BY: Irene Barbruni

Smarthphone, tablet e infanzia
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Molti sono gli strumenti tecnologici che fanno parte della nostra vita e quella dei nostri figli. Rifletteremo sull’utilizzo di smartphone e tablet in quanto, sebbene simili al computer e alla tv, hanno delle caratteristiche che li rendono maggiormente “pericolosi”e quindi necessitano un utilizzo più consapevole dei rischi, soprattutto se parliamo di bambini ed adolescenti.

Infatti, il computer di casa e la televisione, proprio per il fatto di essere poco “trasportabili”, sono meno invasivi nella vita delle persone e quindi meno soggetti a tutti i rischi che invece sono connessi all’utilizzo dei tablet, ma soprattutto degli smartphone, in quanto sono praticamente sempre a “portata di mano”. Inoltre, consideriamo anche che l’Italia è al primo posto in Europa per diffusione di telefoni cellulari e i bambini lo usano in età precocissima.

L’impatto psicologico di questi mezzi di comunicazione sullo sviluppo dei bambini è, negli ultimi anni, oggetto di numerose ricerche. Sappiamo che essi stanno influenzando la quotidianità dei bambini e che il loro utilizzo ha una stretta correlazione con l’aumento del malessere psicologico dei giovani e giovanissimi. A questo riguardo, significativa è la lettera che gli azionisti hanno mandato al Presidente della Apple il gennaio scorso: hanno richiesto sostanzialmente un intervento tempestivo sugli iPhone, affinchè i giovani consumatori siano maggiormente protetti. Gli azionisti temono, tra quanche anno, un aumento dei disturbi associati dalla dipendenza e conseguente abuso da smatphone e, quindi, una successiva richiesta di risarcimento da parte dei consumatori.

Molti studi hanno anche evidenziato un’associazione tra l’utilizzo eccessivo di queste tecnologie nei bambini e la presenza di ritardo nel linguaggio e disturbi cognitivi tra i quali difficoltà di concentrazione e comprensione.

Il pericolo della dipendenza che possono procurare è sicuramente centrale perché alla base dell’abuso del mezzo che, a sua volta, porta conseguenze a carico dello sviluppo cognitivo ed emotivo. Addirittura una psicologa esperta di dipendenze e relazioni familiari Mandy Sailgari ha affermato che dare ai bambini uno smartphone è “come dargli un grammo di cocaina”. La dipendenza non riguarda solo i social networks (argomento che tratteremo meglio quando parleremo dell’adolescente) ma è legato proprio allo strumento in sé. Se ci fermiamo a riflettere possiamo renderci conto che nella nostra quotidianità prendiamo spesso in mano il telefono anche quando in realtà non ce ne sarebbe così bisogno: quel gesto è divenuto quasi in tic.

Inoltre le immagini che ci arrivano dallo schermo, al di là del contenuto, sono sempre troppo invasive per un soggetto che sta crescendo. Per esempio, se osserviamo un bambino che sente una canzone guardando un video su uno schermo vediamo come egli rimane passivo, mentre nel momento in cui ascolta solamente la canzone è più libero di canticcchiare e ballare. Quindi possiamo dire che se facciamo “pulizia” delle numerose immagini in cui i bambini oggi sono immersi, diamo maggior spazio allo sviluppo della loro creatività.

Un altro aspetto da tener presente è l’attenzione verso le ore che precedono il sonno. I dispositivi devono essere spenti almeno un’ora prima di andare a letto, secondo le linee guida internazionali. Questo per prevenire non solo problemi di insonnia, ma anche difficoltà legate ad un sonno disturbato. Infatti, secondo alcune ricerche, l’esposizione agli schermi incidono sulla melatonina, un ormone necessario al nostro corpo per riposare bene.

Oltre alla “vigilanza” è importante il buon esempio del genitore. Quindi che siano in primo luogo gli adulti ad utilizzare in modo corretto le tecnologia. Per esempio, è buona abitudine prevedere dei momenti in cui tutta la famiglia si prende una pausa dallo smathphone: come per esempio quando si cena o nell’ora che precede il sonno, e anche introdurre la consuetudine di passare delle giornate intere senza telefono. Teniamo conto che purtroppo i dati ci dicono che le conseguenze negative dell’utilizzo delle nuove tecnologie superano di gran lunga quelle positive. Inoltre, è bene considerare che tutti i rischi di cui abbiamo parlato, aumentano in proporzione all’età in cui si fornisce lo strumento.

Un altro errore che spesso facciamo è dare il telefono ai bambini per intrattenerli in alcuni contesti in cui si deve attendere o anche durante i pasti. Se questo utilizzo diventa un’abitudine il bambino non imparerà a gestire i momenti di noia. Purtroppo sappiamo che oggi, più che in altre epoche, è maggiormente difficile gestire i bambini i quali sono poco inclini al contenimento della propria emotività. Purtroppo però l’utilizzo di questo mezzo anche se sul momento sembra la soluzione al problema, alla lunga arreca differenti svantaggi. Il danno principale è che i bambini non imparano a gestire la noia e soprattutto le emozioni che lo traversano e che possono gestire solo attraverso il contenimento.

Un buon modo per aiutare la crescita psicologica dei nostri figli è quell, per esempio, di prevedere nel corso della giornata non solo intrattenimenti e divertimanti, ma anche piccoli compiti che li rendano utili e partecipi alla quotidianità familiare. Se si riesce a responsabilizzare i bambini attraverso alcuni compiti domestici, adeguati all’età, gli si aiuterà a diventare più autonomi, in quanto il sentimento di sentirsi utili procura loro la consapevolezza di essere investiti di un ruolo sociale. Questo è il vero antidoto alla noia, cioè al non senso di sé.

