BY: Irene Barbruni

Occuparsi di sé attraverso la scrittura
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La scrittura è come prima cosa un dialogo con noi stessi e per questo ha delle particolarità uniche nel suo genere. In modo particolare scrivere esclusivamente per se stessi come il classico diario, che spesso è stata ed è abitudine dell’adolescente, ha lo scopo di riordinare le proprie esperienze, idee, emozioni e sentimenti per aggiungere quel momento di riflessione indispensabile nel rapporto con se stessi e con il mondo. Il diario si scrive alla sera quando le emozioni vissute della giornata sono lontane e possono lasciare spazio alla riflessione sull’evento.

Oggi sempre più giovani scrivono su un Blog che diventa una sorta di diario pubblico. Non è però paragonabile alla scrittura di un diario privato, in quando si perde la possibilità di avere un momento di intimità con se stessi senza rapportarsi a qualcuno, con cui, invece, bisogna necessariamente essere in un certo modo e dal quale possiamo essere giudicati.

Oggi siamo più emotivi che non riflessivi e ciò ci rende meno capaci di affrontare le situazioni. Purtroppo la facilità e la velocità con cui possiamo comunicare ci rende più vicini all’emotività del momento più che ad una rielaborazione riflessiva di ciò che viviamo. Spesso lo scambio di conversazioni enfatizzano l’aspetto emotivo come l’utilizzo delle “faccine” che spinge verso una emotizzazione del dialogo. In una pagina di diario, che non verrà letta da nessuno, possiamo essere veramente sinceri, mentre sui social siamo portati a metterci in mostra poiché è presente il giudizio degli altri (che cerchiamo) e, quindi, non possiamo essere completamente noi stessi. É importante essere coscienti del mezzo che si usa senza farsi usare dallo strumento.

Il filosofo americano del pensiero libertario, H.D. Thoreau (1817-1862), sottolineava, nel suo libro Vita nei boschi, quanto gli uomini ormai fossero diventati appendici dei mezzi che usavano. E questo nell’Ottocento! Oggi è ancora più evidente che siano i mezzi a suggerire il loro utilizzo, non tanto la loro necessità.  Questi mezzi, più che essere mezzi di comunicazione, sono ormai mezzi di ostentazione di sé. Il loro costante impiego ci rende prevalentemente estrovertiti portandoci a perdere il contatto con il centro della nostra personalità. Quindi, è bene che ci si preoccupi di limitare la troppa esposizione agli altri, e ricercare invece dei momenti in cui possiamo contattare noi stessi. Ciò può essere la chiave per ritrovare l’intimità necessaria ad un sano equilibrio con se stessi e con il mondo. Proprio perché i mezzi cosiddetti di comunicazione ci allontanano dalla nostra intimità. Quello che osserviamo, come psicologi è proprio la diminuzione di intimità e l’aumento di emotività: l’emotività ci estroverte, mentre la ricerca dell’intimo ci introverte. Ecco che la scrittura, esercitata nella propria stanza davanti al foglio fianco, finalizzata ad una confessione introspettiva, ci sarà utile per riprendere un vero rapporto con la nostra vita interiore.

Nella società dei media l’ostentazione è il movente primo.  Affermare se stessi è il principio da cui scaturisce l’esigenza di primeggiare sugli altri e il mettersi in mostra. Ciò sviluppa la percezione di un “essere” che non è più “essere” ma “insistenza finita”, un essere già stato perché non in divenire, chiuso in sé; questo “essere già stato” motiva la coazione a ripetere i messaggi verso l’altro, da cui ci si aspetta la gratificazione. La gioia deriva da quanti contatti riesco a raggiungere. Ma quelle centinaia di contatti non sono veri contatti, ma solo la rappresentazione numerica del vuoto di autenticità e della banalità in cui è caduta la relazione.       

Mentre il rapporto autentico con se stessi, e con l’altro, proviene dall’accettazione di sé attraverso cui  scoprire il proprio vero io. E questa ricerca, che va condotta con tenacia e semplicità, è aiutata dai momenti di intimità con se stessi in cui la scrittura del proprio diario diviene un momento prezioso. 

