hanno le caratteristiche psicologiche appena menzionate.

Il dolore

Una riflessione sulla natura del dramma di Amleto

Il dolore è molte cose nella vita delle persone. Spesso è la porta che ci apre nuove esperienze di noi stessi. Il dolore come fiamma che scoglie e rifonda l’identità spirituale. Però è anche altro, è come una malattia che ci entra dentro, come un tumore che ci può devastare dall’interno. Il dolore produce anche questo: lacerazione, distruzione e morte. Sofferenze inimmaginabili possono distruggere una persona colpendo a morte la sua identità sociale e perfino, e più tragicamente, la sua identità spirituale.
Partiamo dal fatto che il dolore può procurare quella malattia mortale che è la perdita dell’innocenza. Cioè la perdita del senso di fede nell’esistenza.
Per tale riflessione prendo le spunto da un brano del monologo di Amleto dal film Hamlet di K. Branagh.
Perché Amleto? Come già in Giulietta e Romeo quello che il protagonista perde è il senso di innocenza della realtà. Egli è un giovane e come tutti i giovani credono nella vita, portano intatto dentro di loro un senso di purezza. Ma quando arriva la tragedia nella vita e giunge il dolore seguito dalla sofferenza, la purezza viene macchiata: insorge una ferita che può andar via o può invece permanere. Nel Principe Amleto la macchia rimane e spinge verso la vendetta. Amleto si sente colpito propria là in fondo dove hanno origine tutti i suoi pensieri e i suoi sogni. E sente che i suoi sogni sono irrimediabilmente distorti da quel dolore che avverte come ingiustizia, ecco: quando il dolore è percepito come ingiustizia ha inizio il dramma dei drammi. Il compito arduo di ogni anima colpita dalla sofferenza è proprio questo: dare una giustificazione al dolore, che significa poi dare un senso al dolore. Amleto non ci riesce. In questo brano del film lo cogliamo nel monologo “Essere o non essere”. Perché proprio il senso della perdita della propria innocenza e della innocenza del mondo porta il personaggio a domandarsi se sia così necessario il continuare a vivere: Essere o non essere. Nella rappresentazione cinematografica del monologo il regista ha aggiunto qualcosa, una sua invenzione che a mio modo di vedere esprime meglio il colore emotivo del personaggio. Se in altri allestimenti Amleto recita il monologo di fronte alla morte: in una tomba per esempio, qui il regista pone il giovane principe in una grande sala degli specchi, e gli fa recitare il monologo davanti ad uno specchio, cioè davanti a se stesso. C’è un altro aspetto scenico importante. Quando Amleto si finge pazzo, lo zio, per capirne le vere intenzione, lo fa spiare anche dalla sua amata Ofelia. Qui lo zio lo spia mentre lui sta facendo la sua riflessione sul senso della vita. Lo zio viene posto dietro un vetro da cui vede senza essere visto. Ma Amleto sa che dietro a quello specchio in cui si riflette c’è lo zio traditore e assassino del padre. E quindi quel “Essere e non essere” è detto al cospetto di se stesso e al cospetto dello zio: poi vedremo il valore simbolico di questi frammenti di sceneggiatura.

Alcune riflessioni sul simbolismo di queste immagini.

Amleto è posto di fronte allo specchio, vale a dire che è posto di fronte a se stesso nel chiedersi il senso della sua vita, spinto proprio da quel senso di corruzione da cui si sente pervadere; ma dietro a quello specchio c’è l’altro, quello zio che ne ha ucciso il padre e che rappresenta l’origine di ogni suo senso di corruzione. Dietro allo specchio, nell’inconscio, ci sono le immagini di quel altro rispetto all’Io di cui l’Io non sa, cioè la sua ombra. Qui lo specchio sta a rappresentare la membrana che divede ciò che c’è nella coscienza e ciò che è invece nell’inconscio. E come in Alice nel paese della meraviglie o Alice dietro lo specchio, le cosa, in quell’altra parte, sono diverse, trasformate, opposte a quelle che riconosciamo nella coscienza. E’ con quel opposto che Amleto deva fare i conti, smascherare il senso dell’arcano fatto di passione, amore, vendetta, giustizia, delusione, senso di corruzione, perdita dell’innocenza. Ma egli non riesce ad uscire dal labirinto composto di sentimenti contrapposti e variegati. Ad un certo punto nella scena vediamo espresso sinteticamente la natura del paradosso in cui si trova immerso Amleto, da una parte dice ad Ofelia: “…ti ho amata…” o poi dice “…non ti ho mai amata…” Il giovane Principe sente dentro di sé che non riesce ad affrancarsi da quel senso di corruzione che lo pervade e sta dilagando dentro la sua anima. Questo è il dramma di Amleto: la perdita dell’innocenza sotto la spinta forte e terribile del dolore, quando il dolore è vissuto come qualcosa di ingiusto. Infatti il dramma inizia con questo senso di profonda ingiustizia.

Effetti del sentimento della colpa.

Lo schema sopra riportato vuole rappresentare intuitivamente una certa dinamica di trasformazione a cui è soggetto l’Amore in conseguenza della pressione del Sentimento della colpa.

Da una parte il Sentimento della Colpa agisce come elemento di scissione tra la vita, o prassi della vita, e il Senso della vita. Dato che l’Amore può essere vissuto nella sua pienezza solo all’interno del vissuto del Senso (prassi di vita e Senso della vita o sono sintetiche) la scissione separa la prassi della vita dal suo senso, cioè dal suo valore spirituale. Quindi un primo effetto della presenza del sentimento della colpa nell’amore, fa sì che l’amore venga inibito. Il soggetto può quindi vivere o un senso di appiattimento dell’amore cioè sente il suo sentimento d’amore abbassarsi: l’amore è gettato tra le cose vacue o non importanti per l’esistenza. Dall’altra parte il soggetto vivrà un sentimento di estraniazione da se stesso e della realtà che lo circonda.
L’appiattirsi dell’amore come conseguenza della scissione tra prassi esistenziale e senso dell’esistere, spinge verso forme d’amore che pur mantenendo in sé la presenza dell’amore lo collocano in un senso che è al di fuori dell’amore stesso. Il senso è una legge, un dovere che si impone al soggetto. In altre parole il soggetto tenta di trovare quel senso che ha visto sfuggirgli dalla prassi esistenziale che sentiva fluire spontaneamente da sé. E il senso lo trova nel dovere o nella pietà verso il prossimo. Adempiendo al dovere di amare pietisticamente, lenisce quel senso della colpa che lo spacca in due.

Una seconda strada vede conseguire alla scissione (prassi della vita – senso della vita) la deformazione dell’amore. L’amore subisce una sorta di deformazione genetica. Da quella forma di spinta verso la verità dell’essere, l’amore viene trasformato in una esperienza del godimento di sé, o per dominio sull’altro o per ricerca di piacere effimero. Da ciò abbiamo due forme: da un lato l’aridità dei sentimenti, dall’altro l’edonismo.

L’ecologia del dolore.

tratto dal libro “Logos e Pathos” di Renato Barbruni, Ed. Nuovi Autori

La sofferenza imprime in ciascuna persona la sua impronta in modo oggettivo e assoluto, mentre, d’altra parte, è suscettibile di un suo adattamento alla particolarità del soggetto che la patisce. Il ché vuol dire che la sofferenza, accanto ad una dimensione oggettiva, racchiude una particolare dimensione che entra in relazione con il soggetto. Lo psicologo lo sa fin troppo bene che il suo lavoro verte prevalentemente su questo secondo aspetto, poiché il fatto che la sofferenza abbia una dimensione percepita soggettivamente, deriva dalla particolarità della personalità che la patisce, e dalla situazione esistenziale e storica in atto. La struttura della personalità, con la sua organizzazione di idee, ricordi, sentimenti e stati d’animo, può possedere caratteristiche tali da permettere alla persona di sopportare gradi di sofferenza molto alti, e altrimenti, smagliature tali da non permettere al soggetto la tolleranza anche di livelli minimi di sofferenza. Questo fatto è sotto gli occhi di tutti, e tutti i giorni. Dall’atleta che non si arrende facilmente rispetto al suo concorrente che non regge lo sforzo della fatica più a lungo e che, proprio a causa di ciò, subisce la sconfitta; quel bambino che non sopporto la frustrazione e la delusione di non aver ricevuto quel regalo, e con toni drammatici mette in scena un tale pianto da far disperare i genitori, a tal punto che corrono a comprarglielo per farlo tacere. Ancora una esempio lo troviamo nello studente che non sa sostenere la fatica dello studio, tanto più quando, guardando davanti a sé, vede un orizzonte incerto per il suo futuro. Lo scenario lo spaventa e lo deprime fino alla rinuncia allo studio, o semplicemente, fino a renderlo apatico e refrattario alla vita universitaria. Quello che riscontriamo, come demotivazione allo studio, altro non è che l’incapacità di reggere l’incertezza sul futuro e la fatica di apprendere. In tanti momenti della vita, la capacità di tenere, di saper sopportare la sofferenza, ha deciso le sorti di una persona, addirittura della sua vita e della sua morte.

Questa dimensione soggettiva, entro cui il dolore è percepito, è costituita dallo sviluppo e dalla dinamica della personalità, e da fattori culturali e ideali. Il lavoro psicologico tocca proprio questo aspetto: analizzare i fattori personali e culturali che non permettono al soggetto di vivere quel dolore autenticamente per quello che è. Se a quel certo episodio riusciamo a togliere gli elementi di deficienza personale e di deformazione culturale, che costituiscono gli aculei che amplificano la percezione del dolore, il soggetto potrà entrare in un rapporto dialettico con la propria sofferenza e scorgere gli elementi euristici necessari alla propria evoluzione sul piano spirituale.

La sopportazione della sofferenza non è oggi una caratteristica considerata nobile. Nella nostra cultura il dolore e la sofferenza sono ospiti scomodi e vanno subito eliminati dallo scenario dell’esistenza. Quindi non si tratta mai di sopportare il dolore ma di eliminarlo subito, presto, senza nessun momento riflessivo sul perché il dolore sia penetrato nel flusso dell’esistenza. Nel suo toccante libro, Uno psicologo nei lager, Victor Krankl, narra la sua personale esperienza in quella orribile situazione. E proprio la sua osservazione di ciò che ha vissuto lui stesso, e gli altri internati, lo hanno convinto della decisiva qualità, tipicamente umano, di saper sopportare il dolore. Soltanto da quella sopportazione emerge il senso di quella sofferenza.