Inoltre è importante tener presente che, al di là delle proibizioni, ciò che aiuta ad un utilizzo adeguato è il buon esempio dell’adulto nel trasmettere e condividere altri tipi di attività. Quindi la regola principale per un impiego responsabile dello smartphone e del tablet è sicuramente una prudenza nell’uso frequente, soprattutto nei bambini molto piccoli. Però a volte non ci accorgiamo nemmeno di aver preso un’abitudine/dipendenza, quindi il consiglio è non farlo utilizzare quotidianamente ma solo saltuariamente. Fondamentale è anche l’attenzione verso l’uso che ne facciamo noi adulti.

Teniamo sempre presente che il tempo quotidiano che un bambino dovrebbe passare di fronte ad uno schermo che sia tv, computer o telefono non dovrebbe mai superare i sessanta minuti giornalieri complessivi. Infatti il bambino deve sviluppare capacità che necessitano di esperienze attive.

Il “controllo” del genitore diventa più difficile nel momento in cui i figli possiedono il proprio telefono. Purtoppo l’età in cui oggi i bambini ricevono il primo smartphone personale si è abbassata. I minori di 14 anni non dovrebbero possedere uno smartphone, comunque mai sotto i 12 anni. Il tema legato all’utilizzo di questo mezzo nell’adolescenza merita una riflessione a parte che sarà sviluppata nel corso del prossimo appuntamento.

BY: Irene Barbruni

Bullismo seconda parte
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Secondo una ricerca condotta dal King College di Londra, il bullismo è un fenomeno che implica conseguenze negative che vengono evidenziate in uno spazio di tempo molto più ampio, anche dopo quarant’anni. Gli individui, vittime occasionali di bullismo durante l’infanzia, sono risultati essere soggetti più frequentemente a peggiori condizioni di salute fisica e psicologica all’età di cinquanta anni (aumentato rischio di depressione, disturbi d’ansia e pensieri suicidi).

Come spiegato nell’articolo precedente il bullismo è un termine improprio meglio sarebbe parlare di atti di sadismo. Infatti se fosse solo l’esigenza di protagonismo a motivare l’azione del bullo, nel momento in cui egli si rende conto del dolore recato alla vittima, si fermerebbe. Ma spesso sappiamo che l’atto di bullismo è sadismo vero e proprio in quanto è vedere la paura nell’altro, la sua sofferenza, la sua sottomissione, che viene vissuta come resa incondizionata e assoggettamento, a provocare il piacere: il piacere di infliggere una sofferenza. Ecco che dovremmo cominciare a riflettere sul sadismo ed individuare dove questo atteggiamento e questo modo di vedere e di sentire si manifesta nella cultura come elemento formatore della personalità.

L’essenza psicologica dell’uomo è incontrare l’altro attraverso il dialogo, quello che chiamiamo il principio dialogico. L’essere umano nasce nella relazione (nel grembo materno) ed è guidato da due principi fondamentali: il principio dell’appartenenza ed il principio della comunione. Il primo riguarda l’appartenenza ad un gruppo e lo ritroviamo anche in molti animali (come le formiche, gli elefanti, ecc.), mentre il secondo è prettamente umano e riguarda la ricerca di un’intimità comune, senza la quale stiamo male anche se a volte non ne siamo coscienti. L’appartenenza e la comunione costituiscono gli elementi archetipici dell’amare nella dimensione umana: invece l’aggressività nasce dalla rottura di questa unità dialogica.

Ciò che subisce la vittima quindi non è banalmente “una presa in giro”, ma una violenza che penetra molto più profondamente. Il bullo sceglie come preda chi è più facile da sottomettere, ossia che ha già il sentimento di appartenenza ferito e che quindi è più vulnerabile. L’atto di violenza nei suoi confronti va proprio ad allargare questa ferita. Quindi il vissuto di impotenza e di squalificazione lo porterà a credere a ciò che gli viene detto/fatto vivere dai “sadici bulli”. E questo sentimento di squalificazione può perdurare per tutta la vita.

Oltre alla violenza, che può subire sul piano fisico, c’è quella sul piano psicologico, in quanto viene colpita e lesa l’identità soggettiva. Questo rende particolarmente perversa l’azione dei ragazzi aggressivi. Il rapporto tra carnefice e vittima è sempre un rapporto di sottomissione, dove la vittima alla fin fine sente quasi come giusta l’azione aggressiva nei suoi confronti: è la sottomissione al potere. In questo senso chiamare bullismo questo fenomeno è improprio e riduttivo. Purtroppo la presenza nella nostra società e delle ultime generazioni di forme di questo genere ci dice quanto nelle profondità della psiche siano ancora vive le forme archetipiche dell’uomo primitivo sadico ed aggressivo. Il problema si fa ancora più evidente oggi data la disponibilità di mezzi potenti a cui possono accedere personalità violente.

Alcune vittime sviluppano un atteggiamento depressivo, ma la possibilità di emanciparsi da quella situazione patita, esiste ed è nella natura dell’essere umano. Molti sono gli esempi di persone, anche celebri, che hanno raccontato la propria esperienza di dolore, ma che successivamente si sono riscattate. L’identificazione con l’essere vittima e quindi soggetto squalificato, senza valore, deve emanciparsi attraverso le proprie caratteristiche soggettive le quali vanno trovate e sviluppate. Da una parte l’educatore del bullo/sadico deve accompagnare il soggetto verso forme più evolute di relazione e far comprendere che non esiste solo la forza, ma la capacità di dialogo e che la violenza alla fine non può e non vince. Mentre l’educatore della vittima deve indicare la via verso la forza che quel dolore può generare dentro il suo intimo.

Per i bambini aggressivi occorre un lavoro pedagogico e di formazione che li aiuti ad emanciparsi da quell’idea di aggressività che hanno scelto come maschera per la loro vita di relazione. A questo proposito, possono avere un ruolo preponderante tutti quei video giochi che hanno al centro la violenza.

Un intervento di prevenzione dovrebbe partire proprio dagli elementi culturali che vanno a costituire l’immaginario collettivo, da cui trae ispirazione sia la condotta che l’interpretazione emotiva ed ideica del giovane.