BY: Irene Barbruni

La mente immaginale: l’importanza di un’ “ecologia” delle immagini.
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La nostra mente è immaginale ossia tutto viene tradotto in immagini, come ampliamente spiegano autori come Jung e Hillman. Una semplice dimostrazione di questa caratteristica della mente la possiamo trovare nel fatto che parole e pensieri riusciamo a comprenderli meglio nell’istante in cui li traduciamo in una immagine.  È stato anche osservato che i bambini con grave dislessia non hanno difficoltà a leggere se imparano una scrittura ideografica, come quella cinese. Gli studi di Jung, sulle immagini archetipiche, giungono a mostrare che le idee molto complesse sono più facilmente fruibili proprio quando sono rappresentate da immagini. In fondo gli archetipi, che costituiscono gli elementi base della mente, sono proprio immagini essenziali per il suo funzionamento. Attraverso gli archetipi noi comprendiamo e decodifichiamo la realtà visiva e concettuale che ci circonda. Platone chimava questo il mondo delle idee pure, mentre un altro grande filosofo, Kant, sosteneva la presenza nella mente di elementi concettuali/immaginali che chiamava gli a priopri i quali fungono da decodificatori della realtà.  Quindi la mente funziona per immagini ed è di conseguenza ricca di immagini, essa possiamo dire “si nutre di immagini”. Ed è quindi necessario vagliare quali immagini vanno ad interloquire con le quelle già esistenti nella nostra mente.

Oggi, più che in altre epoche, siamo raggiunti da molteplici immagini in modo quasi continuo, dalle quali la mente umana è particolarmente sensibile ed impressionabile, come si è detto. Questa caratteristica è sfruttata dagli autori degli spot pubblicitari che puntano molto su questo aspetto per condizionare e veicolare le scelte dei consumatori.

Le immagini provengono da due direzioni: dall’interno della psiche e dall’esterno (prevalentemente mass media); oggi le immagini esterne prevaricano quelle della psiche. L’immagine esterna interagisce con quella interna, ma se essa trova solo il riscontro di immagini esterne interiorizzate precedentemente in modo irriflessivo,  sono quest’ultime che vanno a costituire la griglia entro cui interpretare la realtà. Questo processo di acquisizione irriflessiva, priva di un metodo di gerarchizzazione, lo possiamo chiamare inquinamento mentale.  Attraverso questo processo avviene l’omologazione del singolo individuo alla cultura dominate.  

Alcune ricerche hanno evidenziato che il cervello è 60.000 volte più veloce ad elaborare le immagini rispetto ad uno scritto. Altri studi confermano che la presenza di un’immagine sui social media aumenta di molto i “clic” e quindi l’attenzione delle persone. Sappiamo, inoltre, che la sola immagine ha il potere di influenzare il lettore: ad esempio quando un autore vuole parlare male di un determinato politico, utilizza una “brutta” foto di quest’ultimo o viceversa se il messaggio vuole essere positivo.

Particolare è la fruizione delle immagini nei minori di 6 anni in quanto non sono in grado di cogliere la differenza tra ciò che è reale e ciò che invece risulta essere costruito. Nei bambini piccoli il pensiero irreale e magico non è del tutto distinto da quello reale. Quindi le immagini anche legate ad una finzione possono essere spesso equivoche. Ciò che sappiamo è che nei bambini la sovraesposizioni di immagini shock induce comportamenti aggressivi, insensibilità alla sofferenza e alla violenza. Se teniamo conto delle numerose immagini che un bambino vede anche solo camminando per la strada, oppure in tv e nel mondo virtuale ci accorgiamo dell’invasione visiva che rischia di frastornarlo e turbarlo.

Inoltre bisogna considerare che, per esempio, le immagini che troviamo negli spot pubblicitari e nei mass media veicolano una certa tipologia di maschile e femminile di idea di sé e quindi di comportamento. Le immagini pubblicitarie sono state studiate per capire che tipologia di donna e di uomo esse spingano a rappresentare. Ad esempio, in Italia emerge (dal rapporto sulla violenza di genere di Rashida Manjoo, relatrice speciale dell’ONU) che “nel 2006 il 53% delle donne comparse in TV era muta, (cioè non gli era richiesto di parlare); il 46% associata a temi inerenti il sesso, la moda e la bellezza; solo il 2% a temi sociali e professionali”.

Inoltre osservando gli annunci pubblicitari, che ritraggono figure femminili, si rileva una ricorrente tipologia di espressioni del volto che suggeriscono disponibilità ad un rapporto sessuale. Non è di per sé elemento negativo, ma non c’è parità di messaggio in quanto la pubblicità ci racconta che le donne sono sessualmente molto più disponibili degli uomini. D’altra partre è questo l’immaginario che il soggetto maschile ha costruito in se stesso della donna.

Sono più presenti “Le grechine”, ossia la bellezza femminile utilizzata in modo esclusivamente decorativo, rispetto alle figure maschili (20% a differenza del 3%). Inoltre vengono utilizzate le immagini di donne “manichino”, ma questo non succede per quanto riguarda gli uomini. Così come vengono spesso rappresentate le donne “emotive”, ma ciò non accade per gli uomini.