Antologia

Frammento da: Beati i poveri di spirito, breve riflessione sull’esperienza di una crisi esistenziale

“Beati i poveri di spirito”

Il nobile temendo e tremando
mette ordine nella sua vita ed esplora se stesso.
Esagramma 51: l’eccitante – I Ching

L’ESPERIENZA ESTREMA

Nel corso della propria vita ciascuno di noi, prima o poi, vive delle esperienza estreme. Vive situazioni che sono poste alla limite ultimo di un certo percorso. E’ come se giungessimo al punto più lontano che quella strada permette.
Il cammino si è fatto più arduo, e più faticoso è il procedere; ed a quel punto sembra che tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che ci è servito fino ad allora non serve più; anzi, è divenuto inadeguato e inutile. Alle volte ci sembra proprio di imbarazzo, quasi di ostacolo, di impedimento. Ma tutto questo noi lo avvertiamo come una nostra inadeguatezza, ed un senso di estrema impotenza ci pervade. Nulla di quel che sappiamo e che costituisce il nostro bagaglio conoscitivo sembra essere all’altezza della situazione. La realtà incombe su di noi immensa e potente come mai ci è apparsa, rivelandosi inaccessibile a qualunque interpretazione e riflessione; refrattaria ad ogni tentativo di ordinarla dentro una qualche forma di pensiero. Ci sfugge via tra le dita della mano come l’acqua che sgorga da una fonte improvvisamente impetuosa: tanto più l’acqua scende, tanto meno ne rimane nella mano protesa.
Se mai abbiamo avuto bisogno di un punto fermo, di un sostegno, della capacità di riflettere obbiettivamente, in tali circostanze ne avvertiamo maggiormente l’esigenza estrema e vitale.
La nostra stessa identità sembra vacillare, e poi crollare sotto i colpi duri e implacabili di una realtà che si è fatta impietosamente avversa e contraria. E’ come se ci trovassimo improvvisamente di fronte ad un muro che ostacola ed impedisce il cammino senza però renderci conto che quel muro costituisce la fine di quel commino. Anzi quel muro lo percepiamo come nostra incapacità a procedere. Ecco che inizia perverso il dubitare di noi stessi. Il dubbio è così radicale che coinvolge la nostra identità nelle sue radici più profonde; tutto ciò in cui crediamo e in cui ci identifichiamo frana, si disintegra miseramente lasciandoci sospesi in un vuoto disperatamente assoluto.
“Io penso, quindi sono” dice Cartesio, ma il problema dell’uomo non è tanto legato al dubbio se egli ci sia o non ci sia, ma al fatto se egli costituisca o meno un valore. Il problema squisitamente e peculiarmente umano non è ontologico, ma etico. Non sull’essere si sviluppa tutta la tematica e la drammaticità dell’esperienza umana, ma sul valore. E ciò che viene colpito in una situazione estrema dell’esistenza è proprio il valore soggettivo.
“Ma chi sono io per te Signore, che mi hai cercato in ogni luogo?” (Sant’Agostino).
Chi sono ?”, in questo caso equivale a: “che cosa valgo per te, quale valore attribuisci, Signore, alla mia vita, a me come soggetto singolo?”
Senza la tematica del valore non ci sarebbe neppure una storia umana.
La crisi esistenziale è una crisi d’identità ma soprattutto è una crisi di valore. Il valore di se stessi viene meno e il soggetto si sente squalificato, sente l’annichilirsi del valore soggettivo fino a quel punto riflesso in una determinata identità. Già, poiché l’errore è proprio quello di legare il valore soggettivo all’identità soggettiva. Nel corso della vita ciò che può mutare è l’identità soggettiva ma è bene che non muti il valore soggettivo. Ma affinché ciò avvenga è necessario che il valore sia radicato in qualcosa di più stabile dell’identità soggettiva. Le identità sono gli abiti che noi indossiamo di volta in volta nel corso della vita. Sono le pietra sulle quali saltiamo per attraversare un torrente, non sono quindi il luogo dove dobbiamo sostare. Altro deve essere il punto d’appoggio della nostra esistenza. Ecco che nei momenti estremi cerchiamo una radice più fondamentale, più essenziale.

L’ANIMA MASCHILE

C’è un nucleo impenetrabile nell’anima maschile. Un nucleo inaccessibile che agisce come esperienza di distacco. L’uomo, più della donna, mostra difficoltà nel percepire la comunione. Per l’uomo la comunione è colta sul piano del pensiero, è “vista” dopo l’elaborazione cosciente, non è quasi mai un’esperienza vissuta. Per questo l’uomo vive i rapporti nella discontinuità; il tessuto connettivo della “sua relazionalità” è frammentato poiché nel suo intimo non giunge mai ad aprire il “nocciolo duro” della sua anima individuale: egli è sempre altro dalla relazione che vive. Questo aspetto della psicologia maschile non è stato abbastanza osservato e studiato. Credo che il primo ad averne fatto menzione sia stato Kierkegaard. Probabilmente era proprio a questo aspetto della natura maschile che si riferiva quando accennava “ad una sorta di maledizione che aveva a che fare con il padre”. Per questo motivo, dopo una tormentata decisione, il giovane Soren lascia la fidanzata Regina Olsen per percorrere la via della conoscenza in solitudine. E’ questo che porta l’uomo a vivere da solo. Egli fa sempre esperienza del mondo da solo in se stesso, non è capace di esperire all’interno della relazione, poiché egli non è capace di aprirsi all’incontro con l’altro. Per questo motivo per l’uomo l’amore non è così importante e decisivo quanto lo è invece per la donna. Quando l’uomo piange per aver perso la donna amata, soffre perché con essa ha perso il calore dell’affetto, l’esperienza della dolcezza e l’abitudine di una presenza; per la donna, con l’uomo che ama, se ne va il senso stesso della sua vita proprio perché nella relazione essa vede – non sempre consapevolmente – il senso stesso dell’esistere. Non già e soltanto della propria vita, ma della vita in se stessa: è la vita che piange nel vissuto della donna dolente. Giacché le separazioni sono vissute più drammaticamente e ostinatamente dalle donne, nel senso che la consolazione con un nuovo compagno è più difficile. La donna è sempre alla ricerca della relazione che qualifichi la sua vita. Questo aspetto è stato erroneamente letto su un solo piano: quello sociale e storico dicendo che la donna si affranca sposando l’uomo. Si pensa, in tale contesto interpretativo, che alla donna interessa, nella relazione, veder riconosciuto il suo ruolo sociale. Ma questa interpretazione è chiaramente una proiezione maschile, il quale non ha mai capito il senso e il mistero dell’amore. La donna invece si fa sposa per cercare nel rapporto il senso della vita. La donna ha rinunciato da millenni a cercare un senso della vita da sola, per affidarsi totalmente al rapporto. Tutto questo però la donna non riusciva a vederlo schiacciata come era dalla coscienza maschile del mondo che in essa, nella donna, vedeva una rinuncia alla ricerca autonoma del senso. E l’uomo non riusciva a vedere che quella rinuncia alla ricerca individuale – da parte della donna -, quale offerta di sé per affidarsi alla ricerca insieme al suo amore, non era l’incapacità, da parte della donna, di addivenire al senso in modo autonomo.

ELEMENTI DI CRISI NELLA REALTÀ SOGGETTIVA

Esiste uno stretto legame tra la sofferenza esistenziale e i mutamenti della struttura storico-sociale. Il mutamento della struttura storico-sociale si manifesta più palesemente nella trasformazione costante dei ruoli sociali, nei rapporti tra gli individui e negli aggregati sociali.
Il mutarsi dei ruoli influisce sul mutarsi dei rapporti e viceversa. Nel senso che il tipo di rapporto che si instaura tra due persone definisce anche il ruolo che esse assumono tra di loro e nel gruppo di appartenenza. Il ruolo è la dimensione socioculturale di un rapporto che ne costituisce invece la dimensione personale.
Nel manifestarsi concreto del rapporto e del ruolo assistiamo, nel corso della storia delle società, all’accentuarsi del primo sul secondo.
Se nel processo di trasformazione il ruolo e il rapporto sono sincronici, nel suo manifestarsi il ruolo tende a determinare il rapporto.
Il rapporto tra un padre e un figlio spesso è determinato dal ruolo di padre e dal ruolo di figlio attribuito loro dalla cultura di appartenenza. Ed il ruolo obbedisce ad esigenza simboliche. Il simbolismo per esempio della figura maschile porta con sé elementi di dominio e di governo cosicché nel manifestarsi del ruolo di padre questi tenderà a interpretare il suo ruolo inserendo nel rapporto tali elementi. Così il padre non potrà essere troppo affettuoso con il figlio poiché deve governare e dominare, solo così egli si sente un buon padre. Il valore di essere padre in una data società si definisce attraverso determinate coordinate; l’uscita da queste coordinate porterebbe il soggetto a sperimentare un sentimento di tradimento del proprio ruolo o compito a lui assegnato. Ecco che egli deve modulare i suoi autentici modi di vivere il rapporto.
Nelle società moderne assistiamo a qualcosa di storicamente innovativo: il ruolo storico-sociale sembra avere una struttura meno forte, si mostra più flessibile lasciando spazio alla soggettività che può quindi manifestarsi con più facilità.
Spesso le sofferenze esistenziali nascono proprio dal venir meno di un determinato ruolo sotto la spinta di esigenze soggettive che non possono più essere taciute. Questa spinta soggettiva modifica i rapporti e quindi il ruolo; ed il modificarsi del ruolo altera la struttura sociale.
Si può ben dire che stiamo assistendo ad una rivoluzione silenziosa operata dalla soggettività.
Non sono tanto le esigenze collettive alla base del modificarsi della società (come nella rivoluzione francese per esempio), ma l’esigenza della singolarità del soggetto: dall’anelito dell’individuo a divenire soggetto.

La spinta ad esser se stessi è il vero motore di questo processo rivoluzionario.

Ma la spinta ad esser se stessi cozza contro la determinazione dei ruoli sociali, e poiché questi sono rafforzati dalla struttura socioculturale, assistiamo ad un fenomeno che possiamo chiamare di svuotamento del valore della società.

I soggetti vivono esigenze che la società non è in grado di soddisfare dato che è ancora strutturata per altre e superate esigenze.

Il senso di estraniazione dell’uomo d’oggi deriva dallo scollamento ormai cronico tra le esigenze della propria singolarità e le richieste dalla società.

