BY: Renato Barbruni

Condividi Su:

Dio mio perché mi hai abbandonato?
Salmi 21,2; Matteo 27,46; Isaia 49,14

tratto dal libro “Logos e Pathos” di Renato Barbruni, Ed. Nuovi Autori

Invocazione drammatica, che scuote l’anima fino alle sue radice, o meglio da quelle radici proviene e si diffonde. Quando la vita scorre linearmente dentro l’esistere di ogni singolo uomo, essa restituisce quel senso del compiuto, quel “questo è bene”, che da sé promuove i tratti dell’esistere e li fa assurgere a realtà vera. Da cui il senso pienamente percepito senza ulteriori artifizi, senza necessità di porre domande sulla nature di ciò che viviamo. In tali momenti sentiamo la presenza di Dio, sentiamo di essere con Esso all’unisono, di essere noi stessi docili al suo incommensurabile Volere; il suo volere è tutt’uno con il nostro volere, senza fratture, senza distanze, come una profonda comunione che è consustanzialità; quella consustanzialità che precedette il peccato, la frattura spazio-temporale tra l’uomo e Dio.

Ma quando la vita smette di essere percepita come senso, allora ci pervade e ci avvolge un silenzio inaudito, un vuoto soverchiante, là dove la vita non ci appare che il simulacro di istinti e percezioni vane e sterili. Ci sembra un abbandono da parte di Dio, da parte di Colui che solo ha il privilegio di fornire senso all’esistere. Allora ci sembra di percepire quel vuoto come silenzio di Dio, come se quel silenzio testimoniasse, gridasse non solo del suo mutismo ma della sua orribile inesistenza.

Nella nostra vita molte volte abbiamo sperimentato un tale vissuto dell’Anima. Di fronte ad un certo dolore che abbiamo incontrato nel corso della nostra vita, così forte e inspiegabile che ci ha trascinato nella disperazione, ci siamo sentiti soli, e abbandonati dal volere di Dio, abbiamo così dato corpo, attraverso l’inalienabile sofferenza, al discorrere del pensiero che deduce ma non intuisce il senso delle cose, e abbiamo scambiato il nostro dolore come assenza di valore; un valore che così annientato ha permesso alla nostra ombra distruttiva di dettare le parole più inutili e devastanti che conosciamo: “Il senso non c’è”. Quando in un’ultima eco di una fede sottile come la lama di un rasoio abbiamo gridata a pieni polmoni, con voce roca, quasi spenta dalla disperazione: “Dio mio perché mi hai abbandonato”, è lì che abbiamo ritrovato il miracolo: in quell’invocazione c’è chi invoca e c’è chi è invocato, e subito un senso di ritrovata alleanza sprigiona un profumo di speranza che balena repentino nel respiro dell’Anima.

Il corpo materiale, il corpo esistenziale e il corpo spirituale

“…Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo tratto dalla terra è terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l’uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale ilo celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste. Questo vi dico, o fratelli: la carene e il sangue non possono ereditare il Regno di Dio, ne ciò che è corruttibile può ereditare l’incorruttibilità.
Ecco io vi annuncio un mistero: noi tutti certo moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. E’ necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità….”
San Paolo, 1 Corinti 15, 44-53

