BY: Irene Barbruni

Il rapporto con il cibo: aspetti simbolici
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L’atto di nutrirsi, nell’ambito umano, assume caratteristiche complesse. Infatti, l’uomo quando si nutre soddisfa esigenze profonde che vanno al di là della semplice introduzione di sostanze nel corpo. In tutte le culture possiamo individuare una serie di dimensioni culturali e simboliche, fondamentali per comprendere i significati consci ed inconsci dei nostri comportamenti alimentari.
Fin dai tempi antichi l’uomo è andato oltre all’aspetto puramente biologico del momento nutritivo, fornedo un significato sociale ma anche religioso (tanti sono i riti religiosi che comprendono l’offerta di cibo). Infatti l’essere umano ha messo il cibo su un tavolo elevandolo dalla terra e ha riunito attorno ad esso i membri del gruppo.
Le abitudini alimentari sono cambiate parzialmente nel tempo. L’aspetto dell’incontro con l’altro e l’offerta di cibo rimane molto presente anche oggi. I pranzi e le cene diventano occasione di incontro, ma anche quando arriva un ospite inaspettato abbiamo l’abitudine di offrire da bere o da mangiare. Ma non vi è solo l’aspetto sociale; spesso ci fermiamo durante la giornata intervallando i pasti principali con spuntini frequentemente dolci o comunque appetitosi. Il gusto e l’olfatto sono sensi arcaici strettamente legati, sia anatomicamente che fisiologicamente, alle nostre percezioni e alla nostra memoria. Assaporare o annusare un certo cibo spesso ci richiama direttamente ad uno stato emotivo collegato ad un ricordo. Il profuno della “sardenaira” della nonna, ad esempio, ci riporta alle emozioni e ai vissuti della nostra infanzia. Quindi un atto, che sembra così strettamente legato al corpo, in realtà possiede un legame fortissimo con gli aspetti della nostra psiche.
Fin dai primi giorni di vita il bambino associa il nutrirsi, ossia il momento in cui sperimenta la sazietà, al sentirsi amato e al sicuro. Questa associazione, se pur meno frequente, rimane nella vita adulta, nel momento in cui alcuni bisogni di cibo non rientarno in un bisogno di nutrimento del corpo, ma dal bisogno di una stimolazione piacevole. Purtroppo oggi abbiamo perso quell’equilibrio e quella naturalezza che nell’uomo primitivo era presente. Quindi assistiamo a fenomeni che vanno da diete rigorose, che assumono caratteristiche di espiazione, alla valenza autodistruttiva e squalificante (sia per il cibo che per la persona) dell’abbuffata. Al di là dei problemi alimentari assistiamo in generale a disagi nel rapporto con il cibo, percepito infine come un nemico vero e proprio. Spesso si mangia per tristezza, per noia e il cibo si carica di valenze compensatorie e purtroppo non è la strada giusta per risolvere nessuno dei nostri problemi. Anzi quando il nutrimento alimentare si sostituisce a quello affettivo, prepariamo il terreno per i disturbi alimentari, condannandoci ad una perpetua frustrazione dei bisogni più profondi e duraturi della persona. Il cibo è certamente legato ad un senso di piacere, ma è un piacere superficiale, come il divertimento o il possedere oggetti.
Per ritrovare quella naturalità persa nel rapporto con il cibo, è fondamentale emanciparsi dalla esclusiva associazione cibo/piacere e introdurre buone abitudini che ci conducono verso un nutrimento più completo. Per fare un esempio: se il medico mi consiglia caldamente di non consumare un determinato tipo di cibo, che però mi piace molto, nel momento in cui riesco a mettere in atto questa rinuncia riuscirò ad emanciparmi dalla dipendenza da un certo gusto e parallelamente acquisterò maggior equilibrio con la naturalità del cibo che deve nutrire e non fare ammalare.
Porre il piacere a fondamento della vita è tuttavia la condizione dell’età contemporanea. Siamo costantemente sollecitati dalle compagne pubblicitarie, che cercano di farci comprare di tutto, un tutto che viene ammantato dall’illusione che, attraverso di esso, raggiungeremo la felicità. Cedendo a questa seduzione siamo preda dell’incantesimo che ci trasforma in animale come ammoniscono le favole: si veda Hansel e Grettel, oppure Ulisse nell’isola della maga Circe, che trasforma i suoi marinai in porci. Il fatto di diventare animali non è solo una metafora, perché infondo è quello che pensiamo di essere in questa cultura, dove gli esseri umani considerano di essere mossi prevalentemente da bisogni fisiologici dimenticando i bisogni accrescitivi (come li chiama Maslow) i quali comprendono piaceri più elevati che ci conducono verso la finalità della nostra vita, ossia la nostra realizzazione piena.