CARAVAGGIO E RUBENS: DUE MODI DI RAPPRESENTARE IL DOLORE
Tratto da “Logos e pathos” di Renato Barbruni pag. 44-45 Ed. Nuovi Autori

Il quadro si presenta cupo. L’occhio cade sulla figura del Cristo morto. Il corpo è il soggetto del quadro, un corpo pesante: Zaccaria ricurvo, piegato, che ci guarda con espressione indefinita, è sotto lo sforzo del peso del corpo morto, quasi come se portasse “una cosa”, non una persona morta. Giovanni è nell’oscurità, mentre, delle tre figure femminili, nessuna ha un contatto fisico con quel corpo, quasi abbandonato. Il tutto è sostenuto da una lastra di pietra grossa e pesante. La pesantezza dell’esistenza, la sua oscurità muta introduce al tema nichilista del nulla, del non senso. E’ un quadro iconoclasta che sul tema sacro della morte del figlio di Dio, ferma il pensiero, lo cattura nella irreparabilità della morte senza speranza e senza scopo, senza resurrezione. E in questa rappresentazione tragica troviamo i segni del modo di affrontare la sofferenza e l’avversità, della coscienza materialista e scientista. Quadro privo di afflato mistico e totalmente verista in sento materico. Il corpo del Cristo è un corpo morto, non ha più nulla di divino, nulla che richiami ad un trascendente. Si può dire che da Caravaggio inizia, in modo più esplicito, l’atteggiamento iconoclasta che si diffonderà prepotentemente nell’arte novecentesca, la quale diverrà esclusivamente atto provocatorio . Finirà per abbracciare un’unica provocazione: Dio non c’è, il che equivale a dire che non vi è Senso. Il vero manifesto dell’arte novecentesca è che la vita non ha un senso, o meglio, la vita non ha un fine. Essa ha un principio, ma non un fine. Ciò condanna la vita e il cosmo in un limbo in cui tutto è lì in un perenne stato senza mutamenti. E’ strana la cosa, in quanto proprio sull’idea di evoluzionismo si è giocata la partita tra chi vede un senso nel creato, e chi non ne vede alcuno. L’arte novecentesca, nel suo manierismo iconoclasta, produce un aumento di entropia, non essendo mai sintetica poiché aborre qualunque forma di trascendentalismo. Fino a sfociare in quel nichilismo diffuso che alimenta la disperazione della coscienza contemporanea. Per tale manierismo la provocazione, invece della morte di Dio, dovrebbe consistere nella sua verità e inevitabilità per la nostra vita.

L’immagine qui è tutta diversa. Il corpo è luminoso, glorioso. Il capo, abbandonato morbidamente all’indietro, pone al nostro sguardo la speranza che trapela da quel viso pieno di espressione e dolore. E’ un dolore che continua nella morte, che travalica la morte e pertanto la supera, la cancella. Al centro di questo quadro vi è il dolore che nasce dall’amore che vediamo riflesso sul volto di Maria e di Giovanni, colti nel gesto della pietà. L’accoglimento di quel corpo luminoso svela al loro cuore un progetto d’amore fino ad allora sconosciuto. Nel tipinto possiamo riconoscere tre eventi narrativi. Il titolo è “la sepoltura, ma all’interno si riconoscono “la Pietà”: Maria che sorregge tra le braccia il corpo morte del Cristo; “Il compianto sul Cristo morto”: sul lato sinistro è ritratto Giovanni, che sorregge delicatamente il Cristo, con la mano fasciata posta vicino alla ferita quasi ad indicarla, situata in primo piano . Giovanni ha il volto compreso nel dolore, non piange, ha lo sguardo chino, muto e contemplativo sul dolore. E’ lui che riflette sul senso della morte e della sofferenza, sul senso di “quella” morte. Toccherà proprio a Giovanni tradurre quell’evento dal piano archetipico della storia della salvezza, al piano cosciente dell’intelletto umano. E’ l’apostolo che testimonia e ridefinisce la figura del Cristo. Egli guarda dall’alto, come del resto ci dice il simbolo attraverso cui è rappresentato nella iconografia evangelica: l’aquila.
Maria è colta nella drammatica e struggente essenzialità dell’atto di offrire il suo dolore di madre alla misericordia di Dio. Il dolore è posto al centro della storia dell’uomo, da quel centro ove tutto si muove e si trasforma che è il Cristo. La ferita lacerante nel costato, in mostra evidente ancora sanguinante, è il centro del mistero del dolore, un dolore che colpisce il figlio di Dio e a cui non può né vuole sottrarsi. Neppure Dio può fare a meno del dolore: non è più un castigo, ma il modo per trasformare il peccato, la materia. Il dolore quindi possiede una sua potenzialità trasformativa, che converte la sostanza stessa dell’essere. Questa è la metanoia da cui discende la possibilità della salvezza, o più semplicemente e mondanamente, la possibilità di saper includere anche il dolore dentro il flusso della vita, in modo che le pene dell’esistenza non abbiano più l’aculeo mortale del non senso.

VIOLENZA E MASS MEDIA

Lo sconforto ed il dolore ci coglie all’improvviso dopo l’ennesima strage di innocenti perpetuata non da un terrorista (il 14 dicembre 2012 la strage nella scuola elementare di Sandy Hook, a Newtown, in Connecticut ), ma da un ragazzo come tanti con qualche problema psicologico, come tanti suoi coetanei. Le problematiche psicologiche non spiegano tanta violenza e una deriva così crudele. Da psicologo mi stupisco sempre quando sento certi commenti sui mass media che tirano fuori la ormai ritrita causale delle emozioni che il soggetto non riesce a gestire. Certo, è come dire che un alcolista non sa più reggere l’alcool. Si dimentica troppo spesso di mettere sotto accusa i mass media. Purtroppo constatiamo che i giornali sono puntuali nel descrivere azioni delittuose e danno libero accesso a tanti personaggi violenti. I film sono violenti, i telefilm idem, per non parlare dei videogiochi. La nostra mente, diceva Hillman è immaginale, ciò vuole dire che si nutre di immagini. Pensiamo al giovane che è costantemente esposto ad immagini violente le quali penetrano nella sua mente e vi si fissano. Quando ad un ragazzo, con una personalità già debole, succede qualcosa di grave che gli provoca dolore, ciò lo fa implodere in se stesso (perché questo provoca il dolore) e quale immagine incontra dentro il suo cuore? Non certo quella del Cristo sulla croce, che lo aiuterebbe a sopportare quel dolore e a viverlo con nobiltà d’animo; trova invece il vendicatore, il guerriero spietato protagonista di tanti film e videogiochi a cui è stato esposto. La cultura laicista ha fatto presto ha bandire dalle aule scolastiche il crocifisso, e lentamente lo ha estirpato dalle coscienze. Stranamente però non è riuscita a fare altrettanto con le immagini dei violenti, e dato che la mente senza immagini non può articolarsi, al posto del Cristo si è sostituita l’icona del vendicatore che popola la letterature e i film di cassetta. Sotto la maschera della libertà espressiva di autori e di giornalisti, che sono liberi e devono restarlo, molti di essi si sono assuefatti alle immagini del male dandovi libero accesso nei mass media.

Poi stiamo lì a discutere su come mai i giovani non riescono a contenere le emozioni. Penso tuttavia anche all’uomo che uccide la moglie perché lo ha lasciato: non sopporta il dolore che lo devasta, anche lui non ha l’immagine di Cristo a fondamento della sua visione del mondo, ma il vendicatore. La coscienza si è ri-paganizzata e le “virtù” pagane sono tornata vive e prepotenti. Abbiamo giocato per troppi anni a fare gli apprendisti stregoni attraverso una pedagogia solo permissiva, che stimolava l’espressione delle emozioni. Non ce lo ricordiamo che la cultura psicologistica pensava che la causa delle nevrosi consisteva nella incapacità ad esprimere le proprie emozioni? Intellettuali con memoria corta, cattivi maestri che ancora oggi scrivono fiumi di parole vuote sui loro giornali. Tutti se la prendono con le armi, ed è giusto, ma nessuno mette in discussione il sistema dei media che ospita sempre, e quasi esclusivamente, il male. Fiumi di immagini investono la coscienza e vi si stabilizzano, e a tempo debito pilotano verso l’azione nichilista le personalità più deboli.
“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare neppure quelli che vogliono entrarci.”
Matteo 23,13
“Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole”
Lettere di San Paolo 2Timoteo 4,3-4

BY: Irene Barbruni

L’identità corporea
Condividi Su:

L’identità è un indispensabile punto di riferimento per la vita di ogni persona perché fornisce il senso del proprio essere, che è distinto dagli altri e stabile nel tempo. Anche se un individuo cambia nel corso della vita, il sentimento di identità, che accompagna ogni momento del passato, gli permette di vedersi diverso ma nello stesso tempo uguale; ciò assicura non solo la coerenza della conoscenza cosciente ma anche quella delle azioni.
Ognuno impegna le proprie risorse per conquistare e conservare il proprio sentimento di sé, perché un’identità fragile e incerta provoca un’esperienza soggettiva di smarrimento, che comporta una sofferenza profonda. Infatti, il compito principale di ogni individuo è la conquista della propria identità, soprattutto in particolari momenti della vita in cui si richiede una ridefinizione del concetto di sé. In modo particolare durante la pubertà, in cui si manifestano importanti cambiamenti a livello corporeo e personale, la costruzione di una nuova identità diventa fondamentale per l’adolescente che, sperimentando nuovi modi di porsi, attraversa una vera e propria crisi di identità. Ed è proprio questa crisi di identità che lo rende vulnerabile e suscettibile alla influenza del gruppo di appartenenza. Proprio perché la mancanza di un’ identità soggettiva chiara, porta a cercare un’ identità forte nel gruppo. Così l’identità di gruppo diviene l’Io stabile che manca al soggetto.
L’identità personale riguarda la riflessione su di sé, mentre l’identità sociale è costruita in relazione all’altro e al gruppo di riferimento. Queste due dimensioni sono fortemente intrecciate ed è difficile distinguere tra gli aspetti individuali e collettivi poiché non si può parlare di identità di un soggetto prescindendo dal suo sistema di relazioni e dalle sue radici sociali. Ecco perché l’identità soggettiva e la sua maturazione sono importanti, proprio perché solo se il soggetto avrà maturato una propria cosciente individualità distinta dal gruppo, saprà cogliere le istanze sociali e collettive come elementi dialettici e non come elementi che lo dominano. In questo caso avremmo una pesonalità dipendente dal gruppo e quindi inautentica. Gli attacchi di panico spesso avvengono proprio per un deficit di identità soggettiva, o quanto questa è percepita minacciata.
L’identità soggettiva passa anche attraverso il modo attraverso cui percepiamo il nostro corpo. Prova ne è la cirisi di identità della persona che subisce alterazioni in alcune parti del proprio corpo. Tanto più in una cultura come quella attuale dove l’immagine di sé diviene l’identità seggettiva. Quello che gli altri vedono di noi diviene l’identità: il corpo è il vivibile dell’invibile soggettività.
Ogni individuo incontra il proprio corpo in una serie di aspetti, che si manifestano nei vari momenti della vita, in cui esso si presenta secondo angolazioni differenti. Per esempio, può essere un organismo malato da curare, oppure forza-lavoro da impiegare o ancora un mezzo di comunicazione, nella quale rientra l’utilizzo del corpo come testimone di se stessi. Il corpo non può essere incontrato nella sua interezza così come non si può analizzare direttamente il modo in cui ogni soggetto vive la propria corporeità. Anche all’interno delle scienze esso è conosciuto solo in quegli aspetti che si riescono ad oggettivare.
L’immagine del proprio corpo, che è percepita dal soggetto, non è mai fedele alla realtà perché nessuno può esplorare ciò che si nasconde dietro di lui o vedere in ogni momento l’espressione del proprio volto.
Il modo di vestirsi è un indicatore significativo di come un individuo vive e sente il proprio corpo: se lo accetta oppure lo rifiuta, o ancora se è fonte di vergogna oppure di orgoglio per se stessi. L’abbigliamento rivela un mondo di significati che un corpo nudo non potrebbe esprimere. Così come il truccarsi, il pettinarsi fino ad arrivare alla spinta verso lo stravolgimento di parti del proprio corpo quando una persona decide di ricorrere alla chirurgia estetica. L’86% circa degli interventi chirurgici sono richiesti dalle donne, ma negli ultimi anni sono sempre più uomini a richiedere diverse tipologie di ritocchi sul corpo. Addiruttura una legge del 2012 in Italia ha dovuto vietare l’intervento di chirurgia estetica al seno per le minorenni. Ciò denota una deriva tra la giusta cura della propria immagine e la irriflessiva rincorsa verso un modello e/o un’eterna giovinezza distante dalla natura delle cose e quindi da noi stessi.
Rispetto ai fattori spiegati all’inizio bisogna considerarne due in particolare: abbiamo bisogno di riconoscerci anche se cambiamo e l’immagine che abbiamo di noi non è mai fadele alla realtà. Ciò significa che orientare tutta l’aspettativa su un cambiamento del corpo per ricercare la propria autostima, per esempio, è illusoria. In quanto è proprio attraverso l’immagine interiore che abbiamo di noi stessi che valutiamo/giudichiamo l’esterno. Inoltre quando andiamo a togliere, aggiungere o modificare addirittura il nostro viso rischiamo di rovinare ciò che ci lega alla nostra storia. Il desiderio della chirurgia plastica, soprattutto se molto invasiva va sempre indagato e spesso ciò che deve essere affrontato è dentro di noi e non fuori.
Quindi l’identità soggettiva, che è una struttura complessa, e che deriva dalla sintesi tra realtà vivibile (il corpo) e realtà invisibile (l’anima, il centro della personalità), è la vera opera d’arte che ciascuno deve saper realizzare. Una realizzazione che si sviluppa attraverso l’idealità di e ciò a cui aspira, è ciò che costituisce il vero e personale senso di sé.