Questo bellissimo passo di San Paolo si presta a diverse letture su diversi piani, ma rimane comunque una utile ed efficace rappresentazione della nozione della “salvezza” dalla morte, sia essa intesa sul piano spirituale o, più immediatamente, intesa sul piano esistenziale. Lo Psicoanalista si occupa della drammatica situazione della possibilità di morte esistenziale; il Teologo si occupa prevalentemente della possibilità di morte spirituale.. La differenza tra le due morti è relativa al corpo cui essa si riferisce. Nella morte spirituale è un evento escatologica che comprende la realtà ontologica dell’uomo, la realtà del suo “essere” più profondo ed assoluto; la morte esistenziale colpisce la realtà immanente e quindi fattuale dell’uomo, l’attualità dell’essere (la forma mandana percettibile come atto fenomenico dell’essere) nel suo lungo divenire. La forma mondana è composta dagli aggregati affettivi, sociali e ideale che ne sorreggono e ne sostanziano la presenza e la dinamica nel mondo. Sono, in altre parole, le varie identità attraverso cui si sviluppa la fenomenologia dell’esistenza di un soggetto. In ciò rileviamo tre fondamentali identità: l’identità affettiva, l’identità sociale e l’identità esistenziale.
Più complessivamente possiamo pensare l’uomo composta da tre diversi corpi:
il corpo materiale sede e luogo della vita biologica con la sue proprie dinamiche: la dinamica biochimica, la dinamica pulsionale, la percezione, la sua coscienza e l’autocoscienza;
il corpo esistenziale sede e luogo delle dinamiche esistenziali quali la coscienza riflessiva, la coscienza relazionale e la coscienza degli aneliti;
il corpo spirituale è luogo e sede delle realtà superiori che trascendono la realtà immanente e fattuale dell’essere, quali il senso del divenire ultimo, le sostanze divine nella loro incommensurabile realtà.
Spesso le persone fanno confusione sue tre piani, non sempre riescono a distinguere a quale piano di esistenza vada inscritto un loro vissuto o un certo accadimento della loro vita. Infatti alle volte si pensa che certi fatti interni alla persona appartengono al piano esistenziale, mentre essi trovano la loro origine e il loro esaurimento solo sul piano della corporeità; così anche per quanto riguarda il piano teologico: si pensa alle volte di argomentare e di provare sentimenti sul piano teologico mentre ci si trova ancora su un livello esistenziale. Lo psicoanalista deve aiutare a far chiarezza su tale situazione; è quindi importante una preparazione teologica che non significa un scelta confessionale (l’appartenenza ad un credo religiosa) ma che gli renda possibile un adeguato orientamento tra le realtà che compongono i vari aneliti dell’uomo.
Il corpo spirituale è assolutamente invisibile alla coscienza, per cui è necessario che si rifletta nel corpo esistenziale e nel corpo materiale. In altre parole noi non percepiamo direttamente lo spirito ma solo quando questo illumina il corpo materiale e quello esistenziale. L’anima, o corpo spirituale, è come la luce. Noi non siamo in grado di percepire direttamente la luce, ma solo quando essa è riflessa da un oggetto: l’errore sarebbe di pensare che l’oggetto sia la fonte della luce non solo il luogo di riflessione; l’anima è più facilmente percepita dalla coscienza solo quando si riflette sul corpo esistenziale, vale a dire sulle varie identità che costellano la nostra esistenza. Tali identità non sono, perciò, la fonte della nostra vita, ma in essa la nostra vita spirituale si riflette, si manifesta; alle volte il dolore per la morte di una o più identità è soverchiante e mortificante, tanto da spingerci verso un’esperienza di annullamento che viene percepita quale morte del corpo spirituale; è questa erronea cognizione che dobbiamo superare se vegliamo essere in grado di reggere l’esperienza della morte affinché si possa risorgere a vita nuova e superiore.
Nel corso della nostra vita moriamo tante volte, e tante volte risorgiamo, senza che ce ne rendiamo conto.