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BY: Irene Barbruni

Bullismo prima parte
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Il bullismo è un fenomeno complesso che riguarda sia dinamiche psicologiche che l’ambiente culturale in cui si muove sia il ragazzo aggressivo che la vittima, ma anche l’interezza del gruppo entro cui nasce un tale negativo e regressivo evento sociale. Questa prima parte è dedicata alla descrizione del fenomeno e delle dinamiche psicologiche principali che accompagnano il bullismo dal punto di vista del cosi detto “bullo”. In un secondo momento esamineremo, invece, gli aspetti psicologici della vittima e degli strumenti preventivi verso tale fenomeno.

Nell’ambito della ricerca dedicata al fenomeno del bullismo, realizzata dall’associazione Villa Sant’Ignazio per conto della Provincia di Trento, più del 50% degli intervistati ha dichiarato di essere stato vittima di episodi di bullismo, risultati più numerosi nella fascia d’età dei 14 anni, e di questi il 33% sono vittime ricorrenti.

Nel “bullo” osserviamo una paralisi delle risonanze intime (perdita di contatto con il proprio mondo interiore), caduta della spontaneità (il soggetto si rifà a modelli esterni e diviene sempre più estrovertito), regressione sociale, disagio e senso di vuoto (il vuoto interiore conseguenza della superficialità etica). Spesso sentiamo dalla cronaca episodi di violenza che non hanno una motivazione specifica, se non come mezzo per combattere la noia. La noia sopraggiunge quando nulla riesce a raggiungere l’intimità della persona. Un concetto a cui Sartre affianca quello di nausea, ossia non solo nulla mi appetisce ma “tutto mi da fastidio”; un altro aspetto che ritroviamo sempre più spesso nell’adolescente.

Quindi il “bullo” si muove dentro questi aspetti psicologici a cui si aggiunge l’aspetto del potere. Il potere è uno dei piaceri più arcaici e in un soggetto che ha le caratteristiche sopra riportate è chiaro che esso diventa un modo per riempire la noia. Senza un’etica l’Io implode su sé stesso come unico orizzonte esistenziale e il piacere del dominio sull’altro non fa che aumentare l’aggressività.

Molti sono gli elementi che possono portare a questo circolo vizioso, a partire da predisposizioni caratteriali ed influenze ambientali (storia personale e culturale). Il piacere, che deriva dall’esperienza del sentirsi dominante sul dominato, diviene centrale soprattutto in una cultura, come quella attuale, che mette la volontà di potenza, cioè la volontà di dominio sulla realtà e quindi sull’altro, al centro delle motivazioni del soggetto. Spesso i video giochi hanno trame a contenuti aggressivi; quindi il soggetto, poco riflessivo e sedotto dal piacere di essere un vincente e dominante, ne subisce il fascino (da ciò l’emulazione). Dominare l’altro è infondo un piacere sadico ed ancor più desiderato quando il “bullo” incontra una vittima designata, cioè un individuo particolarmente introverso, timido e remissivo: possiamo dire che “al bullo piace vincere facile”. La mancanza di risonanza intima non permette all’aggressore di sperimentare il sentimento della pietà, che dovrebbe provare di fronte a chi è in lacrime davanti a lui.

Il mondo interiore, dicevamo, è spento, la personalità si è sviluppata solo verso l’estroversione. Certamente oggi molti sono gli stimoli che sollecitano l’estroversione piuttosto che il contatto con se stessi (all’introversione) e questo non aiuta l’emergere di quella risonanza intima che sarebbe lo specchio sul quale si riflette l’azione negativa e la definisce all’interno di significati etici. Da cui discenderebbe l’esperienza dell’empatia verso l’altro e la conseguente capacità di coglierne il disagio e la sofferenza. Faccio notare che i video giochi non stimolano la riflessione, ma sviluppano la risposta veloce allo stimolo (si vince tanto più si è rapidi). In quel mondo di gioco non è necessaria né la riflessione né l’empatia e tanto meno la pietà, sentimenti altamente evoluti. In altre parole il video gioco stimola la regressione. Ma anche il video gioco è figlio di una cultura che ha posto al centro la volontà di potenza, la forza e il dominio: da ciò il giovane trae ispirazione per le sue azioni e le sue intenzioni. Non è certo solo il mondo dei video giochi che può influire su queste dinamiche perverse, un altro fattore può essere l’uso di sostanze. Ma, al di là di questi fattori che possono certamente aggravare il quadro psicologico descritto, ciò che sempre più spesso si osserva nel mondo dell’adolescenza è la mancanza dell’educazione alla gentilezza, al rispetto verso l’altro e all’esercizio della reciprocità.

Nel prossimo articolo analizzeremo gli aspetti psicologici della vittima e gli strumenti che possono aiutare ad una prevenzione di tale fenomeno.

BY: Irene Barbruni

Bambino e scuola
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Il contatto con la scuola rappresenta il primo vero ingresso nella società dei nostri figli ed inoltre esso costituisce l’unico impegno sociale per il minore. L’età infantile, nella società contemporanea, non trova un suo ruolo sociale, ovvero al bambino non è richiesto nulla; ed è importante evidenziare che l’essere umano non può sentirsi completo senza un ruolo all’interno del proprio gruppo di appartenenza. Ecco che la scuola, essendo luogo di formazione della cultura personale e dell’evoluzione psico-sociale, rappresenta il primo vero impegno civico del bambino, e in tal senso aiuta quest’ultimo al recupero del senso/ruolo che gli è necessario.