BY: Irene Barbruni

Il rapporto con il cibo: aspetti simbolici
Condividi Su:

L’atto di nutrirsi, nell’ambito umano, assume caratteristiche complesse. Infatti, l’uomo quando si nutre soddisfa esigenze profonde che vanno al di là della semplice introduzione di sostanze nel corpo. In tutte le culture possiamo individuare una serie di dimensioni culturali e simboliche, fondamentali per comprendere i significati consci ed inconsci dei nostri comportamenti alimentari.
Fin dai tempi antichi l’uomo è andato oltre all’aspetto puramente biologico del momento nutritivo, fornedo un significato sociale ma anche religioso (tanti sono i riti religiosi che comprendono l’offerta di cibo). Infatti l’essere umano ha messo il cibo su un tavolo elevandolo dalla terra e ha riunito attorno ad esso i membri del gruppo.
Le abitudini alimentari sono cambiate parzialmente nel tempo. L’aspetto dell’incontro con l’altro e l’offerta di cibo rimane molto presente anche oggi. I pranzi e le cene diventano occasione di incontro, ma anche quando arriva un ospite inaspettato abbiamo l’abitudine di offrire da bere o da mangiare. Ma non vi è solo l’aspetto sociale; spesso ci fermiamo durante la giornata intervallando i pasti principali con spuntini frequentemente dolci o comunque appetitosi. Il gusto e l’olfatto sono sensi arcaici strettamente legati, sia anatomicamente che fisiologicamente, alle nostre percezioni e alla nostra memoria. Assaporare o annusare un certo cibo spesso ci richiama direttamente ad uno stato emotivo collegato ad un ricordo. Il profuno della “sardenaira” della nonna, ad esempio, ci riporta alle emozioni e ai vissuti della nostra infanzia. Quindi un atto, che sembra così strettamente legato al corpo, in realtà possiede un legame fortissimo con gli aspetti della nostra psiche.
Fin dai primi giorni di vita il bambino associa il nutrirsi, ossia il momento in cui sperimenta la sazietà, al sentirsi amato e al sicuro. Questa associazione, se pur meno frequente, rimane nella vita adulta, nel momento in cui alcuni bisogni di cibo non rientarno in un bisogno di nutrimento del corpo, ma dal bisogno di una stimolazione piacevole. Purtroppo oggi abbiamo perso quell’equilibrio e quella naturalezza che nell’uomo primitivo era presente. Quindi assistiamo a fenomeni che vanno da diete rigorose, che assumono caratteristiche di espiazione, alla valenza autodistruttiva e squalificante (sia per il cibo che per la persona) dell’abbuffata. Al di là dei problemi alimentari assistiamo in generale a disagi nel rapporto con il cibo, percepito infine come un nemico vero e proprio. Spesso si mangia per tristezza, per noia e il cibo si carica di valenze compensatorie e purtroppo non è la strada giusta per risolvere nessuno dei nostri problemi. Anzi quando il nutrimento alimentare si sostituisce a quello affettivo, prepariamo il terreno per i disturbi alimentari, condannandoci ad una perpetua frustrazione dei bisogni più profondi e duraturi della persona. Il cibo è certamente legato ad un senso di piacere, ma è un piacere superficiale, come il divertimento o il possedere oggetti.
Per ritrovare quella naturalità persa nel rapporto con il cibo, è fondamentale emanciparsi dalla esclusiva associazione cibo/piacere e introdurre buone abitudini che ci conducono verso un nutrimento più completo. Per fare un esempio: se il medico mi consiglia caldamente di non consumare un determinato tipo di cibo, che però mi piace molto, nel momento in cui riesco a mettere in atto questa rinuncia riuscirò ad emanciparmi dalla dipendenza da un certo gusto e parallelamente acquisterò maggior equilibrio con la naturalità del cibo che deve nutrire e non fare ammalare.
Porre il piacere a fondamento della vita è tuttavia la condizione dell’età contemporanea. Siamo costantemente sollecitati dalle compagne pubblicitarie, che cercano di farci comprare di tutto, un tutto che viene ammantato dall’illusione che, attraverso di esso, raggiungeremo la felicità. Cedendo a questa seduzione siamo preda dell’incantesimo che ci trasforma in animale come ammoniscono le favole: si veda Hansel e Grettel, oppure Ulisse nell’isola della maga Circe, che trasforma i suoi marinai in porci. Il fatto di diventare animali non è solo una metafora, perché infondo è quello che pensiamo di essere in questa cultura, dove gli esseri umani considerano di essere mossi prevalentemente da bisogni fisiologici dimenticando i bisogni accrescitivi (come li chiama Maslow) i quali comprendono piaceri più elevati che ci conducono verso la finalità della nostra vita, ossia la nostra realizzazione piena.

BY: Irene Barbruni

La violenza sulle donne
Condividi Su:

Il fenomeno della violenza di genere è difficile da misurare, in quanto essa si consuma, nella maggior parte dei casi, all’interno delle mura domestiche. I dati quindi che abbiamo sono presumibilmente sottostimati. Negli ultimi anni i mass media si sono sempre più occupati del fenomeno coniando il termine femminicidio. In Italia ogni anno muoiono decine di donne vittime, nella maggior parte dei casi, del partner o dell’ex partner. Nei primi otto mesi del 2018 i dati parlano di 8414 casi di stalking e, mentre diminuiscono gli omicidi degli uomini, quelli delle donne sono fermi.
L’art. 1 della dichiarazione Onu sull’eliminazione della violenza contro le donne così lo definisce: “É violenza contro le donne ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà”.
Il fenomeno è globale e sicuramente ci sono paesi nei quali esso assume caratteristiche diverse dai paesi occidentali. Vista la vastità del tema mi concentrerò sulle dinamiche psicologiche considerando la manifestazione del fenomeno nei paesi occidentali, dove esso è diventata un’emergenza, probabilmente perché episodi intrisi di una tale brutalità diventano difficilmente comprensibili a fronte di un certo livello di progresso, che dovrebbe aver determinato una maggiore sensibilità. Si pensi, ad esempio, ai progressi della sanità (il rischio di mortalità durante il parto è pari ad una probabilità su 39 per una madre africana, rispetto a 1 ogni 4.700 per una donna europea o nord-americana) e alla legislazione che ha fatto molti passi avanti per la parità uomo/donna (anche se la legge del diritto di famiglia, che stabilisce l’uguaglianza tra i coniugi, è del 1975 quindi relativamente recente). Come mai nonostante il progresso sociale, scientifico ed economico, esiste ancora un fenomeno che vede uomini che hanno atteggiamenti violenti verso la propria partner fino addirittura a toglierle la vita? Il fenomeno è trasversale e colpisce anche famiglie economicamente e culturalmente avvantaggiate. Dato che è il maschio che agisce con violenza sulla donna ed è più raro il contrario, il problema risiede nel maschio. Dobbiamo chiederci che tipo di maschile è presente oggi?
Interessante è il nuovo spot, di una nota marca di prodotti per l’igiene personale, che ben semplifica e descrive le radici profonde di un’educazione ed impronta culturale che riversa sul maschile un modello legato alla forza fisica e alla virilità, connesso al tema del dominio sull’altro. Spot che ha subìto critiche in quanto “mina la virilità dell’uomo”. Quindi l’idea di uomo che oggi domina è ancora quella che aderisce ad un modello maschile tutta azione (agressiva), niente sentimento e quindi orientato all’agito emotivo, alla prevaricazione ed al pensarsi invulnerabile. Un uomo, quindi, che non sviluppando fin da piccolo le capacità che lo mettono in contatto con il mondo dei sentimenti, non saprà gestire il mondo delle proprie relazioni e soprattutto non avrà gli strumenti intellettivi ed empatici per comprendere il mondo femminile.
Stando ai dati statistici, il movente “passionale o del possesso” continua ad essere il più frequente. Quando la donna decide di interrompere un legame, l’uomo è incapace di accettare la realtà e utilizza la violenza. Il tema dell’amore, come spiega Jung, è accompagnato dal tema del potere. In una relazione d’amore i soggetti coinvolti sentono che inevitabilmente hanno potere sull’altro. Quindi se immaginiamo l’amore e il potere come punti estremi di una linea, possiamo vedere come se ci avviciniamo al potere ci allontaniamo dall’amore. Ecco che un uomo che sente di avere potere sulla donna che lo ama, la trasforma automaticamente in un oggetto di dominio e possesso.
Nella storia l’uomo si è identificato in un’idea di virilità che ben rappresenta il così detto maschio alfa ossia l’uomo che domina. Parallelamente molte donne sono spesso più attratte da questo tipo di uomo e scambiano la spavalderia con la forza interiore e la capacità d’amare. Anche il femminile spesso risulta schiacciato in una visione di donna che pensa ancora inconsciamente di aver bisogno di essere dominata da un uomo. Tutto ciò deriva dal fatto che la società odierna è ancora immersa in una cultura maschilista; gli studi sociologici ben descrivono la società androcratica (in modo particolare ne parla la sociologa statunitense Riane Eisler).
La lunga strada da percorrere, quindi, nasce dall’educazione delle nuove generazioni. Bambini che devono essere educati al sentimento e non essere etichettati “femminucce” se imparano a gestire i conflitti con la parola e la mediazione e non attraverso la forza fisica. Di contro anche le bambine dovrebbero presto imparare a coltivare una maggior consapevolezza della forza della pazienza e dei sentimenti tipici del mondo femminile.
Purtroppo molto subdolamente ancora oggi quello che viene spacciato per qualcosa di nuovo, dopo un’attenta analisi, non è quasi mai così. Ne è un esempio la trasformazione “moderna” della favola di Biancaneve in un film del 2012, in cui Biancaneve si trasforma in un’amazzone sviluppando gli aspetti maschili dell’aggressività e della vendetta. Viene tolta quindi quella capacità di superare gli elementi distruttivi, presenti nella personalità, attraverso una catarsi evolutiva tipicamente femminile presente nella fiaba originale rappresentata dal simbolismo dei sette nanni (il sette simbolo di integrazione interiore). Chiaramente viene scelta una modalità maschile togliendo e, quindi svalutando, una modalità femminile. Questo esempio per comprendere che, l’immaginario collettivo dell’uomo contemporaneo, spesso non aiuta a raggiungere un livello di coscienza più alto. Consapevoli di questo è bene filtrare ciò che arriva ai bambini, sottoforma di giochi ed immagini, cercando di evitare tutto ciò che spinge verso gli aspetti regressivi e aggressivi della personalità a dispetto di ciò che fa evolvere.
La convenzione di Istanbul, all’art. 14, prevede l’introduzione nelle scuole dell’educazione all’affettività per passare quindi dall’educazione sessuale a quella più complessa, ma più autentica ed evoluta, che riguarda la vita dei sentimenti. Solo se la sessualità è reintrodotta all’interno del sentimento può diventare autentica ed arricchire la relazione. Ma anche qui l’impronta maschilista si rende visibile, in quanto proprio nella visione maschilista la sessualità è sganciata dai sentimenti. Altrimenti non capiremmo il fenomeno culturale della prostituzione: la donna pagata ad uso e consumo del maschio. In famiglia è importante affrontare presto il tema della prevaricazione della forza maschile e cogliere le occasioni, che la vita quotidiana offre, per riflettere con i nostri figli su tematiche come violenza, giustizia, pazienza, diversità e rispetto.