Insomma le immagini esterne, che come abbiamo detto sono molto influenti nella nostra psiche, attualmente non sembrano aiutare lo sviluppo di una personalità equilibrata e in sintonia con le conquiste sociali degli ultimi anni. Risulta quindi, a mio parere, proteggere da questo tipo di messaggi le nuove generazioni e aggiungere, al momento opportuno, spunti riflessivi e di critica verso alcuni modelli di femminile e di maschile che non possono in alcun modo definire la complessità dell’essere umano e la differenza di genere.

BY: Irene Barbruni

La magia del Natale
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Il periodo natalizio è iniziato e in questo anno particolare è giusto ricordare ciò che rende speciale il Natale, sicuramente per i più piccoli, ma anche per i grandi quando sanno guardare con occhi fanciulleschi la realtà, almeno una volta all’anno.

I bambini vivono in modo spontaneo la realtà colorata di elementi magici e fantastici. La credenza di Babbo Natale o comunque qualcuno che la notte di Natale magicamente arriva a portare doni è un esempio della presenza del pensiero magico. Una forma di pensiero arcaica, più vicino all’uomo primitivo che non all’uomo contemporaneo identificato con la sola razionalità. Il pensiero magico è importante nella crescita, ma anche nella vita adulta, in quanto ci allontana dall’abitudine di utilizzare nei nostri processi mentali unicamente la relazione causa-effetto. Allontanarci almeno ogni tanto dalla logica deduttiva ci fornisce una preziosa alternativa in tutti quei momenti della vita in cui lo schema di pensiero causa – effetto non ci aiuta a cogliere i molteplici significati che arricchiscono al nostra vita.

Il pensiero razionale, che usa un solo scherma interpretativo (causa-effetto) e che circoscrive il suo raggio d’azione solo sulla realtà percettibile dai cinque sensi, diviene, in certi momenti, ostacolo alla possibilità molteplice presente nella realtà umana. Se pensiamo all’espressione poetica ci si rende conto che non è dal pensiero razionale che questa emerge, ma da una dimensione complessa che tocca anche il pensiero magico, quel pensare che vede ciò che i sensi e la ragione non sanno vedere.

Il bambino che crede al racconto dell’adulto, che descrive una realtà magica in cui esiste un personaggio che arriva con una slitta dal cielo, ci fa, almeno in parte, comprendere le potenzialità ma anche i pericoli che la mente infantile può avere. Potenzialità perché proprio i bambini oggi dimostrano che il pensiero magico gli aiuta ad essere più forti degli adulti perché sanno rendere più semplice la realtà spogliandola di tanti pensieri razionali ed inutili. Pensiamo al bambino che si fa male, gli basta un bacio della mamma per guarire: quel bacio è davvero curativo. Certo il pericolo di questo pensiero magico e di questa suggestionabilità è che si è notevolmente in balia degli altri. Per questo motivo è fondamentale proteggere il bambino da questa sensibilità, senza tuttavia negarla.

Nella iconografia cristiana, la rappresentazione del presepe, mostra una scena illogica dal punto di vista razionale: un piccolo bambino che salva il mondo. L’intuizione che racchiude, al di là del fattore di fede, espressa con la poesia della natività, ci introduce e ci coinvolge nel sentimento della  speranza. Sperare è una della qualità più importanti dell’essere umano. La speranza non è razionale, sconfina con un’ idea epica e mistica della vita. Nella sua semplicità il bambino, così toccato dal pensiero magico, ci mostra la via verso l’atteggiamento e il sentimento della speranza di fronte alle avversità della vita. Qualcuno arriverà quella notte a portarmi un dono, qualcosa che viene dal cielo. Il sentimento di gioia che vive il bambino quando vede quel dono, non è solo legato all’oggetto in sé, ma all’evento del miracolo. Purtroppo nella nostra realtà consumistica i bambini annegano dentro i doni rischiando di non percepire più la poesia dell’evento, possono ubriacarsi di oggetti. Spinti verso una visione solo oggettuale della vita.  Nonostante questi pericoli, se il genitore saprà proteggere il proprio figlio, riuscirà ad aiutarlo a mantenere il contatto con la dimensione magica e poetica che alberga nel suo intimo.

Quest’anno, ancora di più che in altri momenti, è giusto ricordare che il mondo può essere guardato con occhi infantili in cui un bacio e una carezza non sono solo atti meccanici, o comportamenti, ma gesti che ci immergono in un mondo dove anche la magia e non sono la razionalità ne fanno parte.

Auguro un sereno Natale a tutti e soprattutto auguro di ritrovare un po’ della magia che ha fatto parte dell’infanzia di ognuno di noi.