BY: Irene Barbruni

La violenza sulle donne
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Il fenomeno della violenza di genere è difficile da misurare, in quanto essa si consuma, nella maggior parte dei casi, all’interno delle mura domestiche. I dati quindi che abbiamo sono presumibilmente sottostimati. Negli ultimi anni i mass media si sono sempre più occupati del fenomeno coniando il termine femminicidio. In Italia ogni anno muoiono decine di donne vittime, nella maggior parte dei casi, del partner o dell’ex partner. Nei primi otto mesi del 2018 i dati parlano di 8414 casi di stalking e, mentre diminuiscono gli omicidi degli uomini, quelli delle donne sono fermi.
L’art. 1 della dichiarazione Onu sull’eliminazione della violenza contro le donne così lo definisce: “É violenza contro le donne ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà”.
Il fenomeno è globale e sicuramente ci sono paesi nei quali esso assume caratteristiche diverse dai paesi occidentali. Vista la vastità del tema mi concentrerò sulle dinamiche psicologiche considerando la manifestazione del fenomeno nei paesi occidentali, dove esso è diventata un’emergenza, probabilmente perché episodi intrisi di una tale brutalità diventano difficilmente comprensibili a fronte di un certo livello di progresso, che dovrebbe aver determinato una maggiore sensibilità. Si pensi, ad esempio, ai progressi della sanità (il rischio di mortalità durante il parto è pari ad una probabilità su 39 per una madre africana, rispetto a 1 ogni 4.700 per una donna europea o nord-americana) e alla legislazione che ha fatto molti passi avanti per la parità uomo/donna (anche se la legge del diritto di famiglia, che stabilisce l’uguaglianza tra i coniugi, è del 1975 quindi relativamente recente). Come mai nonostante il progresso sociale, scientifico ed economico, esiste ancora un fenomeno che vede uomini che hanno atteggiamenti violenti verso la propria partner fino addirittura a toglierle la vita? Il fenomeno è trasversale e colpisce anche famiglie economicamente e culturalmente avvantaggiate. Dato che è il maschio che agisce con violenza sulla donna ed è più raro il contrario, il problema risiede nel maschio. Dobbiamo chiederci che tipo di maschile è presente oggi?
Interessante è il nuovo spot, di una nota marca di prodotti per l’igiene personale, che ben semplifica e descrive le radici profonde di un’educazione ed impronta culturale che riversa sul maschile un modello legato alla forza fisica e alla virilità, connesso al tema del dominio sull’altro. Spot che ha subìto critiche in quanto “mina la virilità dell’uomo”. Quindi l’idea di uomo che oggi domina è ancora quella che aderisce ad un modello maschile tutta azione (agressiva), niente sentimento e quindi orientato all’agito emotivo, alla prevaricazione ed al pensarsi invulnerabile. Un uomo, quindi, che non sviluppando fin da piccolo le capacità che lo mettono in contatto con il mondo dei sentimenti, non saprà gestire il mondo delle proprie relazioni e soprattutto non avrà gli strumenti intellettivi ed empatici per comprendere il mondo femminile.
Stando ai dati statistici, il movente “passionale o del possesso” continua ad essere il più frequente. Quando la donna decide di interrompere un legame, l’uomo è incapace di accettare la realtà e utilizza la violenza. Il tema dell’amore, come spiega Jung, è accompagnato dal tema del potere. In una relazione d’amore i soggetti coinvolti sentono che inevitabilmente hanno potere sull’altro. Quindi se immaginiamo l’amore e il potere come punti estremi di una linea, possiamo vedere come se ci avviciniamo al potere ci allontaniamo dall’amore. Ecco che un uomo che sente di avere potere sulla donna che lo ama, la trasforma automaticamente in un oggetto di dominio e possesso.