BY: Irene Barbruni

Le paure che condizionano la vita
Condividi Su:

La paura è un’emozione primaria che si manifesta con un senso di insicurezza e di smarrimento. Essa può essere una risposta sia ad un pericolo reale che immaginario ed assume diversa intensità a seconda delle situazioni.

La paura, sotto forma di ansia, è uno stato che tutti noi abbiamo sperimentato e che spesso viene percepita come “negativa”, in quanto viverla comporta vissuti spiacevoli. In realtà, se pensiamo banalmente alla paura che ci fa scappare da un pericolo, essa ha una funzione molto vicino alla preservazione della vita. Ciò che più spesso proviamo è un’ansia legata a qualcosa che non è visibile ai nostri occhi e alla nostra coscienza.

Paure ed ansie, che tutti noi abbiamo provato e proviamo, che condizionano la nostra vita: sia quando diventano “motore” verso la nostra evoluzione, sia quando al contrario si trasformano in un freno. Per fare un esempio banale, la paura di essere bocciato permette ad uno studente di prepararsi per un esame. La stessa paura, però, in altro individuo può tradursi in un motivo per rinunciare ad un progetto di studio, anche in modo non consapevole, ossia dicendo a se stessi “tanto in fondo non serve a nulla”. Questo esempio ci introduce verso ciò che oggi si osserva in tanti individui: la paura del futuro che porta molti soggetti a rimanere implosi nel presente.

Quindi, paure che condizionano la vita, ossia che non permettono all’individuo di evolvere verso la realizzazione piena di se stesso. Ciò che permette di trasformare l’ansia in un motore di crescita è l’idealità (cioè riferirsi ad un ideale di vita) nella quale si trova il motivo forte che ci aiuta a contenere le paure per superare le sfide del domani. La reazione di fuga porta invece all’implosione nel presente.

Come si affrontano tali paure? Il sintomo (la paura) non va tolto perché, come si è detto, in esso spesso c’è la chiave per una svolta della vita, ma si deve recuperarne il senso. Ossia recuperare il senso del nostro agire, che vuole dire recuperare l’idealità; il progetto che ci aiuta a reggere il peso del senso di smarrimento che accompagna molti periodi della vita, che coincidono spesso con momenti fondamentali per la piena realizzazione di sé.

Non dobbiamo quindi fermarci ad analizzare il motivo della paura, dobbiamo procedere a cercare il motivo della nostra azione/intenzione; solo così troviamo in noi stessi la forza che la paura sembra dirci mancante. Trovare in noi la forza è proprio il contrario di ciò che molto spesso molte gente fa: cercare in una sostanza chimica la medicina per anestetizzare la paura. Il ritorno alla realtà interiore, analizzando i motivi profondi di una scelta, ci fornisce gli strumenti psicologici ed esistenziali per traversare la zona d’ombra posta davanti al nostro divenire.

BY: Renato Barbruni

Taoismo
Condividi Su:

Da “I CHING – Il Libro dei mutamenti”
Esagramma. 25. Wu Wang – L’innocenza

Sopra il creativo, il cielo
Sotto l’eccitante, il tuono

La sentenza:
L’innocenza. Sublime riuscita.
Propizia è perseveranza.
Se qualcuno non è retto ha disgrazia,
e non è propizio imprendere qualche cosa.

Il recupero della propria integrità interiore prima della grande impresa: tema di molte favole, leggende, e preambolo a grandi gesta.

L’immagine:
Sotto il cielo passa il tuono:
tutte le cose acquistano lo stato naturale dell’innocenza.
Così gli antichi re curavano e nutrivano,
ricchi di virtù e in armonia con il tempo, tutti gli esseri.

• La ricerca della propria armonia interiore;
• armonizzare cioè la nostra vita esteriore con la vita interiore;
• l’autenticità perduta;
• la sintonia tra le varie parti che compongono la nostra personalità.

Una delle immagine e delle nozioni più belle che l’uomo, nella sua storia, abbia intuito ed elaborato. Il tema dell’innocenza è fondamentale per tante culture. Nel taoismo l’innocenza è definita come armonia, sintonia tra l’individuo nella sua trame esistenziale e la natura che gli scorre nell’anima. Rappresenta il congiungimento con la parte più profonda ed autentiche dell’anima. E’ il rinnovamento della connessione con le forze spirituali e cosmiche.
Già nella cultura occidentale, nell’ebraismo troviamo una nozione simile, in quanto l’innocenza, nel vecchio testamento, rappresenta la condizione che precede il peccato, il momento in cui l’uomo si è allontanato da Dio eludendo la Sua raccomandazione di non mangiare dall’albero del bene e del male. L’acquisizione da parte dell’uomo della consapevolezza della presenza di un “bene e di un male”, che lo fa uscire dell’Eden ( dall’innocenza e dalla purezza), produce la nascita della coscienza duale, la coscienza che ancora oggi noi usiamo per sperimentare ed interpretare la nostra esistenza. Lo scontro e il conflitto con le forze che noi pensiamo come bene e male ci colloca dentro una visione del mondo matura perché scevra dell’illusione primordiale di una realtà assolutamente buona. Se però, questo dato di conoscenza ci percuote staccandoci dall’innocenza primordiale, esso arriva a lacerare la nostra anima aprendoci alla sofferenza dell’esistere, e proiettandoci in uno sfondo ove la possibilità della disperazione e quindi della morte spirituale, ci palesa sempre immagini devastanti che ci spingono a perdere la fede nella nostra esistenza: siamo quindi corrotti nel nostro intimo, nell’anima, nella radice del nostro essere, là dove trae linfa vitale la nostra esistenza.
La visione giudaica quindi, sviluppa una trama altamente drammatica che sfiora sempre la tragedia, cioè la totale disfatta dell’essere umano. Il peccato sarà superato, quindi sarà possibile ricuperare l’Innocenza perduta, attraverso il calvario della sofferenza, che si instaura attraverso il sacrificio estremo. Il sangue versato come un unguento miracoloso ricucirà la ferita nell’anima. E’ questo il senso del sangue di Cristo versato in remissione dei peccati.
La visione Taoista penetra la realtà al di là della coscienza duale e scorge il substrato che sostanzia l’essere. Non c’è peccato né colpa, l’innocenza è perduta a causa dell’illusoria visione dicotomica della coscienza, una visione che scaturisce dalla necessità ingenua di dare un ordine riconoscibile al mondo. Ciò che la coscienza percepisce dell’essere, la natura Ying e Yang come due forze in antitesi, è tale proprio per la struttura della coscienza che non riesce ad andare al di là di una conoscenza duale, antitetica. L’ordine che la coscienza stabilizza, e che erroneamente crede di vedere come realtà oggettiva, altro da sé, in effetti è una metafora della propria struttura e della propria natura. In effetti dato che la coscienza come tale nasce da un momento di distacco dall’oggetto essa porta dentro di sé tale momento che permea la sua sostanza. Quello che è dunque visto come dicotomia della realtà di cui ha coscienza, altro non è che l’eco della scissione da cui ha avuto origine la coscienza stessa.
Da questa diversa visione è estraneo il senso del dramma, poiché la scissione tra la coscienza e l’essere nella sua totalità non è avvenuto per una infrazione, ma per una fisiologica necessità conoscitiva.
L’innocenza quindi non è perduta, ma sospesa. Per ripristinarla è necessario innanzitutto conoscere il modo di conoscere, analizzare quindi la modalità del processo di conoscenza, ciò ci permetterà di uscire dalla dicotomia che ci traversa. Solo così è possibile ritrovare il nesso tra l’uomo e il tutto. Il Tao significa propria questo: trovare il senso giusto, quel senso che ci riconnette con la totalità dell’essere. L’innocenza è quindi la ricomposizione tra la trama della vita singolare e la trama dell’esistenza totale. Per fare un esempio possiamo citare quello che fa il contadino che seminana nella giusta stagione, egli sa quale è il momento in cui porre il seme, in quella particolare stagione egli connette il seme con le forze cosmiche che aiuteranno il piccolo seme nel suo divenire. Questa è la sapienza del Tao, capire quella connessione. Se il contadino seminasse in una stagione diversa il seme non crescerebbe. Per fare un altro esempio si può citare la prassi di vita di tanti giovani che sono spinti dalla cultura dominante a fare esperienza sessuali e emotive fuori tempo causando molti problemi di equilibrio psicoemotivo: essi hanno così perso l’innocenza, nel senso che fanno qualcosa che non è in sintonia col loro mondo vero, con la loro necessità autentica, sono diacronici con la loro anima. Ma non hanno perso l’innocenza in quanto hanno infranto una legge che impedisce loro di vivere la sessualità, piuttosto hanno infranto l’armonia tra la loro anima e la prassi del loro esistere (nel senso che a quel punto della loro vita non vi è la necessità evolutiva della sessualità), in ciò sta la perdita dell’innocenza. Ecco in questo passaggio è definita la differenza tra la visione giudaica dell’innocenza connessa al peccato e la visione taoista. La prima è più normativa la secondo più ontologica legata alle conseguenza sul piano profondo.