Per comprendere la realtà in cui si muovono i nostri figli bisogna considerare la complessità delle ramificazioni relazionali in cui si muovono: rapporto figlio/genitori, bambino/scuola (insegnanti e compagni), nonché il rapporto con la cultura nella quale sono immersi. In modo particolare i mass media oggi sono predominanti nella vita delle persone ed in modo particolare verso e bambini e le loro vulnerabilità. Proprio la permeabilità del bambino ai media può costituire una seria minaccia alla sua integrità, alla percezione stabile di se stesso. Ecco che è fondamentale porre le capacità relazionali al centro dell’azione educativa al fine di facilitare il suo percorso di inserimento sociale. Più il minore si sente parte attiva della società meno sarà vittima delle lusinghe pubblicitarie e culturali devianti. Tenendo conto del vissuto dell’essere padre e madre e le loro differenti aspettative ed ansie, dobbiamo sottolineare che la relazione familiare possiede una grossa potenzialità evolutiva. Ricordando sempre la necessità di sentirsi parte attiva della comunità è bene coinvolgere il minore nella situazioni significative della vita quotidiana.

La relazione è luogo di incontro e crescita e quindi gli stili di comunicazione, gli atteggiamenti e il modo di approccio alla vita emozionale, che si instaura tra bambino e i genitori, potrà essere trasferito nel rapporto che il minore vive con il mondo della scuola. Infatti se l’esperienza scolastica viene collocata sul piano che merita, esperienza attraverso cui il bambino partecipa al buon andamento della società, ciò può rappresentare una tappa fondamentale per il cammino verso la maturità. Cammino che necessità l’esser in grado di affrancarsi dall’attitudine al godimento immediato dei propri bisogni.

Per spiegare meglio questo passaggio ricorriamo ad un accenno alla favola di Hänsel e Gretel e al simbolismo in essa presente. Questa favola classica che tutti noi conosciamo ben rappresenta la situazione storica attuale. Ciò che minacciata nel bambino di oggi è la possibilità di Essere, in quanto la massificazione dei bisogni indotti che lo rendono schiavo della strega, ossia della bisognosità. La scena che vede Hansel e Gretel fermarsi davanti alla casa di marzapane e cominciare a mangiarsela rappresenta la potenza della bisognosità che costringe, irriflessivamente, all’immediata soddisfazione. Questa immediatezza introduce e ferma il bambino in una temporalità che da una parte è chiusa e dall’altra è monca di un divenire, nel senso che tutto deve essere consumato nel qui e ora. Questa immediatezza chiude il tempo e lo amputa della sua caratteristica principale: l’attesa come intuizione e presagio di ciò che incanta perché anelito dell’anima, cioè di ciò che è veramente autentico e profondamente necessario. Aiutare quindi i bambini a ritrovare l’attesa come una situazione ricca di potenzialità, rispetto all’immediatezza irriflessiva, indica loro la strada dell’essere liberi.

La collaborazione tra scuola, genitori e bambino è fondamentale, senza dimenticare quest’ ultimo elemento, che deve essere chiamato ad un ruolo più attivo. Spesso i genitori tendono a voler sgravare dalle incombenze i figli, mentre la scuola è il luogo in cui il bambino è chiamato a doversi impegnare in prima persona per imparare: scuola e genitori non sono e non devono essere in antitesi. E’ proprio attraverso la fatica affrontata nel corso della vita scolastica che il bambino impara ad affrontare la vita in senso più ampio. In questo senso la scuola è proprio “palestra di vita”.

Ulteriori approfondimenti si trovano su www.ultimabooks.it dove si trova la versione e-book del libro“Bambino, genitori, scuola: un triangolo alla ricerca dell’equilibrio”.

BY: Irene Barbruni

Il bambino e il ruolo sociale
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Proviamo a chiederci quale sia oggi il ruolo sociale ed affettivo per il bambino o per l’infanzia. Questa domanda discende da una considerazione di base, una legge generale: ogni essere umano, qualunque età abbia, cerca e ha necessità di vivere un suo ruolo, sia sociale che affettivo. La solitudine diventa disperazione quando l’individuo si sente staccato dalla realtà sociale la quale è composta da relazioni affettive e significative e dall’intreccio di relazioni che vanno a comporre un ruolo assegnando, quindi, un posto nella società. Basti pensare che spesso noi riconosciamo le persone attraverso il lavoro che svolgono, oppure attraverso il ruolo affettivo che vivono. Per esempio diciamo: “Ho incontrato Tizio. Sai il figlio di Caio, che fa il vigile urbano”. Ecco che già in questa conversazione banale, che possiamo generalizzare, vi sono due componenti le quali portano ad identificare il personaggio Tizio: il lavoro che svolge, quindi il ruolo sociale che investe, e l’appartenenza ad una determinata famiglia. Tanti cognomi, molto diffusi nel nostro paese, hanno questa etimologia: i Di Pietro, i Del Piero, ecc… Probabilmente sono nati proprio per indicare l’appartenenza alla famiglio di Pietro o di Piero. Come del resto tanti cognomi che hanno una derivazione dal mondo del lavoro. Pensiamo ad esempio ai Fabbri e l’elenco è lungo. Tutto questo per dire quanto sia incisivo nella vita della singola persona sia il ruolo sociale che il legame affettivo. Ecco allora la domanda di partenza: quale ruolo ha oggi il bambino? E in generale, l’infanzia?

Per infanzia intendiamo quell’arco di tempo cha va dalla nascita fino ai 12-13 anni. L’unico ruolo sociale che si potrebbe individuare è quello dell’impegno scolastico. Ma certo la scuola nasce come necessità non solo individuale, ma anche sociale: più persone istruite ci sono in un paese più quel paese può evolvere. Purtroppo oggi la scuola non è vista né come luogo di emancipazione sociale, né come luogo di evoluzione personale. Sembra più un dovere vuoto di significato. Ecco che il bambino non ha più neanche quel ruolo sociale. L’unico ruolo è quello del consumatore: il bambino è oggetto di interesse delle campagne pubblicitarie che lo inducono ad avere determinati oggetti. Ed è questa continua tensione all’avere che lo rende costantemente inquieto. Ma questa deriva lo conduce sempre nell’esperienza della bisognosità: ha sempre bisogno di qualcosa, qualcosa suggerito e imposto dalla pubblicità. Ma questo non è un ruolo sociale perché non lo rende partecipe di qualcosa di significativo verso gli altri e verso se stesso.