BY: Irene Barbruni

L’effetto placebo: il potere curativo della nostra mente
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L’effetto placebo è un fenomeno osservato da tempo in campo medico. Si riferisce alla potenzialità suggestiva che possiede la nostra mente sul corpo.  In generale un placebo è un medicamento che non ha una reale azione specifica. Esso assume una particolare importanza, per esempio, nel corso di un esperimento dove, accanto al gruppo di soggetti ai quali viene somministrata la cura, vi è un gruppo di individui ai quali viene somministrato una falsa cura. Quest’ultimo gruppo serve da controllo per verificare l’efficacia del trattamento con più certezza.

Molti sono gli esempi che testimoniano la capacità di guarire insita in noi stessi. Ad esempio negli anni cinquanta alcuni medici eseguirono false operazioni per la cura dell’angina pectoris e nonostante non eseguissero l’esculsione dell’arteria mammaria, ma semplicemente aprivano e ricucivano, i pazienti trovavano comunque giovamento dall’operazione. Sono molti e differenti i disturbi fisici che hanno una risposta positiva al placebo: dal mal di testa, alla febbre, alle verruche. Oggi sappiamo che circa il 35% degli individui che ricevono un placebo hanno un effetto significativo sulla guarigione. Ovviamente tale percentuale cambia a seconda della gravità del disturbo. Interessante è il fatto che ciò che influenza notevolmente l’efficacia di un placebo è il metodo di somministrazione. Si è visto, per esempio, che le iniezioni sono più efficaci delle pillole; probabilmente perché l’iniezione viene percepita come più efficace della pillola.

Prendendo spunto dal fenomeno del placebo possiamo ragionare sui meccanismi che possiamo innescare in modo inconsapevole. Sappiamo quindi che le nostre convinzioni hanno una notevole influenza sulla capacità o meno del corpo di dare avvio alle giuste vie per il nostro benessere. Nella vita capitano momenti di difficoltà che fatichiamo a superare, momenti in cui ci sentiamo impotenti ed incapaci di affrontare determinate situazioni. Ma come possiamo coltivare la nostra insita capacità di superare le difficoltà? Nell’effetto placebo, ciò che ci fa stare meglio, è la convinzione che una sostanza stia agendo nel nostro corpo, promuovendo un effetto benefico. Quindi le convinzioni, i pensieri hanno una notevole influenza su di noi. I pensieri si concretizzano in parole, ecco perché il linguaggio che usiamo, soprattutto per definirci, è importante. Il dialogo con noi stessi non è neutro e nemmeno innocuo. Esso può recare altri problemi, nel senso che un modo errato di definire e di raccontare noi stessi, influisce negativamente sul nostro umore. Avere consapevolezza del linguaggio è il primo passo per contrastare tutti quegli schemi di pensiero che non aiutano le nostre capacità, anzi che le ostacolano. Ad esempio frasi che a volte pensiamo e diciamo come “non sono capace”, “sono timido” oppure “non riesco a reagire”, non  sono di aiuto. Darci delle etichette di questo tipo riduce le nostre potenzialità e spesso non hanno nulla a che vedere con ciò che veramente fa parte di noi, perché un’etichetta non potrà mai definire la nostra complessità interiore.  Inoltre nella realtà contemporanea vi è la tendenza a sposare slogan come ad esempio “bisogna resistere, tenere duro”, come se la vita fosse una continua lotta. Ma questa modalità, che può andare bene in alcune situazioni, non è adatta sempre nella vita che è fatta di imprevisti che dobbiamo necessariamente saper accettare, per poterli trasformare.

Dobbiamo essere consapevoli del fatto che quello che diciamo e pensiamo finisce per assumere i tratti che definiscono in modo oggettivo la realtà, finendo così per crederci. E quindi ci percepiamo proprio in lotta come se fossimo in guerra. Naturalmente la cosa è molto più complessa, perché le parole che usiamo sono esse stesse frutto di un modo di sentire, il quale tuttavia è ulteriormente confermato dalle stesse parole che usiamo:  è un circolo vizioso.  Queste stringhe di parole, vanno a comporre una struttura narrativa che costituisce un alter ego: ossia un’ identità dalla quale ricaviamo o forza, o debolezza. Ma ad ogni modo essendo una costruzione non corrisponde alla nostra vera ed autentica identità, la sola che abbia in sé le capacità di renderci adeguati alle diverse situazioni.  Ecco che diventa importante a volte saper cedere, accettare e smettere di combattere e altre volte saper far fronte alle situazioni. Ma questa flessibilità è frutto di un rapporto sereno con noi stessi. Una serenità che deriva dal sapersi accettare e saper strutturare un giusto dialogo interiore: saper parlare in noi stessi in modo equilibrato. Proprio quando ci mettiamo in competizione con un ipotetico noi stessi,  dato l’effetto persuasivo o placebo delle nostre affermazioni, finiamo per alterare la nostra personalità autentica.  La continua riflessione sui pensieri che albergano nella nostra mente diventa fondamentale per liberarci da convinzioni che possono ostacolare la nostra naturale capacità di superare ciò che ci rende sofferenti. In questo senso analizzare con serenità il dialogo interiore e farlo maturare dovrebbe diventare una delle attività più importati per il benessere personale.