AMA IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO

Il come su cui dobbiamo riflettere riguarda la qualità dell’amore più che la quantità. Si può amare in tanti modi quante sono le necessità a cui l’amore tende a dare risposta. Se si ama se stessi nel modo giusto si ama il prossimo nel modo giusto; ma se non si è capaci di amare se stessi nel modo giusto è assai difficile riuscire ad amare veramente nel modo giusta l’altro. Non è poi così facile saper amare. Spesso confondiamo le esperienza emotive con l’amore; altre volte confondiamo stati di dipendenza psicologica come amore. Ma l’amore non ha a che vedere né con le emozione, né con gli stati di dipendenza psicologica. Anzi quasi sempre una forte dipendenza psicologica trasforma la relazione in una trappole, per l’uno e per l’altro, tanto forte da far sognare e desiderare ad entrambi di fuggire da essa. Certo quello che più forte vive la dipendenza avrà più difficoltà a pensare che sarebbe meglio per lui andare via da lì. Quel andare via da lì come vera necessità si riferisce al fatto che una relazione quando è ferma alla dipendenza non svolge alcun ruolo di agente evolutivo della persona, e per tale motivo è nociva alla persona in quanto tale. Tutto questo ragionamento si fonda sull’assunto che il valore primo da perseguire sia l’evoluzione della persona, l’evoluzione della sua anima. Il vero amore è l’occasione e il luogo dove tale evoluzione si realizza con più efficacia. A tale proposito Teilhard De Chardin dice: “L’amore non solo non spersonalizza (mentre lo stato di dipendenza lo fa), ma iper-personalizza”.

Quindi saper amare significa trovare la necessità dell’anima dell’altro e rispondere a tale profonda necessità: una necessità che tanto più è essenziale tanto più è vicina al centro della vita spirituale. Ma se una persona non sa trovare in se stessa la necessità essenziale della sua vita spirituale, non saprà riconoscerla neppure per l’altro, poiché egli è tanto distante da se stesso da non sentire più la voce interiore del suo profondo significato. E’ importante quindi la riflessione introspettiva per comprendere a pieno le proprie e le altrui necessità profonde, le necessità dell’anima. Ecco perché il dialogo nella coppia è importante, ma un dialogo che sia confessione delle proprie dinamiche interiori; che esprima la capacità di uscire dalla proprie chiusure, e quindi fuori dalle istanze puramente egoiche, quelle istanze che si riferiscono ai bisogni prettamente piscologici. La riflessione va quindi spinta verso le tematiche spirituale della Persona, poiché l’amore è la dimensione sacra per eccellenza. E’ questo che oggi molte donne chiedono ai loro uomini, ma questi spesso sono travolti dalla loro ignoranza e non curanza di fronte alla sfera dei propri sentimenti più profondi.

QOÈLET: UN UOMO STANCO CHE CERCA AMARAMENTE IL SENSO DELLA VITA

“Vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno. Per cui fatica sotto il sole?”

Così inizia la lunga riflessione di Qoèlet sulla vita che ha vissuto. La sua, da principio, è una riflessione amara, quasi disperata. Il senso della vita sembra lontano, una pia illusione. Tutto ciò che lo ha animato nelle epoche giovanili, la passione per le donne, le aspirazioni sociali, la ricerca della gloria, ora, davanti alla morte, ormai imminente, sembrano non contare più. Tuttavia, mano a mano che il ragionar del cuore prosegue, lentamente la saggezza prendo il posto dell’amarezza. Il testo è attribuito a Re Salomone, così per lo meno si legge nell’intestazione, ma sembra più probabile che sia stato scritto tra il II e III secondo avanti Cristo come ci dicono gli studiosi della Bibbia.
Lo scritto è intriso di tristezza, di una malinconia rassegnata, poiché ciò che fa parte del ricordo non è più posto come valore per la vita. Il mondo appare spietato, ingiusto e povero di afflato significativo, e l’esultanza dell’uomo appare come un movimento verso il nulla. Sotto il profilo di un testo biblico non è di facile lettura, poiché se ne seguiamo la logica, le parole e gli argomenti, ciò ci porta ad allontanarci da Dio, o comunque a non amare Dio. Una divinità lontana dall’uomo che sembra aver abbandonato l’umanità al proprio destino. “Vi è una sorte unica per tutti,/ per il giusto e l’empio,/ per l’impuro e l’impuro, […]” I forti, i violenti hanno la meglio, ma poi anche su di loro si abbatterà la catastrofe: non c’è scampo alla crudezze della realtà. La saggezza che se ne ricava è intrisa di rassegnazione, non certo di speranza. “E’ meglio la fine di una cosa che il suo inizio,/ è meglio la pazienza che la superbia. […]” L’amarezza verso l’uomo porta a considerare la sua pochezza e la sua stoltezza: “Dio ha fatto l’uomo retto,/ ma essi cercano tanti fallaci ragionamenti. […]”