Nella storia l’uomo si è identificato in un’idea di virilità che ben rappresenta il così detto maschio alfa ossia l’uomo che domina. Parallelamente molte donne sono spesso più attratte da questo tipo di uomo e scambiano la spavalderia con la forza interiore e la capacità d’amare. Anche il femminile spesso risulta schiacciato in una visione di donna che pensa ancora inconsciamente di aver bisogno di essere dominata da un uomo. Tutto ciò deriva dal fatto che la società odierna è ancora immersa in una cultura maschilista; gli studi sociologici ben descrivono la società androcratica (in modo particolare ne parla la sociologa statunitense Riane Eisler).
La lunga strada da percorrere, quindi, nasce dall’educazione delle nuove generazioni. Bambini che devono essere educati al sentimento e non essere etichettati “femminucce” se imparano a gestire i conflitti con la parola e la mediazione e non attraverso la forza fisica. Di contro anche le bambine dovrebbero presto imparare a coltivare una maggior consapevolezza della forza della pazienza e dei sentimenti tipici del mondo femminile.
Purtroppo molto subdolamente ancora oggi quello che viene spacciato per qualcosa di nuovo, dopo un’attenta analisi, non è quasi mai così. Ne è un esempio la trasformazione “moderna” della favola di Biancaneve in un film del 2012, in cui Biancaneve si trasforma in un’amazzone sviluppando gli aspetti maschili dell’aggressività e della vendetta. Viene tolta quindi quella capacità di superare gli elementi distruttivi, presenti nella personalità, attraverso una catarsi evolutiva tipicamente femminile presente nella fiaba originale rappresentata dal simbolismo dei sette nanni (il sette simbolo di integrazione interiore). Chiaramente viene scelta una modalità maschile togliendo e, quindi svalutando, una modalità femminile. Questo esempio per comprendere che, l’immaginario collettivo dell’uomo contemporaneo, spesso non aiuta a raggiungere un livello di coscienza più alto. Consapevoli di questo è bene filtrare ciò che arriva ai bambini, sottoforma di giochi ed immagini, cercando di evitare tutto ciò che spinge verso gli aspetti regressivi e aggressivi della personalità a dispetto di ciò che fa evolvere.
La convenzione di Istanbul, all’art. 14, prevede l’introduzione nelle scuole dell’educazione all’affettività per passare quindi dall’educazione sessuale a quella più complessa, ma più autentica ed evoluta, che riguarda la vita dei sentimenti. Solo se la sessualità è reintrodotta all’interno del sentimento può diventare autentica ed arricchire la relazione. Ma anche qui l’impronta maschilista si rende visibile, in quanto proprio nella visione maschilista la sessualità è sganciata dai sentimenti. Altrimenti non capiremmo il fenomeno culturale della prostituzione: la donna pagata ad uso e consumo del maschio. In famiglia è importante affrontare presto il tema della prevaricazione della forza maschile e cogliere le occasioni, che la vita quotidiana offre, per riflettere con i nostri figli su tematiche come violenza, giustizia, pazienza, diversità e rispetto.

BY: Irene Barbruni

Le paure che condizionano la vita
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La paura è un’emozione primaria che si manifesta con un senso di insicurezza e di smarrimento. Essa può essere una risposta sia ad un pericolo reale che immaginario ed assume diversa intensità a seconda delle situazioni.