BY: Irene Barbruni

Il bambino e il no. Il significato dell’opposizione tra normalità e patologia.
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La fase dell’opposizione è una fase importante nello sviluppo infantile. Il bambino provoca l’ambiente per mettere alla prova la sua autorevolezza e la capacità di contenimento del genitore. Questa fase inizia intorno ai due anni, momento in cui il bambino comincia anche a definirsi con “Io”. La funzione principale di questo periodo è quella di affermare la propria individualità che non va confusa con la necessità dell’indipendenza, in quanto la necessità della propria indipendenza richiede dimensioni psicologiche più evolute.  Quindi, in questa fase precoce l’esigenza di affermare se stesso viene catturata all’interno della propensione all’autoriferimento. Il bambino non ha e non può avere coscienza della sua dipendenza dalla figura materna, egli tende a usare la madre e tende con ciò a dominarla, assaporando il gusto di un tale potere. 

La durata di questa fase e l’intensità dei così detti “capricci” dipende molto dalle risposte che i genitori sviluppano. Purtroppo non è uno stadio che scompare da solo con l’età, ma necessita dell’intervento educativo dei genitori. I bambini imparano presto che in luoghi pubblici, o comunque in presenza di altre persone, gli adulti sono più propensi ad accettare le richieste per evitare le “scenate” del proprio figlio. Quasi sempre vi è la richiesta di qualcosa che il bambino vuole subito, ed è bene, in questi casi, essere fermi ed autorevoli. Altrimenti si finisce per confermare lo sviluppo delle capacità monipolatorie, che il bambino impara ad usare quando si fa dominare dall’esigenza di soddisfare nell’immediato il suo desiderio.  Il no del genitore può essere accompagnato da una spiegazione, soprattutto quando il bambino, a partire dai tre/quattro anni, è in grado di comprendere i motivi del rifiuto. Nel caso non si riesca sul momento a spiegare al bambino i motivi, si potrà farlo in un momento successivo di maggiore tranquillità.

È fondamentale quindi non cedere mai quando la richiesta del bambino è accompagnata da una modalità di imposizione sull’adulto. Inoltre è buona regola non accontentare subito una richiesta, ma posticiparla; in questo modo viene allenata la capacità di attesa e quindi di contenimento di quel desiderio.  Infatti la capacità di contenere e di attendere, quindi di reggere il tempo, saranno deteminanti in tanti ambiti della sua vita. Il bambino che non sa attendere si condanna alla subordinazione ai suoi bisogni, che lo portano a sviluppare una personalità incline alla dipendenza. E quindi a vivere nell’immediatezza senza capacità di mediare tra i suoi desideri e il dato di realtà che gli si poni di fronte.  L’esercizio dell’attesa e della mediazione contribuiscono a sviluppare la funzione riflessiva, che è alla base dell’evoluzione del pensiero. Altrimenti il pensiero,  dominato dall’impulsività irriflessiva, appiattisce le sue potenzialità di discernimento della realtà.

Un altro aspetto importante, da affiancare alla condivisione delle ragioni del no dell’adulto nella relazione con il bambino, è l’aspetto della collaborazione. Man mano che il bambino cresce è bene  richiedere la sua collaborazione e coinvolgerlo nelle scelte e nelle regole della casa e della famiglia, in quanto ciò aiuta a sviluppare in lui una modalità di relazione più matura. Anche perché, non va dimenticato, che in questa fase, come si diceva sopra, il bambino è traversato dall’esigenza dell’Uso e del Dominio che ne regolano le scelte e quindi l’etica. L’esercizio alla collaborazione aiuta a scavalcare la fase nella quale egli vede la sua vita come uno scenario fatto di lotte.  In un ambito collaborativo l’altro smette di essere percepito come nemico o come strumento da usare, ma viene visto quale interlocutore.  Ciò fa evolvere la sensibilità etica: dalla fase della contrapposizione, colorata dal dominio sull’altro, si passa alla fase della dialettica relazionale e della comunicazione colorate dalla reciprocità.