BY: Renato Barbruni

Buddhismo
Condividi Su:

Il Karma in una prospettiva psicoanalitica

Da “La storia di Muktika, figlia del re di Simhala, e il ritratto del Buddha”, riporto un breve passaggio

Il Beato rispose: “Le azioni compiute e accumulate da Maktika, o monaci, i requisiti da lei ottenuti, le condizioni da lei maturate, riguardano le azioni compiute e accumulate solo da Maktika e da nessun altro e continueranno ad esistere, inevitabilmente, come il flusso di un torrente. Quale altre persona, al di fuori di Maktika, potrà mai averne esperienza? O monaci, le azioni fatte e accumulate non mutarono al di fuori di noi, nella terra, nell’acqua, nel fuoco o nel vento, ma esse, pure o impure che siano, maturano negli aggregati, negli elementi e nelle basi appropriate.
Gli atti non svaniscono mai, neanche in centinaia di eoni cosmici: quando raggiungono la giusta combinazione delle condizioni e il momento favorevole, essi sicuramente fruttificano per le creature.”

In questa spiegazione degli effetti del karma (azione) vi è l’invito a riflettere sull’importanza di compiere azioni meritorie. Il brano vuol dire che ogni azione che noi compiamo non è mai finita nell’istante in cui si esaurisce, ma ha una sua coda, lascia una scia nel tempo. Essa è come un seme gettato nella terra. Occorrerà del tempo, anche molto tempo, ma è certo che quando le condizioni saranno favorevoli, quell’azione addormentata, si risveglierà provocando i suoi effetti su di noi. Questa dinamica risulta più comprensibile se la collochiamo all’interno della visione orientale della reincarnazione. In tal senso le azioni che compiamo in questa vita trovano la loro attuazione ( il loro effetto) anche nella successiva vita tenendoci legati al ciclo delle esistenze: un ciclo che perdurerà fino a quando non avremmo pagato il nostro debito karmico, cioè fino a che non avremmo sciolto quelle strutture della nostra personalità che fomentano le azioni che ci imprigionano. Questa spiegazione del karma si sposa molto bene con la teoria junghiana degli archetipi e dell’ombra.
Il pensieri junghiano sviluppa la visione secondo la quale la psiche è organizzati in archetipi. Ciò vuol dire che la psiche, che è energia, non è data in noi senza forma, in modo informale, essa, non solo ha una sua forma (cangiante nel tempo) ma è una organizzazione di unità informatiche. Ciò vuol dire che l’energia psichica si dà in diverse forme le quali la strutturano: gli archetipi, i quali sono organizzati tra loro in modo funzionale e dialettico.

Semplificando possiamo dire che nell’organizzazione della psiche in archetipi, si riconosce la presenza di numerose forme archetipiche. Tra esse, per ragioni espositive, ne elenchiamo otto:

l’archetipi dell’orfano, l’archetipo del viandante, l’archetipo del guerriero, l’archetipo del mago, l’archetipo della vittima, l’archetipo dell’innocente, l’archetipo del padre e l’archetipo della madre.

Essendo gli archetipi aggregati di emotività, sentimento, pensieri, aneliti, essi contribuiscono a fornire al nostro pensare un determinato sentire e una determinata visione del mondo.
Quando una persona è sotto l’influenza di un archetipo vede e sperimenta il mondo così come quell’archetipo gli detta o suggerisce. Dato che l’archetipo è come una atmosfera, una colorazione entra la quale passano le nostre esperienze quotidiane, esso è in grado di modificare la percezione, il modo di sentire e vedere il mondo.

Non sperimenteremmo nulla al di fuori degli archetipi. Nella filosofia kantiana questa nozione è paragonabile agli a priore della ragion pura. I nostri sentimenti sono colorati dalla trama di certi archetipi, cioè di queste strutture a priore entro le quali formiamo, diamo forma per dare significato, alla gran massa di esperienza che viviamo. E’ come se noi fossimo dentro una bolla attraverso la quale vediamo e sperimentiamo il mondo. Una madre vede il proprio figlio e quindi vive i sentimenti verso di lui, all’interno dell’archetipo (bolla) della madre; mentre il padre vive i propri sentimenti all’interno dell’archetipo del padre. Da cui si possono osservare modi di vivere i sentimenti diversi. Certo che tutto non è così ordinato, nel senso che alle volte l’archetipo della madre è più presente nel padre che non nella madre. Abbiamo allora una certo inversione dei ruoli. Ma le cose sono ancora più complicate in quante gli archetipi non sono puri, ma subiscono una certa contaminazione da parte di altri archetipi. Per esempio se l’archetipo della madre, con i sentimenti ad esso connessi, viene contagiato dall’archetipo della vittima, cosa può verificarsi? Il risultato sarà una madre che tende a sacrificarsi, a pensare che il figlio le impone sacrifici, elle tenderà a sentirsi appunto vittima della sua condizione, e questo non le permette di vivere liberamente la sua esperienza di madre.

Nel percorso analitico junghiano si concedo molta importanza all’analisi della forme archetipiche che impediscono al soggetto un’autentica visione del mondo. L’origine e il motivo della sofferenza, infatti, è proprio derivato dalla presenza di archetipi che svolgono un ruolo disturbante rispetto alle esigenze evolutive del soggetto. Questa impostazione è paragonabile alla visione buddhista dell’importanza di superare certe strutture karmiche che imprigionano il soggetto e non gli consentono di evolvere verso la liberazione.

Il Karma

tratto dal libro “Logos e Pathos” di Renato Barbruni, Ed. Nuovi Autori

Definizione di Karma: leggiamo dal Dizionario Buddhista di Christmas Humphreys ed. Ubaldini:
” …La radice (di karma) significa azione da cui deriva il significato di “azione e risultato appropriato dell’azione”. (…)
Il karma non è limitato dal tempo e dallo spazio, e non è strettamente individuale; vi è un karma del gruppo, della famiglia, della nazione, ecc.

La dottrina della rinascita è un corollario necessario di quella del karma: è l’entrata nella vita fisica individuale con un carattere e un ambiente che derivano dalle proprie azioni nel passato.
Il carattere, la famiglia, le circostanza e il destino personali sono quindi manifestazioni del proprio karma, e in base alla reazione al proprio “destino” attuale si modifica e si costruisce il proprio futuro.

Non è il karma in se a legarci alla ruota della rinascita: l’elemento che ci lega è il frutto personale dell’azione.
La liberazione è quindi ottenuta attraverso l’eliminazione del desiderio egoista.”

La materia è la struttura karmica forse più resistente: la realtà tutta è struttura karmica. In tale prospettiva il mondo, così come ci si presenta, può essere superato sciogliendolo attraverso la meditazione e la rinuncia alle brame egoiche. Se nell’ebraismo, e in parte nel cristianesimo, la sofferenza è inerente alla salvezza, nel senso che attraverso il soffrire (quale modalità per la purificazione) si giunge alla salvezza dell’anima, nel buddismo la sofferenza è residuale, si configura come la sperimentazione soggettiva della struttura karmica. L’esistenza è sofferenza (la prima delle quattro nobile Verità) in quanto la sua struttura (dell’esistenza) è intrisa di quel sentimento di attaccamento che scatena la sofferenza quale reazione di fronte alla spinta evolutiva (liberante) dello spirito. Quindi il cammino verso la salvezza passa attraverso il soffrire come via obbligata, in quanto è la struttura karmica la realtà causa della sofferenza, e perciò è proprio essa, la struttura karmica, che noi possiamo e dobbiamo superare.

Questa prospettiva, che utilizza la nozione di karma per interpretare la sofferenza e l’esistenza (il porre in essere) della realtà fenomenica, ci porta ad alcune implicazioni quando la caliamo sul tema dell’amore tra due persone. In esso, nell’esperienza di Amore, possiamo ben ritrovare la necessità del superamento della struttura karmica e archetipica della personalità, quale presupposto indispensabile affinché Amore realizzi la sua peculiare finalità: l’incontro perfetto di due anime. Un superamento necessario in quanto la presenza di substrati karmici e archetipici impediscono all’amore di fluire liberamente tra i due amorosi. In questo senso troviamo in Giovanni:
“…Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore…”
1Giovanni 4,18

O ancora in San Paolo:
“Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.” 1 Corinzi 13,12.

I due pensieri implicano il superamento della forma archetipica (l’archetipo del castigo in questo caso) che da un lato suscita il timore, e dall’altro media la conoscenza e quindi crea frattura tra l’uno e l’altro (l’archetipo della scissione-separazione tra uomo e Dio). I due archetipi sono mantenuti nell’anima dell’uomo attraverso le dinamiche karmiche. Il superamento dei due archetipi, e quindi della loro influenza nell’anima, è affidato, nel Cristianesimo, alla prassi della carità e della preghiera; nel Buddismo alla meditazione e alla pratica della compassione e alla meditazione sulla vacuità

CARITA’ E COMPASSIONE; PREGHIERA E VACUITA’

Carità e compassione

Le nozioni di Carità e di Compassione sono legate a diverse implicazioni psicologiche ed esistenziali. La Carità, quale modo di relazionarsi al prossimo, presuppone l’atto della donazione verso l’altro, mentre la Compassione sembra porre l’accento sul sentimento di condivisione della sofferenza altrui. Anche la carità implica un sentimento di condivisione verso l’altro, ma la compassione in questo caso è un sentimento che subito viene estrovertito, condotto là di fuori, per operare nella realtà esterna; mentre la Compassione buddista, che comunque implica un agire sulla realtà in soccorso verso l’altro, è più orientata alla contemplazione ed all’affinamento del sentimento come fatto interiore, che quindi, come tale, può non essere seguito dall’azione, se questa va a confermare la dipendenza dalle modalità in cui ci si è identificati (il Salvatore che dipende dall’essere salvatore). In questa cornice etica va ricordato che il fine è quello di liberarsi dalla struttura karmica ed archetipica quindi è fondamentale l’analisi dei propri sentimenti anziché agirli immediatamente.
Nella prospettiva cristiana invece, la cornice etica è accentuata sull’azione verso il prossimo, in quanto l’esperienza centrale è quella del sacrificio; in effetti il vero dono è proprio il sacrificio che compie il fedele. Nella visione cristiana ritroviamo le radici della nozione giudaica del sacrificio, cosa che è meno presente nel buddismo, dove il sacrificio è sostituito dall’atto di superamento della struttura karmica. Ma a questo punto dobbiamo fare una ulteriore riflessione sulle implicazioni delle nozione di karma e di peccato.

Il karma: struttura che imprigiona l’anima.