Questo processo lo svuota di significato e lo spinge sempre più all’esercizio del possesso delle cose. Le capacità relazionali e sociali vengono impoverite. L’unica via per ripristinare la normale capacità relazione dotata di sensibilità etica, è ricondurre il bambino ad un ruolo nella famiglia e nella società. Qui il genitore e la scuola possono svolgere un ruolo importante. Infondo in quella fascia di età l’unico luogo che abbia un vero significato sociale è la scuola, oltre ovviamente alla famiglia. Nella scuola impara molte cose, e non solo le conoscenze che vanno dalla letteratura alla storia, alla scienza, che costituiscono il bagaglio attraverso cui leggere la realtà in cui vive, ma da ciò ricava anche gli strumenti intellettivi per esprimere se stesso. Dicevamo non solo apprende tutta una serie di nozioni, ma, nell’esperienza scolastica è chiamato a condividere con altri quel processo. La scuola è, o dovrebbe essere, un luogo di evoluzione relazionale. Al genitore tocca il compito di guidare e supportare il figlio in questo complesso mondo, cercando di aiutarlo a recuperare il senso civico dell’esperienza scolastica.

Poi nella famiglia vi sono tante piccole incombenze che dovrebbero essere demandate e affidate al bambino, in relazione all’età. Mano a mano che cresce dovrebbero crescere anche le sue mansioni nella gestione della casa. “Solo il lavoro nobilita l’uomo” come recita la saggezza popolare: ed è vero perché il lavoro ci mette in relazione significativa con gli altri. Se il bambino non viene coinvolto nel lavoro, sia domestico che scolastico, non potrà godere del senso di dignità soggettiva, il solo che lo aiuta a sentirsi in pace con se stesso e con gli altri.

BY: Irene Barbruni

Sport seconda parte
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Proseguiamo le nostre considerazioni sul mondo dello sport in età giovanile. Consideriamo individuali quegli sport in cui la prestazione è esclusivamente singola e non prevedere relazione significativa con il gruppo squadra. Come abbiamo già accennato durante le considerazioni sugli sport collettivi, l’aspetto agonistico non interessa molto la nostra riflessione che è finalizzata a discutere sulle potenzialità pedagogiche e psicologiche dell’esperienza sportiva. Comunque, come abbiamo detto, ciò che realmente distingue gli sport individuali da quelli di gruppo è la modalità di affrontare l’aspetto agonistico, ossia la responsabilità del risultato che può essere individuale o condiviso da un gruppo di sportivi. Questo aspetto, dal punto di vista psicologico, pone il soggetto in una posizione differente, rispetto agli sport di squadra, in quanto vi è una maggior propensione a contare sulle proprie risorse e ciò comporta una spinta verso una maggior autodisciplina. L’aspetto dell’autodisciplina in un giovane è fondamentale per lo sviluppo delle proprie capacità. Come hanno confermato diversi studi (ad es. quello degli scienziati dell’Università del Montreal pubblicato sugli Annals Journal of Health Promotion) l’attività fisica aumenta la capacità di concentrazione, il livello di attenzione e di autocontrollo e permette di ottenere migliori risultati scolastici.

Ovviamente gli sport individuali possono essere molto differenti tra loro e quindi possiedono potenzialità pedagogiche differenti. Per esempio, gli sport che pongono il soggetto a contatto con la natura (come lo sci, la vela, il nuoto, l’equitazione ecc…) hanno il pregio di mettere in relazione il soggetto con un particolare ambiente. Il contatto con la natura, che sia il mare o la montagna oppure il rapporto con il cavallo, ha molte potenzialità evolutive. Ad esempio il rapporto con il silenzio della montagna, con la forza e la dolcezza dell’acqua, oppure il legame con il cavallo che comprende non solo il contatto con la natura, ma anche con un animale ricco di potenzialità relazionali. L’evento sport in questi casi spalanca davanti al giovane atleta un mondo di possibilità interattive.

Un altro aspetto riguarda il rapporto con il proprio corpo, sia sul controllo che sulla percezione della propria forza e sull’armonia delle forze che anima la dinamica del corpo. Quando abbiamo occasione di percepire la nostra corporeità sana stiamo bene e anche le capacità “mentali” ne traggono giovamento.

Lo sport, quindi, è occasione di crescita al di là del risultato prettamente sportivo. Non va quindi circoscritto alla vittoria della competizione, in quanto questo scopo, se enfatizzato, distorce l’esperienza sportiva a mera e sterile ricerca di protagonismo. Spesso gli sport individuali possono diventare una delle tante occasioni per mostrare se stessi in modo narcisistico. Per esempio, quando è più importare la tuta firmata piuttosto che il paesaggio di cui si gode in una giornata di sci in montagna. La finalità della vittoria è un modo miope e fuorviante di considerare l’esperienza sportiva, che invece come descritto ha enormi potenzialità sia sul piano pedagogico che sul piano dello sviluppo delle capacità psicologiche. E’ fondamentale comprendere che ogni evento si articola in una molteplicità di dimensioni, la maturità consiste nel riuscire ad interagire con quella complessità. Allargare, quindi, la coscienza dell’esperienza è un metodo necessario per aiutare l’evoluzione della personalità.

BY: Irene Barbruni

Sport prima parte
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In generale gli sport si suddividono in due grandi categorie: quelli individuali e quelli di squadra. Tale suddivisione però non è così netta in tutti gli aspetti in quanto anche gli sport individuali possono richiedere relazione tra il singolo atleta e la squadra che lo sostiene. Possiamo dire che ciò che realmente distingue gli sport individuali da quelli di gruppo è l’aspetto agonistico, ossia la responsabilità del punteggio che può essere individuale o condivisa da una squadra. Ma questo aspetto non interessa molto la nostra riflessione, finalizzata a discutere dello sport, non sul piano agonistico, ma sulle potenzialità pedagogiche e psicologiche. A tale scopo considereremo di squadra tutti quegli sport che prevedono un attivo coinvolgimento ed interazioni dirette dei membri del gruppo, mentre definiamo individuali quegli sport in cui la prestazione è esclusivamente individuale e non prevedere relazione significativa con gli altri. Qui di seguito descriveremo gli aspetti relativi agli sport collettivi, mentre la prossima volta analizzeremo meglio gli sport individuali.