Ci tengo a specificare che la fase dell’opposizione non va confusa con il Disturdo Oppositivo Provocatorio che necessita di una diagnosi di uno specialista e un successivo intervento, che solitamente coinvolge sia direttamente il bambino che l’appoggio ai genitori. In alcuni casi questo tipo di disturbo è associato ad altri quali: Disturbo da Deficit di attenzione/iperattività (ADHD), depressione, ansia e Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

Quindi il no rivolto al bambino in certi momenti e accompagnato dalla necessaria spiegazione, aiuta l’evoluzione sia psicologica che sociale del piccolo d’uomo, affinché impari a diventare adulto.

BY: Irene Barbruni

La compassione: sentimento che unisce il micro ed il macro cosmo
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Gli studi sul tema della compassione sono notevolmente aumentati negli ultimi anni.

Davidson ha scoperto che c’è differenza tra empatia e compassione e dalle sue ricerche emerge che i circuiti neurologici che portano all’empatia e alla compassione sono diversi, e la gentilezza fa parte del circuito della compassione. Inoltre dagli studi di questo ricercatore confermano che la gentilezza e la tenerezza si possono allenare a qualsiasi età e che, nei bambini e negli adolescenti, portano un sostanziale miglioramenti dei risultati scolastici, del benessere emotivo e della salute.

Ad oggi esistono diversi interventi, empiricamente supportati, centrati sullo sviluppo della compassione (per esempio la Terapia Focalizzata sulla Compassione, la Mindful Self-Compassion, Meditazione su compassione e amorevolezza).

Il training alla compassione stimola il rilascio di agenti come la dopaminae leendorfine che sembrano in grado di mediare la gratificazione e la motivazione, di ridurre lo stress sul lavoro e prevenire il rischio di burnout, che minaccia proprio quegli operatori della salute più coinvolti e più capaci di empatia. Inoltre, anche se non vi sono studi specifici sugli effetti di interventi terapeutici basati sulla compassione nelle problematiche legate alle dipendenze, dal punto di vista teorico lo sviluppo della compassione può essere un antidoto efficace contro alcune caratteristiche della persona dipendente come: mancanza di empatia, di rapporti compassionevoli, di autocritica e sensi di colpa.

Per fare chiarezza è bene precisare che non è la cognizione a fondamento della compassione, ma il sentimento di compassione che fonda un modo diverso di cognizione. Quindi non prima la percezione e poi il sentimento, ma il contrario: prima il sentimento che veicola la cognizione. La storia dell’uomo ci dice chiaramente di come il sentimento della compassione o sentinento di pietà, sia stato alla base dell’evoluzione etica e sociale delle comunità umane. Basti pensare a quando l’uomo, cacciatore spietato, uccide per portare alla propria comunità la sua preda; ad un certo punto ha cominciato a provare pietà, compassione per la sua vittima. Come fare? Da un parte il bisogno di nutrisi e dall’altra la pietà per la vittima. É in questo conflitto, in questo disagio psicologico ed esistenziale, che sorgono i primi riti religiosi: di offerta dell’animale agli dei, o di rispetto per l’animale ucciso che sviluppa il rispetto per la natura. Gli indiani d’America rispettavano il bisonte, che pure cacciavano per nutrirsene. Il rispetto per l’animale portava quel cacciatore a pensare che la sua vita avrebbe dovuto essere degna di tale sacrificio. Finchè permaneva questo equilibrio tra bisogno e compassione, l’uomo stava dentro un rapporto di ecologia verso la natura. Poi mano a mano che l’interesse, l’avidità hanno ridotto il sentimento della compassione siamo giunti al punto di oggi con un pianeta ormai all’estremo, violentato e deturpato. Se fosse la cognizione a guidare il comportamento, avremmo già cambiato politica e stile di vita, perché la cognizione che il pianeta sia in un punto cruciale l’abbiamo. Ciò che manca è la compassione, la pietà verso il nostro mondo.  

Il sentimento della compassione porta in sé un’intuizione archetipica, cioè il sentimento della comunione tra gli esseri. L’unione tra  micro e macro cosmo, il finito e l’infinito sono tutt’uno; la creatura è parte integrante del creatro, ed il creato è la promanazione della creatura. Da cui l’intuizione dell’amore: siamo tutti fratelli. Non è quindi il cervello, le connessioni neurologiche che ci portano ad un tale visione/sentimento, ma proprio il sentimento quale dimensione che trascendente lo stesso cervello ad indicarci la via dell’amore.

L’atto della compassione è ben descritto nei versi tratti dal Profeta di Gibran:

E quando addenterete una mela, ditele nel vostro intimo:

“I tuoi semi continueranno a vivere nel mio corpo,

ed i germogli del tuo futuro sbocceranno nel mio cuore:

e la tua fragranza sarà il mio respiro,

ed insieme gioiremo per l’eternità”

Proprio anche il gesto della compassione verso l’umile frutto contribuisce a schiudere al nostro cuore la consapevolezza di essere parte di un cosmo palpitante d’amore.