Nella psicoanalisi junghiana usiamo un temine speciale per indicare il grumo di vissuti, sentimenti e idee che si pongono come antitesi alle prospettive coscienti del soggetto. Tale temine è Ombra. Con Ombra si vuole proprio indicare e nominare l’innominabile custodito nella psiche inconscia. Tale concetto è sviluppato da Jung sulla nozione più vasta di karma – e di peccato. Se il karma è l’irrisolto di una o più vite precedenti che alberga nelle profondità della psiche, è proprio questo il grumo ombroso che si intromette in senso antitetico allo sviluppo della personalità, e infine alla liberazione dell’anima. Questo grumo ombroso trasudante esperienze cristallizzate si presenta attraverso punte di sofferenza e slanci di illusione che ci conducono a interpretare una vita inautentica in quanto paradossale rispetto alle nostre vere e più essenziale esigenze. In tale corpo nascosto dentro le profondità della psiche, non solo trova sede l’irrisolto delle vite precedenti, ma alberga anche l’insieme degli aneliti che non sono stati adeguatamente adempiuto nelle vite precedenti, e che ora, nell’attualità dell’esistenza, trabordano la forma per spingere l’esistere oltre i propri confini, e realizzare un campo di esistenza finalmente più idoneo alle esigenza evolutive dello Spirito. La corretta comprensione di questi elementi profondi sviluppa le coordinate di orientamento della vita del soggetto che ritrova la capacità di adempimento del mistero di se stesso. Così la dialettica tra il qui e ore, il presente, e il passato impregnato di aneliti, va ha costituire il lessico profondo dell’anima con la propria esigenza trasformativa.

Il peccato: condizione che corrompe l’anima.

La dialettica profonda presuppone una capacità di distacco dall’immediatezza della vita tale da vedere contemporaneamente le diverse dimensioni dell’essere, ma tale capacità è impedita dall’azione del peccato, vale a dire dall’azione dell’archetipo della scissione che riproduce istantaneamente alla coscienza la visione della dicotomia dell’essere. Una visione non più percepita come “visione” – interpretazione soggettiva – ma come realtà oggettiva altra dall’osservatore (questo è il risultato più essenziale del peccato – archetipo della scissione- ). Questo automatismo presente nella coscienza perpetua la frattura tra l’uomo e Dio, tra l’idea di essere e l’essere, tra il pensiero e la vita (Taoismo, buddismo zen), gettando il soggetto nella disperata inautenticità del proprio esistere (il concetto di angoscia di Kierkegaard, dinamica tra l’ente e l’essere di Heidegger).

Preghiera e vacuità

La speranza, la trama e la prassi della salvezza, della liberazione dalla ciclicità tragica di una tale dinamica diabolica (dal greco diaballo cioè colui che separa), è ritrovata nell’intuizione straordinaria della preghiera e della meditazione. La preghiera quale atto interiore di fuoriuscita dalla prigione della razionalità, del gioco del pensiero cosciente – della coscienza che si identifica nel pensiero che poi è più il pensato piuttosto che il pensante – porta il soggetto al contatto e quindi all’esperienza di Anima, – che vive sospesa tra le cose, non è mai nelle cose-, sviluppando la possibilità di essere senza doversi fermare all’esserci. Il canto d’amore verso Dio, è tanto più autentico tanto più il soggetto non ha necessità di vedere attraverso il suo pensiero l’immagine di Dio, egli si affida al vero amore che “..tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (San Paolo 1Corinzi 13,7) E’ un Dio più vicino all’esperienza incommensurabile per il pensiero della coscienza del Tutto nel molteplice e del molteplice nell’Uno (Plotino), è l’approdo al nirvana. E’ qui che incontriamo la meditazione buddista sulla vacuità di tutte le cose -gli aggregati- sia esse materiali che immateriali. Un meditare che scivola oltre il pensiero discorsivo per ritrovare l’esperienza di Essere piuttosto che il pensiero come coscienza di essere.

Il pensiero che ci inganna

Dai discorsi del Buddha
…il Beato pronunciò i seguente versi ispirati:
“Ciò che un nemico può fare ad un nemico,
o chi odia a uno che odia,
è poca cosa rispetto al danno che può arrecare
la mente male orientata.”

Il vero pericolo si annida dentro di noi, proprio lì nello strumento che ci consente di vedere e percepire e pensare il mondo. Quel fidato servo della nostra vita, il Pensiero, è, nostro malgrado il più sottile e perfido nemico, che ci tende tranelli ogni istante. Ciò può essere lette in molti sensi. Il pensiero che coincide con l’Io, cioè con la coscienza che una persona ha di se stessa. Quella coscienza di sé può diventare la prigione dello spirito, che imbrigliato in quelle trame non riesce più a pensarsi diversamente e finisce per morire al proprio sogno.

Inoltre quando l’uomo si affida unicamente al pensare inteso come logica, razionalità, nel senso che ciò che esiste è solo quello che comprendo con la logica, egli si condanna all’oscuramento delle sue possibilità conoscitive.

Il pensiero discorsivo quindi è uno strumento utile ma potrebbe diventare l’opposto se l’uomo rinuncia alla altre sue innumerevoli facoltà. Nel percorso buddista l’analisi dei propri pensieri alla ricerca di ciò che li fonda, è essenziale. La finalità di questo lavoro introspettivo è di prendere coscienza che tutti i nostri pensieri derivano da altri pensieri, e che alla base della nostra vita cosciente, e alla gerarchia di valori che la orienta, sta la relazione tra le cose. Se l’uomo scopre che ogni cosa non ha una suo valore oggettivo e intrinseco, si libererà dalla sua dipendenza dalla cose del suo mondo, e approderà alla verità che le cose sono vuote in se stesse. La scoperta del vuoto o vacuità, non è però sufficiente per liberare l’uomo, poiché questa scoperta potrebbe gettarlo nel nichilismo. Se il considerare che le cose hanno un valore intrinseco porta l’uomo a implodere nel mondo, il considerare al contrario che le cose sono vuoto, può condurlo a rinunciare talmente al mondo da portarlo all’esperienza del nichilismo. Le cose sono vuote se sono percepite staccate dal contesto in cui si trovano, ed è questo fattore di relazione che le salva ai nostri occhi pur ridimensionandole alla luce della loro relatività. Per cose si intende anche situazioni esistenziali, che spesso, nella nostra vita, enfatizziamo sia in senso positivo che in senso negativo. Quindi essere in grado di commisurarle, relativizzarle, ci permette di non drammatizzare situazioni particolari che altrimenti ci porterebbero un tale scompenso da soffocare il nostro slancio vitale.

BY: Renato Barbruni

Cristianesimo
Condividi Su:

Dio mio perché mi hai abbandonato?
Salmi 21,2; Matteo 27,46; Isaia 49,14

tratto dal libro “Logos e Pathos” di Renato Barbruni, Ed. Nuovi Autori

Invocazione drammatica, che scuote l’anima fino alle sue radice, o meglio da quelle radici proviene e si diffonde. Quando la vita scorre linearmente dentro l’esistere di ogni singolo uomo, essa restituisce quel senso del compiuto, quel “questo è bene”, che da sé promuove i tratti dell’esistere e li fa assurgere a realtà vera. Da cui il senso pienamente percepito senza ulteriori artifizi, senza necessità di porre domande sulla nature di ciò che viviamo. In tali momenti sentiamo la presenza di Dio, sentiamo di essere con Esso all’unisono, di essere noi stessi docili al suo incommensurabile Volere; il suo volere è tutt’uno con il nostro volere, senza fratture, senza distanze, come una profonda comunione che è consustanzialità; quella consustanzialità che precedette il peccato, la frattura spazio-temporale tra l’uomo e Dio.

Ma quando la vita smette di essere percepita come senso, allora ci pervade e ci avvolge un silenzio inaudito, un vuoto soverchiante, là dove la vita non ci appare che il simulacro di istinti e percezioni vane e sterili. Ci sembra un abbandono da parte di Dio, da parte di Colui che solo ha il privilegio di fornire senso all’esistere. Allora ci sembra di percepire quel vuoto come silenzio di Dio, come se quel silenzio testimoniasse, gridasse non solo del suo mutismo ma della sua orribile inesistenza.

Nella nostra vita molte volte abbiamo sperimentato un tale vissuto dell’Anima. Di fronte ad un certo dolore che abbiamo incontrato nel corso della nostra vita, così forte e inspiegabile che ci ha trascinato nella disperazione, ci siamo sentiti soli, e abbandonati dal volere di Dio, abbiamo così dato corpo, attraverso l’inalienabile sofferenza, al discorrere del pensiero che deduce ma non intuisce il senso delle cose, e abbiamo scambiato il nostro dolore come assenza di valore; un valore che così annientato ha permesso alla nostra ombra distruttiva di dettare le parole più inutili e devastanti che conosciamo: “Il senso non c’è”. Quando in un’ultima eco di una fede sottile come la lama di un rasoio abbiamo gridata a pieni polmoni, con voce roca, quasi spenta dalla disperazione: “Dio mio perché mi hai abbandonato”, è lì che abbiamo ritrovato il miracolo: in quell’invocazione c’è chi invoca e c’è chi è invocato, e subito un senso di ritrovata alleanza sprigiona un profumo di speranza che balena repentino nel respiro dell’Anima.

Il corpo materiale, il corpo esistenziale e il corpo spirituale

“…Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo tratto dalla terra è terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l’uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale ilo celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste. Questo vi dico, o fratelli: la carene e il sangue non possono ereditare il Regno di Dio, ne ciò che è corruttibile può ereditare l’incorruttibilità.
Ecco io vi annuncio un mistero: noi tutti certo moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. E’ necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità….”
San Paolo, 1 Corinti 15, 44-53