La paura, sotto forma di ansia, è uno stato che tutti noi abbiamo sperimentato e che spesso viene percepita come “negativa”, in quanto viverla comporta vissuti spiacevoli. In realtà, se pensiamo banalmente alla paura che ci fa scappare da un pericolo, essa ha una funzione molto vicino alla preservazione della vita. Ciò che più spesso proviamo è un’ansia legata a qualcosa che non è visibile ai nostri occhi e alla nostra coscienza.

Paure ed ansie, che tutti noi abbiamo provato e proviamo, che condizionano la nostra vita: sia quando diventano “motore” verso la nostra evoluzione, sia quando al contrario si trasformano in un freno. Per fare un esempio banale, la paura di essere bocciato permette ad uno studente di prepararsi per un esame. La stessa paura, però, in altro individuo può tradursi in un motivo per rinunciare ad un progetto di studio, anche in modo non consapevole, ossia dicendo a se stessi “tanto in fondo non serve a nulla”. Questo esempio ci introduce verso ciò che oggi si osserva in tanti individui: la paura del futuro che porta molti soggetti a rimanere implosi nel presente.

Quindi, paure che condizionano la vita, ossia che non permettono all’individuo di evolvere verso la realizzazione piena di se stesso. Ciò che permette di trasformare l’ansia in un motore di crescita è l’idealità (cioè riferirsi ad un ideale di vita) nella quale si trova il motivo forte che ci aiuta a contenere le paure per superare le sfide del domani. La reazione di fuga porta invece all’implosione nel presente.

Come si affrontano tali paure? Il sintomo (la paura) non va tolto perché, come si è detto, in esso spesso c’è la chiave per una svolta della vita, ma si deve recuperarne il senso. Ossia recuperare il senso del nostro agire, che vuole dire recuperare l’idealità; il progetto che ci aiuta a reggere il peso del senso di smarrimento che accompagna molti periodi della vita, che coincidono spesso con momenti fondamentali per la piena realizzazione di sé.

Non dobbiamo quindi fermarci ad analizzare il motivo della paura, dobbiamo procedere a cercare il motivo della nostra azione/intenzione; solo così troviamo in noi stessi la forza che la paura sembra dirci mancante. Trovare in noi la forza è proprio il contrario di ciò che molto spesso molte gente fa: cercare in una sostanza chimica la medicina per anestetizzare la paura. Il ritorno alla realtà interiore, analizzando i motivi profondi di una scelta, ci fornisce gli strumenti psicologici ed esistenziali per traversare la zona d’ombra posta davanti al nostro divenire.

BY: Renato Barbruni

Taoismo
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Da “I CHING – Il Libro dei mutamenti”
Esagramma. 25. Wu Wang – L’innocenza

Sopra il creativo, il cielo
Sotto l’eccitante, il tuono

La sentenza:
L’innocenza. Sublime riuscita.
Propizia è perseveranza.
Se qualcuno non è retto ha disgrazia,
e non è propizio imprendere qualche cosa.

Il recupero della propria integrità interiore prima della grande impresa: tema di molte favole, leggende, e preambolo a grandi gesta.

L’immagine:
Sotto il cielo passa il tuono:
tutte le cose acquistano lo stato naturale dell’innocenza.
Così gli antichi re curavano e nutrivano,
ricchi di virtù e in armonia con il tempo, tutti gli esseri.

• La ricerca della propria armonia interiore;
• armonizzare cioè la nostra vita esteriore con la vita interiore;
• l’autenticità perduta;
• la sintonia tra le varie parti che compongono la nostra personalità.