Gli sport collettivi necessitano della collaborazione tra i membri del gruppo a tal punto che proprio tale collaborazione diviene determinante; vale a dire che è fondamentale per una buona performance, al di là delle capacità dei singoli soggetti. Queste attività sportive dunque stimolano lo sviluppo delle potenzialità relazionali dei singoli e aiutano la capacità di guardare l’insieme dell’evento, che in questo caso è sportivo, ma in seguito, tale competenza, può trasferirsi sulle situazioni diverse della vita. Per fare un esempio, un giocatore di calcio deve avere in mente il gioco della squadra entro il quale collocare il proprio particolare compito; quindi non può giocare da solo senza pensare ad interagire in modo organico con i compagni. Così come in tante situazioni lavorative che necessitano della capacità di cogliere l’insieme del progetto per potere fornire, in modo appropriato, il proprio contributo. Saper stare in modo significativo dentro un’organizzazione stimola determinate capacità a livello psico-pedagogico: ecco che l’esperienza di uno sport collettivo può andare al di là dell’agonismo. Perché quello che interessa in questo nostro articolo è mettere in evidenza la valutazione degli sport sotto il profilo psico-pedagogico. Quello che possiamo suggerire al genitore è di non fermarsi all’aspetto puramente agonistico, ma di considerare che l’attività sportiva per il giovane deve essere una palestra di vita, cioè aiutarlo a crescere nel carattere e nelle competenze relazionali, che domani lo faciliteranno nei vari ruoli che vivrà nella sua vita. Il genitore stia attento a non farsi prendere dall’icona sbagliata del campione, cioè di volere per il proprio figlio un carriera di successi sportivi. Se questo sarà porrà altri problemi che andranno gestiti, ma non è di questo che qui parliamo. Qui non interessa il “campione”, ma il giovane e la sua crescita equilibrata dove l’evento sport è occasione per un sano divertimento e un modo per maturare il proprio carattere.

BY: Irene Barbruni

Sessualità e adolescenza
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Quando parlarne?

Molti sono i dati statistici e studi sociologici che rivelano, nella società contemporanea, un ingresso sempre più precoce degli adolescenti e direi pre-adolescenti nella sessualità. Un’indagine dell’Osservatorio Nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza, condotta nel 2013 su 1.400 giovani di sette scuole diverse, ha svelato che il 19% degli adolescenti ha rapporti sessuali prima dei 14 anni, una cifra quasi raddoppiata rispetto alle stime dell’anno precedente. Da notare che il 73% dei ragazzi non conosce le principali malattie a trasmissione sessuale e il 33% pensa che l’incidenza di queste malattie sia trascurabile. Questo dato mostra quanto sia vissuta con superficialità l’esperienza sessuale.

Uno studio reso pubblico nel 2001 dallo Alan Guttmacher Institute e curato dalla Dott.ssa Lydia O’Donnell, rivela che esiste una maggiore probabilità, per chi ha iniziato esperienze sessuali in giovanissima età, di avere nella propria vita molti partner sessuali e di tendere a forzare, uno o una partner, ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà; inoltre, di avere rapporti frequenti e assumere alcool e stupefacenti prima o durante l’atto sessuale. Quindi, alla luce di questi dati è importante tenere presente che oggi è necessario anticipare alcune informazioni/riflessioni ai nostri figli tenendo conto anche dei messaggi che arrivano attraverso il mondo dei mass media. A questo riguardo c’è stato uno studio della Dott.ssa Rebecca Collins della RAND Corporation di Santa Monica (California) pubblicato nel settembre 2004 sulla rivista “Pediatrics”, nel quale si dimostrato come la televisione possa influenzare i giovanissimi ad avere rapporti sessuali in età precoce. Assistiamo ad una modificazione dell’emotività relativa alla sessualità, nel senso che i mass media stanno inducendo desideri sessuali in età sempre più precoce. Il risultato finale attesta che il 90% degli adolescenti, che guardano programmi televisivi ad alto contenuto sessuale, ha una probabilità doppia di iniziare precocemente l’attività sessuale rispetto a coloro che guardano la televisione in modo meno assiduo. Un dato tanto più significativo se si pensa che i programmi cosiddetti “a rischio” rispetto all’indagine, non erano solamente quelli che mostravano atti sessuali, ma anche quelli in cui il sesso veniva solo evocato verbalmente. Ciò mostra quanto sia fondamentale che l’adolescente, e ovviamente anche il pre-adolescente, non siano lasciati soli di fronte ai mezzi di comunicazione. Il genitore deve mediare le informazioni e proteggere il giovane dai troppi stimoli e immagini che spesso veicolano una sessualità distorta. Teniamo presente il fatto che oggi le immagini e i contenuti sessuali sono facilmente reperibili attraverso internet.

Come parlarne?

Forniamo qui alcune riflessioni che possono aiutare il genitore ad orientarsi per contestualizzare alcune informazioni da trasmettere ai propri figli.
In generale, la sessualità può essere vissuta ed interpretata in due modi diversi e contrapposti: da una parte come ricerca di piacere e dall’altra come componente del più ampio e complesso evento della relazione affettiva alla ricerca di intimità tra un uomo e una donna. E’ chiaro come nell’immagine proposta dai mass media è il primo modo ad essere rappresentato e sottolineato, che così va a costituire l’insieme dell’immaginario collettivo che guida i comportamenti. Il pericolo insito nel vivere la sessualità solo come ricerca del piacere, consiste nel fatto che è proprio la ricerca del piacere a dominare la situazione e, quindi, una donna vale l’altra così come un uomo vale l’altro, poiché “basta che mi dia piacere”. In questa situazione relazionale, l’intercambiabilità del referente, spinge verso relazioni impersonali e al fine inautentiche, superficiali. Lo sviluppo dell’intimità nell’intreccio dell’affettività, invece, spinge alla ricerca di quell’uno che più è intimo al soggetto.