Gli ultimi versetti ci ricordano che il destino è nella mani di Dio e che a lui, e soltanto a lui, dobbiamo affidarci, ma sembra più un argomento posticcio, messo lì per rientrare nella ortodossia di teste sacro nel solco della tradizione ebraica che vuole riferire comunque tutto a Dio, e che quindi non può essere discusso ciò che Egli ha deciso. Ma già nel libro di Giobbe vi erano i semi di una ribellione alla legge divina, legge quasi mai compresa dall’uomo. Tuttavia anche in quel testo la riflessione critica dell’uomo verso Dio è solo temporanea. La cosa interessante è constatare che l’argomento non è in fondo nuovo quando lo si incontra negli atteggiamenti dei nostri contemporanei che, godendo di maggior libertà di espressione, con più facilità si mettono contro Dio. La differenza sta nell’epilogo della discussione. Sia in Giobbe che nel Qoèlet l’amarezza sulla vita e le sue leggi cede il posto ad un sapienza che vuole essere da guida e di sostegno nei momenti dolorosi dell’esistenza. Ma più ancora questa forma più alta di sapere vuole preparare l’uomo a costruirsi intorno una vita che lo metta al riparo dalle false illusioni.
“Dio dei padri e Signore di misericordia,/ che tutto hai creato con la tua parola,/ che con la tua sapienza hai formato l’uomo,/ […] dammi la sapienza che siede in trono accanto a te/ e non escludere dal numero dei tuoi figli,/ […] Con te è la sapienza che conosce le tue opere,/ che era presente quando creavi il mondo;/ essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi/ e ciò che è conforme ai tuoi decreti. […]”
Questi frammenti della preghiera, attraverso la quale l’uomo chiede a Dio di conoscere l’intimo sapere delle cose, affinché egli possa adeguarvi il proprio comportamento, mette in evidenza la consapevolezza che solo aderendo a quell’intimo e profondo sapere l’uomo sarà veramente uomo.

Nel corso della riflessione la discussione vede sempre più al centro il tema della sapienza che viene isolato dal tema di Dio, quasi pronta (la sapienza) ad essere definita un persona distinta. Come lo sarà nel cristianesimo con lo Spirito Santo.
Dicevo che solo nel finale l’autore si piega alla volontà divina, mentre in tutto il testo Dio è messo più o meno velatamente in discussione. E’ uno scritto che necessita della presenza del Cristo affinché si intravveda la possibilità di superare la conflittualità tra l’uomo e Dio, una conflittualità molto presente nel mondo laico. (Non è sempre tenuto nella giusta considerazione questo tema sotto il profilo esistenziale, la psicologia è carente a tale riguardo). La rilevanza del testo sta nella sintesi, molte essenziale, circa la sensibilità disperata dell’uomo. E’ quindi un testo attualissimo in tempi nichilisti come il tempo attuale. Per questo piace molto al mondo laico. Un testo che tuttavia necessita di una lettura attenta, perché si presta troppo ad un’interpretazione atea e disperata sulla vita. Per altri versi è un testo che mette in evidenza il fatto che, in fondo, l’umanità non è cambiata nel corso del tempo, ripete gli stessi errori, e non è riuscita a trasformare il proprio cuore. L’autore esprime una lamentazione penosa sulla vita, egli constata ciò che chiunque vede quando guarda le cose del mondo. Tuttavia è un uomo che ha il coraggio di reggere il paradosso che sta alla base dell’esistenza: la morte è inevitabile, ma ancor più lo è la tenacia della continuità della vita.
Quindi è un testo che affascina anche l’uomo contemporaneo per la tentazione nichilista che lo pervade, ma che se letto con sincera obbiettività ci può dare spunti riflessivi che ci aiutino ad affrontare le difficoltà della vita quando questa è circondata da tutte le sue contraddizioni.

Side bar