Una delle immagine e delle nozioni più belle che l’uomo, nella sua storia, abbia intuito ed elaborato. Il tema dell’innocenza è fondamentale per tante culture. Nel taoismo l’innocenza è definita come armonia, sintonia tra l’individuo nella sua trame esistenziale e la natura che gli scorre nell’anima. Rappresenta il congiungimento con la parte più profonda ed autentiche dell’anima. E’ il rinnovamento della connessione con le forze spirituali e cosmiche.
Già nella cultura occidentale, nell’ebraismo troviamo una nozione simile, in quanto l’innocenza, nel vecchio testamento, rappresenta la condizione che precede il peccato, il momento in cui l’uomo si è allontanato da Dio eludendo la Sua raccomandazione di non mangiare dall’albero del bene e del male. L’acquisizione da parte dell’uomo della consapevolezza della presenza di un “bene e di un male”, che lo fa uscire dell’Eden ( dall’innocenza e dalla purezza), produce la nascita della coscienza duale, la coscienza che ancora oggi noi usiamo per sperimentare ed interpretare la nostra esistenza. Lo scontro e il conflitto con le forze che noi pensiamo come bene e male ci colloca dentro una visione del mondo matura perché scevra dell’illusione primordiale di una realtà assolutamente buona. Se però, questo dato di conoscenza ci percuote staccandoci dall’innocenza primordiale, esso arriva a lacerare la nostra anima aprendoci alla sofferenza dell’esistere, e proiettandoci in uno sfondo ove la possibilità della disperazione e quindi della morte spirituale, ci palesa sempre immagini devastanti che ci spingono a perdere la fede nella nostra esistenza: siamo quindi corrotti nel nostro intimo, nell’anima, nella radice del nostro essere, là dove trae linfa vitale la nostra esistenza.
La visione giudaica quindi, sviluppa una trama altamente drammatica che sfiora sempre la tragedia, cioè la totale disfatta dell’essere umano. Il peccato sarà superato, quindi sarà possibile ricuperare l’Innocenza perduta, attraverso il calvario della sofferenza, che si instaura attraverso il sacrificio estremo. Il sangue versato come un unguento miracoloso ricucirà la ferita nell’anima. E’ questo il senso del sangue di Cristo versato in remissione dei peccati.
La visione Taoista penetra la realtà al di là della coscienza duale e scorge il substrato che sostanzia l’essere. Non c’è peccato né colpa, l’innocenza è perduta a causa dell’illusoria visione dicotomica della coscienza, una visione che scaturisce dalla necessità ingenua di dare un ordine riconoscibile al mondo. Ciò che la coscienza percepisce dell’essere, la natura Ying e Yang come due forze in antitesi, è tale proprio per la struttura della coscienza che non riesce ad andare al di là di una conoscenza duale, antitetica. L’ordine che la coscienza stabilizza, e che erroneamente crede di vedere come realtà oggettiva, altro da sé, in effetti è una metafora della propria struttura e della propria natura. In effetti dato che la coscienza come tale nasce da un momento di distacco dall’oggetto essa porta dentro di sé tale momento che permea la sua sostanza. Quello che è dunque visto come dicotomia della realtà di cui ha coscienza, altro non è che l’eco della scissione da cui ha avuto origine la coscienza stessa.
Da questa diversa visione è estraneo il senso del dramma, poiché la scissione tra la coscienza e l’essere nella sua totalità non è avvenuto per una infrazione, ma per una fisiologica necessità conoscitiva.
L’innocenza quindi non è perduta, ma sospesa. Per ripristinarla è necessario innanzitutto conoscere il modo di conoscere, analizzare quindi la modalità del processo di conoscenza, ciò ci permetterà di uscire dalla dicotomia che ci traversa. Solo così è possibile ritrovare il nesso tra l’uomo e il tutto. Il Tao significa propria questo: trovare il senso giusto, quel senso che ci riconnette con la totalità dell’essere. L’innocenza è quindi la ricomposizione tra la trama della vita singolare e la trama dell’esistenza totale. Per fare un esempio possiamo citare quello che fa il contadino che seminana nella giusta stagione, egli sa quale è il momento in cui porre il seme, in quella particolare stagione egli connette il seme con le forze cosmiche che aiuteranno il piccolo seme nel suo divenire. Questa è la sapienza del Tao, capire quella connessione. Se il contadino seminasse in una stagione diversa il seme non crescerebbe. Per fare un altro esempio si può citare la prassi di vita di tanti giovani che sono spinti dalla cultura dominante a fare esperienza sessuali e emotive fuori tempo causando molti problemi di equilibrio psicoemotivo: essi hanno così perso l’innocenza, nel senso che fanno qualcosa che non è in sintonia col loro mondo vero, con la loro necessità autentica, sono diacronici con la loro anima. Ma non hanno perso l’innocenza in quanto hanno infranto una legge che impedisce loro di vivere la sessualità, piuttosto hanno infranto l’armonia tra la loro anima e la prassi del loro esistere (nel senso che a quel punto della loro vita non vi è la necessità evolutiva della sessualità), in ciò sta la perdita dell’innocenza. Ecco in questo passaggio è definita la differenza tra la visione giudaica dell’innocenza connessa al peccato e la visione taoista. La prima è più normativa la secondo più ontologica legata alle conseguenza sul piano profondo.