Questo bellissimo passo di San Paolo si presta a diverse letture su diversi piani, ma rimane comunque una utile ed efficace rappresentazione della nozione della “salvezza” dalla morte, sia essa intesa sul piano spirituale o, più immediatamente, intesa sul piano esistenziale. Lo Psicoanalista si occupa della drammatica situazione della possibilità di morte esistenziale; il Teologo si occupa prevalentemente della possibilità di morte spirituale.. La differenza tra le due morti è relativa al corpo cui essa si riferisce. Nella morte spirituale è un evento escatologica che comprende la realtà ontologica dell’uomo, la realtà del suo “essere” più profondo ed assoluto; la morte esistenziale colpisce la realtà immanente e quindi fattuale dell’uomo, l’attualità dell’essere (la forma mandana percettibile come atto fenomenico dell’essere) nel suo lungo divenire. La forma mondana è composta dagli aggregati affettivi, sociali e ideale che ne sorreggono e ne sostanziano la presenza e la dinamica nel mondo. Sono, in altre parole, le varie identità attraverso cui si sviluppa la fenomenologia dell’esistenza di un soggetto. In ciò rileviamo tre fondamentali identità: l’identità affettiva, l’identità sociale e l’identità esistenziale.
Più complessivamente possiamo pensare l’uomo composta da tre diversi corpi:
il corpo materiale sede e luogo della vita biologica con la sue proprie dinamiche: la dinamica biochimica, la dinamica pulsionale, la percezione, la sua coscienza e l’autocoscienza;
il corpo esistenziale sede e luogo delle dinamiche esistenziali quali la coscienza riflessiva, la coscienza relazionale e la coscienza degli aneliti;
il corpo spirituale è luogo e sede delle realtà superiori che trascendono la realtà immanente e fattuale dell’essere, quali il senso del divenire ultimo, le sostanze divine nella loro incommensurabile realtà.
Spesso le persone fanno confusione sue tre piani, non sempre riescono a distinguere a quale piano di esistenza vada inscritto un loro vissuto o un certo accadimento della loro vita. Infatti alle volte si pensa che certi fatti interni alla persona appartengono al piano esistenziale, mentre essi trovano la loro origine e il loro esaurimento solo sul piano della corporeità; così anche per quanto riguarda il piano teologico: si pensa alle volte di argomentare e di provare sentimenti sul piano teologico mentre ci si trova ancora su un livello esistenziale. Lo psicoanalista deve aiutare a far chiarezza su tale situazione; è quindi importante una preparazione teologica che non significa un scelta confessionale (l’appartenenza ad un credo religiosa) ma che gli renda possibile un adeguato orientamento tra le realtà che compongono i vari aneliti dell’uomo.
Il corpo spirituale è assolutamente invisibile alla coscienza, per cui è necessario che si rifletta nel corpo esistenziale e nel corpo materiale. In altre parole noi non percepiamo direttamente lo spirito ma solo quando questo illumina il corpo materiale e quello esistenziale. L’anima, o corpo spirituale, è come la luce. Noi non siamo in grado di percepire direttamente la luce, ma solo quando essa è riflessa da un oggetto: l’errore sarebbe di pensare che l’oggetto sia la fonte della luce non solo il luogo di riflessione; l’anima è più facilmente percepita dalla coscienza solo quando si riflette sul corpo esistenziale, vale a dire sulle varie identità che costellano la nostra esistenza. Tali identità non sono, perciò, la fonte della nostra vita, ma in essa la nostra vita spirituale si riflette, si manifesta; alle volte il dolore per la morte di una o più identità è soverchiante e mortificante, tanto da spingerci verso un’esperienza di annullamento che viene percepita quale morte del corpo spirituale; è questa erronea cognizione che dobbiamo superare se vegliamo essere in grado di reggere l’esperienza della morte affinché si possa risorgere a vita nuova e superiore.
Nel corso della nostra vita moriamo tante volte, e tante volte risorgiamo, senza che ce ne rendiamo conto.

AMA IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO

Il come su cui dobbiamo riflettere riguarda la qualità dell’amore più che la quantità. Si può amare in tanti modi quante sono le necessità a cui l’amore tende a dare risposta. Se si ama se stessi nel modo giusto si ama il prossimo nel modo giusto; ma se non si è capaci di amare se stessi nel modo giusto è assai difficile riuscire ad amare veramente nel modo giusta l’altro. Non è poi così facile saper amare. Spesso confondiamo le esperienza emotive con l’amore; altre volte confondiamo stati di dipendenza psicologica come amore. Ma l’amore non ha a che vedere né con le emozione, né con gli stati di dipendenza psicologica. Anzi quasi sempre una forte dipendenza psicologica trasforma la relazione in una trappole, per l’uno e per l’altro, tanto forte da far sognare e desiderare ad entrambi di fuggire da essa. Certo quello che più forte vive la dipendenza avrà più difficoltà a pensare che sarebbe meglio per lui andare via da lì. Quel andare via da lì come vera necessità si riferisce al fatto che una relazione quando è ferma alla dipendenza non svolge alcun ruolo di agente evolutivo della persona, e per tale motivo è nociva alla persona in quanto tale. Tutto questo ragionamento si fonda sull’assunto che il valore primo da perseguire sia l’evoluzione della persona, l’evoluzione della sua anima. Il vero amore è l’occasione e il luogo dove tale evoluzione si realizza con più efficacia. A tale proposito Teilhard De Chardin dice: “L’amore non solo non spersonalizza (mentre lo stato di dipendenza lo fa), ma iper-personalizza”.

Quindi saper amare significa trovare la necessità dell’anima dell’altro e rispondere a tale profonda necessità: una necessità che tanto più è essenziale tanto più è vicina al centro della vita spirituale. Ma se una persona non sa trovare in se stessa la necessità essenziale della sua vita spirituale, non saprà riconoscerla neppure per l’altro, poiché egli è tanto distante da se stesso da non sentire più la voce interiore del suo profondo significato. E’ importante quindi la riflessione introspettiva per comprendere a pieno le proprie e le altrui necessità profonde, le necessità dell’anima. Ecco perché il dialogo nella coppia è importante, ma un dialogo che sia confessione delle proprie dinamiche interiori; che esprima la capacità di uscire dalla proprie chiusure, e quindi fuori dalle istanze puramente egoiche, quelle istanze che si riferiscono ai bisogni prettamente piscologici. La riflessione va quindi spinta verso le tematiche spirituale della Persona, poiché l’amore è la dimensione sacra per eccellenza. E’ questo che oggi molte donne chiedono ai loro uomini, ma questi spesso sono travolti dalla loro ignoranza e non curanza di fronte alla sfera dei propri sentimenti più profondi.

QOÈLET: UN UOMO STANCO CHE CERCA AMARAMENTE IL SENSO DELLA VITA

“Vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno. Per cui fatica sotto il sole?”

Così inizia la lunga riflessione di Qoèlet sulla vita che ha vissuto. La sua, da principio, è una riflessione amara, quasi disperata. Il senso della vita sembra lontano, una pia illusione. Tutto ciò che lo ha animato nelle epoche giovanili, la passione per le donne, le aspirazioni sociali, la ricerca della gloria, ora, davanti alla morte, ormai imminente, sembrano non contare più. Tuttavia, mano a mano che il ragionar del cuore prosegue, lentamente la saggezza prendo il posto dell’amarezza. Il testo è attribuito a Re Salomone, così per lo meno si legge nell’intestazione, ma sembra più probabile che sia stato scritto tra il II e III secondo avanti Cristo come ci dicono gli studiosi della Bibbia.
Lo scritto è intriso di tristezza, di una malinconia rassegnata, poiché ciò che fa parte del ricordo non è più posto come valore per la vita. Il mondo appare spietato, ingiusto e povero di afflato significativo, e l’esultanza dell’uomo appare come un movimento verso il nulla. Sotto il profilo di un testo biblico non è di facile lettura, poiché se ne seguiamo la logica, le parole e gli argomenti, ciò ci porta ad allontanarci da Dio, o comunque a non amare Dio. Una divinità lontana dall’uomo che sembra aver abbandonato l’umanità al proprio destino. “Vi è una sorte unica per tutti,/ per il giusto e l’empio,/ per l’impuro e l’impuro, […]” I forti, i violenti hanno la meglio, ma poi anche su di loro si abbatterà la catastrofe: non c’è scampo alla crudezze della realtà. La saggezza che se ne ricava è intrisa di rassegnazione, non certo di speranza. “E’ meglio la fine di una cosa che il suo inizio,/ è meglio la pazienza che la superbia. […]” L’amarezza verso l’uomo porta a considerare la sua pochezza e la sua stoltezza: “Dio ha fatto l’uomo retto,/ ma essi cercano tanti fallaci ragionamenti. […]”

Gli ultimi versetti ci ricordano che il destino è nella mani di Dio e che a lui, e soltanto a lui, dobbiamo affidarci, ma sembra più un argomento posticcio, messo lì per rientrare nella ortodossia di teste sacro nel solco della tradizione ebraica che vuole riferire comunque tutto a Dio, e che quindi non può essere discusso ciò che Egli ha deciso. Ma già nel libro di Giobbe vi erano i semi di una ribellione alla legge divina, legge quasi mai compresa dall’uomo. Tuttavia anche in quel testo la riflessione critica dell’uomo verso Dio è solo temporanea. La cosa interessante è constatare che l’argomento non è in fondo nuovo quando lo si incontra negli atteggiamenti dei nostri contemporanei che, godendo di maggior libertà di espressione, con più facilità si mettono contro Dio. La differenza sta nell’epilogo della discussione. Sia in Giobbe che nel Qoèlet l’amarezza sulla vita e le sue leggi cede il posto ad un sapienza che vuole essere da guida e di sostegno nei momenti dolorosi dell’esistenza. Ma più ancora questa forma più alta di sapere vuole preparare l’uomo a costruirsi intorno una vita che lo metta al riparo dalle false illusioni.
“Dio dei padri e Signore di misericordia,/ che tutto hai creato con la tua parola,/ che con la tua sapienza hai formato l’uomo,/ […] dammi la sapienza che siede in trono accanto a te/ e non escludere dal numero dei tuoi figli,/ […] Con te è la sapienza che conosce le tue opere,/ che era presente quando creavi il mondo;/ essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi/ e ciò che è conforme ai tuoi decreti. […]”
Questi frammenti della preghiera, attraverso la quale l’uomo chiede a Dio di conoscere l’intimo sapere delle cose, affinché egli possa adeguarvi il proprio comportamento, mette in evidenza la consapevolezza che solo aderendo a quell’intimo e profondo sapere l’uomo sarà veramente uomo.

Nel corso della riflessione la discussione vede sempre più al centro il tema della sapienza che viene isolato dal tema di Dio, quasi pronta (la sapienza) ad essere definita un persona distinta. Come lo sarà nel cristianesimo con lo Spirito Santo.
Dicevo che solo nel finale l’autore si piega alla volontà divina, mentre in tutto il testo Dio è messo più o meno velatamente in discussione. E’ uno scritto che necessita della presenza del Cristo affinché si intravveda la possibilità di superare la conflittualità tra l’uomo e Dio, una conflittualità molto presente nel mondo laico. (Non è sempre tenuto nella giusta considerazione questo tema sotto il profilo esistenziale, la psicologia è carente a tale riguardo). La rilevanza del testo sta nella sintesi, molte essenziale, circa la sensibilità disperata dell’uomo. E’ quindi un testo attualissimo in tempi nichilisti come il tempo attuale. Per questo piace molto al mondo laico. Un testo che tuttavia necessita di una lettura attenta, perché si presta troppo ad un’interpretazione atea e disperata sulla vita. Per altri versi è un testo che mette in evidenza il fatto che, in fondo, l’umanità non è cambiata nel corso del tempo, ripete gli stessi errori, e non è riuscita a trasformare il proprio cuore. L’autore esprime una lamentazione penosa sulla vita, egli constata ciò che chiunque vede quando guarda le cose del mondo. Tuttavia è un uomo che ha il coraggio di reggere il paradosso che sta alla base dell’esistenza: la morte è inevitabile, ma ancor più lo è la tenacia della continuità della vita.
Quindi è un testo che affascina anche l’uomo contemporaneo per la tentazione nichilista che lo pervade, ma che se letto con sincera obbiettività ci può dare spunti riflessivi che ci aiutino ad affrontare le difficoltà della vita quando questa è circondata da tutte le sue contraddizioni.

Side bar