BY: Irene Barbruni

Eco e Narciso: quando il rapporto di coppia logora fino all’annullamento di sè
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Il mito di Eco e Narciso ci aiuta a descrivere e riflettere su un tipo di rapporto di coppia che può presentarsi nella nostra vita. Il fatto di riconoscere alcune dinamiche psicologiche può determinare una maggior coscienza di noi stessi e di conseguenza una maggiore capacità di fare scelte più consapevoli. Certo non possiamo scegliere la persona di cui innamorarci, ma possiamo e dobbiamo riflettere sul tipo di rapporto che si sta instaurando per allontanarci da ciò che può diventare nocivo per la nostra persona.

Il mito di Eco e Narciso racconta la storia di due personaggi. Da una parte abbiamo Eco una ninfa che, innamorata di Narciso, finisce per fondersi con la montagna sulla quale trova rifugio rimanendo solo una voce, l’eco appunto. Dall’altra abbiamo Narciso talmente preso da se stesso da non riconosce l’amore di Eco; egli si innamora della propria immagine riflessa sull’acqua di un lago nel quale cade venendo inghiottito dall’acqua. Eco rappresenta una personalità che si annula nel rapporto con la persona amata. Narciso, al contrario, è talmente preso da se stesso da essere incapace di entrare in rapporto con l’altro. Egli non riconosce nemmeno l’amore di Eco nei suoi confronti. Tale condizione diventa una vera e propria patologia chiamata appunto Disturbo Narcisistico di Personalità. Una personalità che si sente superiore agli altri e vive i rapporti personali sfruttando l’altro, senza essere in grado di riconoscere i sentimenti e le necessità degli altri.

Non sempre putroppo queste due situazioni estreme sono ben visibili da chi le vive perché, come nel caso di Eco, un certo grado di “annullamento” di sé fa parte del rapporto di coppia, così come spesso il narcisista può apparire come una personalità forte, in quanto sicura di sé. Ciò che ci può aiutare è la percezione della “misura” del benessere/malessere che il rapporto di coppia ci porta. Esso dovrebbe avvicinarsi il più possibile ad un being-love, come lo definisce Marslow, ossia un amore per l’Essere. Quindi, un tipo di rapporto in cui la persona non crea turbamento o angoscia, e il sentirsi degno dell’amore spinge entrambi a crescere. L’amore diventa quindi un fine, inesauribile, e non un mezzo.

Anche in uno dei racconti di Edgar Allan Poe, Il ritratto ovale, troviamo una metafora analoga a Eco e Narciso o meglio troviamo lo stesso archetipo di fondo. Il racconto narra di un pittore più innamorato della sua arte che della sua donna. La quale si lascia convincere a fare da modella all’arte del marito. Mano a mano che lui si infervorisce per il quadro che sta dipingendo, lei lentamente deperisce fino a morire.  É una descrizione tragica di un uomo che  non da’ voce alla parte di se stesso capace di entrare in rapporto con la propria donna. Ma oltre a ciò è rappresentato il tratto “vampiresco” di certi rapporti, dove uno si nutre della realtà profonda dell’altro fino a fare scomparire la sua realtà soggettiva.  Se non si coltiva la RELAZIONE si finisce per implodere nel proprio mondo personalistico, decretando la fine dell’esperienza dell’amore. Un tratto questo solitamente maschile poiché la donna è culturalmente e socialmente più portata ad essere attenta alle esigenze dell’uomo, che invece tende ad essere meno disposto ad uscire dai proprio bisogni. É importante che nel rapproto di coppia i due siano attenti alle rispettive esigenze psicologiche, esistenziali e spirituali. Avere cura delle reciproche necessità rende fecondo il dialogo e mai sazio; perché proprio l’interagire dei due tra di loro allontana quel senso di noia che tante volte avvolge la relazione, quando questa rimane chiusa dai rispettivi “narcisismi”. E quell’esperienza di noia induce a cercare fuori da quel rapporto qualcosa che stimoli, che ecciti e che gratifichi. L’insorgere del sentimento della noia va interpretato come un campanello d’allarme, che ci dice che dobbiamo procedere allo sviluppo delle capacità relazionali. 