BY: Renato Barbruni

Buddhismo
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Il Karma in una prospettiva psicoanalitica

Da “La storia di Muktika, figlia del re di Simhala, e il ritratto del Buddha”, riporto un breve passaggio

Il Beato rispose: “Le azioni compiute e accumulate da Maktika, o monaci, i requisiti da lei ottenuti, le condizioni da lei maturate, riguardano le azioni compiute e accumulate solo da Maktika e da nessun altro e continueranno ad esistere, inevitabilmente, come il flusso di un torrente. Quale altre persona, al di fuori di Maktika, potrà mai averne esperienza? O monaci, le azioni fatte e accumulate non mutarono al di fuori di noi, nella terra, nell’acqua, nel fuoco o nel vento, ma esse, pure o impure che siano, maturano negli aggregati, negli elementi e nelle basi appropriate.
Gli atti non svaniscono mai, neanche in centinaia di eoni cosmici: quando raggiungono la giusta combinazione delle condizioni e il momento favorevole, essi sicuramente fruttificano per le creature.”

In questa spiegazione degli effetti del karma (azione) vi è l’invito a riflettere sull’importanza di compiere azioni meritorie. Il brano vuol dire che ogni azione che noi compiamo non è mai finita nell’istante in cui si esaurisce, ma ha una sua coda, lascia una scia nel tempo. Essa è come un seme gettato nella terra. Occorrerà del tempo, anche molto tempo, ma è certo che quando le condizioni saranno favorevoli, quell’azione addormentata, si risveglierà provocando i suoi effetti su di noi. Questa dinamica risulta più comprensibile se la collochiamo all’interno della visione orientale della reincarnazione. In tal senso le azioni che compiamo in questa vita trovano la loro attuazione ( il loro effetto) anche nella successiva vita tenendoci legati al ciclo delle esistenze: un ciclo che perdurerà fino a quando non avremmo pagato il nostro debito karmico, cioè fino a che non avremmo sciolto quelle strutture della nostra personalità che fomentano le azioni che ci imprigionano. Questa spiegazione del karma si sposa molto bene con la teoria junghiana degli archetipi e dell’ombra.
Il pensieri junghiano sviluppa la visione secondo la quale la psiche è organizzati in archetipi. Ciò vuol dire che la psiche, che è energia, non è data in noi senza forma, in modo informale, essa, non solo ha una sua forma (cangiante nel tempo) ma è una organizzazione di unità informatiche. Ciò vuol dire che l’energia psichica si dà in diverse forme le quali la strutturano: gli archetipi, i quali sono organizzati tra loro in modo funzionale e dialettico.