Nella società odierna la sessualità viene spesso estrapolata dal grande tema umano dell’amore. Per “amore” si intende quell’affinità reciproca che ricerchiamo in un “compagno d’anima”: quell’affinità elettiva e quella intima cognizione per cui sentiamo che l’altro comprende il nostro intendimento e l’anelito ad esprimere noi stessi. Infatti, si può affermare che l’essere umano non ha bisogni sessuali, ma bisogni psicologici. Ecco perché un soggetto non può sentirsi appagato vivendo solo la sessualità come soddisfacimento di un piacere fisico. Infatti, un individuo, nel rapporto con l’altro, ricerca il soddisfacimento del bisogno di appartenenza, del bisogno di esprimersi e di essere se stesso. Quindi fornire elementi per affinare la capacità di valutare lo stato dei nostri bisogni diviene fondamentale.

La sessualità estrapolata dall’aspetto relazionale annoia subito, perché l’emozione corporea provoca un piacere immediato, ma di breve durata. Spesso nei film vediamo che due persone che si incontrano, prima hanno un rapporto sessuale e poi si conoscono e si parlano. Questa inversione è anch’essa una distorsione. Nelle favole e nei sogni il bacio sulle labbra è il simbolo del trasferimento dello spirito da un soggetto all’altro, ossia dell’intimità psicologica che viene prima di quella fisica. Ma il bacio avviene dopo un lungo cammino attraverso varie situazioni problematiche: simbolo, questo, della difficoltà dell’incontro. Parlare di sé all’altro non è facile perché bisogna scontrarsi con la difficoltà di entrare in contatto con il mondo interiore dell’altro, ma prima ancora con il nostro mondo interiore. Tanto più un giovane non sa entrare in rapporto con se stesso e tanto più è privo delle necessarie capacità per vivere a affrontare la sfera della sessualità. Nella favola della bella addormentata il principe deve superare un bosco fitto di piante e un drago prima di riuscire a baciare la sua amata. Questa immagine simboleggia proprio l’incontro d’amore, come percorso all’interno del quale si svolge e si realizza la nostra evoluzione, sia sul piano personale che sul piano relazionale. Ed è un’evoluzione che passa attraverso il ridimensionamento della pura istintualità. Contestualizzare la sessualità all’interno delle dinamiche e degli aneliti relazionali è la bussola che ci guida verso una visione più matura, più evoluta e quindi più umana, dell’evento sessualità. In quanto, ribadiamo, il vero pericolo consiste nello svincolare la sessualità dalle esigenza relazionali.

BY: Irene Barbruni

Riflessioni sul mondo dei videogiochi
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Negli ultimi anni si è osservato un incremento dell’utilizzo del videogioco sia per quanto riguarda il numero di individui che li utilizza abitualmente, sia per quanto riguarda il numero di ore passate a giocare davanti al video. Il fenomeno tende ad essere uniforme sia per quanto riguarda il sesso (i maschi sono leggermente più numerosi) sia per quanto riguarda la situazione economica e culturale delle famiglie. Attualmente bambini e adolescenti “scelgono” di trascorrere molto del proprio tempo libero davanti ai videogiochi togliendo tempo ad altre attività come lo sport e i giochi “classici”.

Dal punto di vista della salute psicologica dobbiamo riflettere su due fattori principali. Innanzitutto va considerato l’aspetto della solitudine: spesso il videogioco è un passatempo in cui l’individuo è in solitudine o gioca virtualmente con altri individui. In un momento della vita (infanzia ed adolescenza) in cui la personalità necessita di esperienze sociali per crescere, il contatto reale con gli altri deve necessariamente essere preponderante per permettere un armonico sviluppo delle capacità relazionali dell’individuo. La tendenza a preferire l’immersione nel mondo virtuale che offre il pc può sfociare nella chiusa totale, come nel caso dei così detti “hikikomori” o “eremiti sociali”: il fenomeno degli adolescenti che si chiudono in casa davanti ad un computer rifiutando la scuola e i contatti sociali in generale. Quindi, per sintetizzare, il pericolo consiste nell’abbassamento delle capacità e delle motivazioni relazionali.

Il secondo aspetto riguarda il fatto che l’utilizzo dei videogiochi porta il soggetto a sperimentare l’immediatezza del fattore emotivo; quindi sviluppa un ampliamento dell’emotività che porta necessariamente alla diminuzione delle capacità affettive. Se nei confronti degli oggetti utilizzati per giocare il bambino conservava una sua dominanza, e su essi sviluppava una serie di fantasie, il videogioco possiede una tale potenza persuasiva ed invasiva, da ammutolire il bambino. Il bambino non agisce sul videogioco, ma è il videogioco che agisce su di lui. Nelle immagini fornite dal videogioco, il bambino non può aggiungere nulla, non può che esserne dominato. Quindi è il gioco che domina il bambino, il quale ne diviene dipendente.

Troppo tempo trascorso davanti al videogioco porta allo sganciamento dalla relazione significativa. Infatti ciò che il bambino sperimenta è la ricerca delle emozioni, tra le quali la tensione e la paura con la conseguente scarica di adrenalina Quindi la paura è scissa da un vero oggetto, in quanto vissuta come il tramite emotivo che suscita il godimento adrenalinico; è separata quindi dal contenuto ideico (significato) a cui l’emozione dovrebbe rimandare. Un accenno particolare va agli effetti negativi dei giochi con scenari particolarmente cruenti ed aggressivi. Uno studio dell’Università di Indianapolis ha dimostrato, attraverso l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale, che bastano 10 ore di videogiochi violenti nell’arco di una settimana, per ridurre l’attività delle aree cerebrali che tengono sotto controllo i comportamenti aggressivi. Un altro studio delle Università di Amsterdam e di New York pubblicato su Science ha scoperto che i video violenti portano ad una riconfigurazione della tipologia neuronale: ossia aumentano i neuroni più adatti ad affrontare situazioni di attacco o fuga (come nella vita reale può accadere ad esempio in guerra).