BY: Renato Barbruni

I ragazzi della 56° strada
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I ragazzi della 56° strada
di Francis Ford Coppola

Film d’autore, dal carattere chiaramente drammatico, disegnato dal regista sulla falsariga del film epico. Se Stand by me, è il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza, qui osserviamo il passaggio dall’adolescenza alla maturità. Se nel primo film la drammaticità della vita è presagita e serpeggia qua è là nella vicenda e nel vissuto dei ragazzi, qui i protagonisti sono travolti dalla tonalità drammatica dell’esistenza. Essi vedono infrangersi il senso di onnipotenza del sogno (tipicamente fanciullesco) sugli scogli della durezza realistica della loro esistenza. Il rischio è perdere il sogno sulla vita, lo sguardo d’incanto, che perdura nell’anima quale atto di fede del proprio esistere e come ultimo e radicale senso di sé. Il protagonista della vicenda, dopo la morte drammatica e violenta di un coetaneo, ad opera di un amico caro, intraprende un ultimo viaggio, dapprima come fuga dalla realtà, poi quale irriverente nascondimento di se stesso dalla società degli uomini adulti. Il viaggio, tuttavia, mostrerà la sua vera natura là dove divirrò incontro con la radice dell’intuizione pura che è la poesia, ultimo baluardo di civiltà dell’anima. E nonostante il colpo terribile alla stabilità della fede nell’esistenza, la vicenda si conclude nelle parole del protagonista che scopre la bellezza insita nel proprio esistere.

BY: Renato Barbruni

La vita appesa ad un filo
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La vita appesa ad un filo
di Chen Kaige

Film dalla struttura narrativa archetipica. Il linguaggio visivo del film è estremo,essenziale e quindi,in questo senso, archetipico: il fiume, la montagna, il deserto, la casa-tempio; il procedere dei personaggi come viandanti,come viaggio attraverso la propria esistenza disegnata anch’essa informa archetipica; la cecità come condizione simbolica e metaforica della problematica esistenziale e spirituale dell’uomo, e quindi la sua ricerca della capacità di vedere, una leggendaria veggenza per cogliere il vero volta del mondo.
In questo scenario e in questa trama in cui vengono colti e collocati i personaggi, si svolge il senso drammatico della vita dove il giovane e il vecchio procedono fianco a fianco sostenendosi a vicenda, e dove incontrano i loro limiti e le loro più essenziali paure, una tra le tante la paura dell’incontro col femminile. Dirà il vecchio al giovane: “non c’è da fidarsi delle donne, stanne alla larga.” Ma è nella natura della giovinezza il farsi prendere da eros dal quale si sviluppa la trama della continua ricerca di incontro.
Il vecchio, che insegue per tutta la vita il momento in cui l’ultima corda del suo liuto si spezzerà dandogli la vista, scoprirà, prima con tremenda sofferenza e delusione, – quasi un senso di tradimento -, che i suoi occhi permangono insensibili alla luce esterna, che la visione interiore della speranza, della fede e della gioia sono i suoi nuovi sensi e la sua nuova visione del mondo. Allora le sue canzoni da menestrello dello spirito echeggiano nello spazio. Mentre il giovane accetterà di affidarsi al destino procedendo sulla via già percorsa dal suo amore: il gettarsi nel vuoto come simbolo estremo dell’atto di fede al di là della concretezza della vista e del procedere sulla terra saldamente ferma, simbolo delle tradizioni e delle consuetudini.

BY: Renato Barbruni

La casa sul lago del tempo
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The lake house di Alejandro Agresti
Interpreti: Keanu Reeves, Sandra Bullock, Dylan Walsh, Shohreh Aghdashloo, Christopher Plummer, Lynn Collins, Mike Bacarella
Anno di produzione 2005, durata 105′
Genere: Drammatico

Il tempo, l’attesa: l’amore ne ha necessità vitale. E’ questo il tema del film. Una commedia sentimentale dalle tinte tenui, modesta, con qualche attimo suggestivo, ma nel complesso gradevole e anche profonda.
Senza la capacità di attendere l’amore può morire. Il protagonista maschile muore per troppa brama di arrivare. Ma lei lo salverà portando il tempo sulla giusta sincronia. Le due anime hanno percorsi diversi con temporalità diversa; se sapranno aspettare il momento giusto, quando saranno giunte all’unisono, il tempo sarà compiuto e l’amore potrà vivere. In un’epoca tutta spesa nella frenesia di fare esperienza e quindi bruciarla, il film tocco un argomento molto taciuto, l’importanza di rispettare la dimensione del tempo, un tempo che non è oggettivo, il tempo degli orologi uguale per tutto. Questo è Crono il dio del tempo che si mangia i figli. Il tempo di cui in questo storia si parla è Aion, il tempo degli dei, il tempo in cui vivono gli dei; non quindi il tempo che agisce sottraendo sostanza all’esistenza, ma il tempo che genera l’esistenza, da cui si genera il mistero dell’esistere, un esistere che trova il suo lessico essenziale nell’accadimento, nella generazione del mondo. I due protagonisti quando riescono a mettersi in sintonia su quel tempo, avranno la vita eterna, la comunione dell’amore e sconfiggeranno la morte.

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