Un altro studio condotto su quattordicenni da ricercatori belgi, canadesi, francesi, inglesi, irlandesi e tedeschi pubblicato su Translational Psychiatry, ha dimostrato che nel cervello dei giocatori assidui il cosiddetto striato appare più spesso a sinistra e si attiva maggiormente in caso di perdita, un fenomeno che si osserva anche in chi fa uso di cocaina, anfetamine o alcol. Ciò sarebbe legato ad alterazioni della dopamina, il neurotrasmettitore del piacere, tant’è che i ricercatori ipotizzano una sorta di assuefazione da videogiochi per saturazione dei meccanismi di gratificazione e di compenso.
Per concludere si può affermare che il videogioco non è un evento innocuo, per cui è necessario un uso cauto tenendo conto proprio della potenzialità seduttiva che lo caratterizza.

BY: Irene Barbruni

L’adolescenza
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Per parafrasare Pirandello possiamo dire che l’adolescente è un personaggio in cerca d’autore, nel senso che non riesce a trovare il senso della propria esperienza, della propria stagione esistenziale. L’adolescenza è una stagione di attesa della maturità, quindi un preludio, ma viene vissuta come la stagione per eccellenza, come se la vita chiamasse in quel periodo ad esprimere il meglio di sé; da qui nasce quel senso di tragedia di fronte alle frustrazioni. L’adolescente non sa chi è, spesso in questa ricerca modifica e cambia gli atteggiamenti e le scelte percependo se stesso confuso e instabile: citiamo ancora Pirandello del Uno, nessuno e centomila. Dobbiamo tenere ben presente questo aspetto di quell’esperienza, e sottolineo esperienza esistenziale, in quanto proprio in quegli anni si possono sviluppare le tendenze che nella maturità arriveranno a compimento. Purtroppo nella società contemporanea il tempo dell’attesa, di godere dopo del frutto del proprio impegno, è oscurato dall’esigenza del vivere il qui e ora, l’attimo fuggente, che tronca la temporalità del divenire. Quindi, tutta l’esperienza è consumata nel qui e ora. Questo implodere nel tempo presente causa l’interruzione dello slancio vitale verso il futuro, da qui un profondo vissuto di inautenticità che può condurre all’uso di sostanze. Perché l’esperienza dell’inautenticità è dolorosa ed alienante.

L’equivoco dello scontro generazionale: natura di una relazione tradita

Questa visione della tematica relazionale come scontro tra generazioni è un concetto mutuato dagli anni cinquanta e sessanta, dove vigeva una realtà diversa da quella attuale. In quel contesto socio-culturale il giovane viveva sotto la predominanza di un’autorità che si imponeva su di lui: da qui le lotte politiche e di rivendicazione sociale. Oggi l’autorità non ha più quegli aspetti: il giovane gode di molta più libertà, spesso tuttavia non sa come usarla. Nell’attuale situazione socio-culturale, il principio di autorità è meno opprimente, alle volte assente; quindi il disagio generazionale non si manifesta come conflitto (cioè come contrasto e lotta tra idee diverse), quanto piuttosto come scontro sterile per mancanza di progettualità, sia da parte del giovane che da parte del genitore. Il giovane spesso giunge ad una falsa autonomia, nel senso che interpreta la sua libertà di movimento come autonomia. Ma la vera autonomia si raggiunge con l’indipendenza economica a cui difficilmente il giovane giunge, e spesso neanche cerca. Questo è frutto di una società prevalentemente declinata sull’edonismo: la società dei consumi non può che essere edonista, perché il consumismo spinge ad un uso veloce dei prodotti che si acquistano e ciò ne rende superficiale l’utilizzo. Quindi è più una corsa al superfluo che al necessario. (Chi volesse approfondire la questione veda gli studi di Z.Bauman). Questo sistema economico sviluppa un codice di valori confuso. Dato che l’adolescenza è un’esperienza, come sopra si diceva, attraverso la quale l’individuo cerca una propria identità stabile, in un tale constato “liquido”, il giovane stenta a definire se stesso, a conoscersi a fondo. Da ciò molte delle ansie e delle angosce di quella stagione della vita. Tuttavia l’adolescenza è una situazione esistenziale potente e ricca di possibilità. Se il giovane saprà indirizzare convenientemente la potente energia che lo traversa, saprà evolvere verso una maturità piena. Altrimenti rimarrà invischiato in varie forme di dipendenza. Infatti la giovinezza più che di conoscenze è desiderosa di esperienze e questo rende vulnerabili.

Considerando le riflessioni riportate, tenendo conto ovviamente delle differenze individuali, è importante saper leggere i comportamenti degli adolescenti alla luce dell’epoca esistenziale e delle problematiche individuali al fine di comprenderne il pieno significato. Il dialogo che il genitore o l’educatore instaura, dovrebbe tendere ad un ampliamento dell’orizzonte esistenziale del giovane e ad una tipologia di relazione basata sulla reciprocità. Se il figlio, infatti, è identificato nel ruolo di sola richiesta, è spinto al continuo uso e dominio dell’altro. Diversamente se viene sollecitata la sua capacità solidale sarà chiamato ad una maggiore realizzazione di sé attraverso un ruolo sociale più adulto. Anche il genitore non deve percepire la propria relazione con il figlio nell’immediatezza, ma in una prospettiva di più ampio respiro nel tempo.

In alcuni casi può essere d’aiuto una consulenza specialistica per far fronte a problematiche che necessitano di un supporto psicologico rivolto ai genitori o direttamente al giovane. Tanti giovani non riescono ad esprimere il loro vissuto interiore, ecco che l’incontro con lo psicologo può aiutare a ritrovare il contatto con le parti più significative di sé.

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