Semplificando possiamo dire che nell’organizzazione della psiche in archetipi, si riconosce la presenza di numerose forme archetipiche. Tra esse, per ragioni espositive, ne elenchiamo otto:

l’archetipi dell’orfano, l’archetipo del viandante, l’archetipo del guerriero, l’archetipo del mago, l’archetipo della vittima, l’archetipo dell’innocente, l’archetipo del padre e l’archetipo della madre.

Essendo gli archetipi aggregati di emotività, sentimento, pensieri, aneliti, essi contribuiscono a fornire al nostro pensare un determinato sentire e una determinata visione del mondo.
Quando una persona è sotto l’influenza di un archetipo vede e sperimenta il mondo così come quell’archetipo gli detta o suggerisce. Dato che l’archetipo è come una atmosfera, una colorazione entra la quale passano le nostre esperienze quotidiane, esso è in grado di modificare la percezione, il modo di sentire e vedere il mondo.

Non sperimenteremmo nulla al di fuori degli archetipi. Nella filosofia kantiana questa nozione è paragonabile agli a priore della ragion pura. I nostri sentimenti sono colorati dalla trama di certi archetipi, cioè di queste strutture a priore entro le quali formiamo, diamo forma per dare significato, alla gran massa di esperienza che viviamo. E’ come se noi fossimo dentro una bolla attraverso la quale vediamo e sperimentiamo il mondo. Una madre vede il proprio figlio e quindi vive i sentimenti verso di lui, all’interno dell’archetipo (bolla) della madre; mentre il padre vive i propri sentimenti all’interno dell’archetipo del padre. Da cui si possono osservare modi di vivere i sentimenti diversi. Certo che tutto non è così ordinato, nel senso che alle volte l’archetipo della madre è più presente nel padre che non nella madre. Abbiamo allora una certo inversione dei ruoli. Ma le cose sono ancora più complicate in quante gli archetipi non sono puri, ma subiscono una certa contaminazione da parte di altri archetipi. Per esempio se l’archetipo della madre, con i sentimenti ad esso connessi, viene contagiato dall’archetipo della vittima, cosa può verificarsi? Il risultato sarà una madre che tende a sacrificarsi, a pensare che il figlio le impone sacrifici, elle tenderà a sentirsi appunto vittima della sua condizione, e questo non le permette di vivere liberamente la sua esperienza di madre.

Nel percorso analitico junghiano si concedo molta importanza all’analisi della forme archetipiche che impediscono al soggetto un’autentica visione del mondo. L’origine e il motivo della sofferenza, infatti, è proprio derivato dalla presenza di archetipi che svolgono un ruolo disturbante rispetto alle esigenze evolutive del soggetto. Questa impostazione è paragonabile alla visione buddhista dell’importanza di superare certe strutture karmiche che imprigionano il soggetto e non gli consentono di evolvere verso la liberazione.

Il Karma

tratto dal libro “Logos e Pathos” di Renato Barbruni, Ed. Nuovi Autori

Definizione di Karma: leggiamo dal Dizionario Buddhista di Christmas Humphreys ed. Ubaldini:
” …La radice (di karma) significa azione da cui deriva il significato di “azione e risultato appropriato dell’azione”. (…)
Il karma non è limitato dal tempo e dallo spazio, e non è strettamente individuale; vi è un karma del gruppo, della famiglia, della nazione, ecc.

La dottrina della rinascita è un corollario necessario di quella del karma: è l’entrata nella vita fisica individuale con un carattere e un ambiente che derivano dalle proprie azioni nel passato.
Il carattere, la famiglia, le circostanza e il destino personali sono quindi manifestazioni del proprio karma, e in base alla reazione al proprio “destino” attuale si modifica e si costruisce il proprio futuro.

Non è il karma in se a legarci alla ruota della rinascita: l’elemento che ci lega è il frutto personale dell’azione.
La liberazione è quindi ottenuta attraverso l’eliminazione del desiderio egoista.”

La materia è la struttura karmica forse più resistente: la realtà tutta è struttura karmica. In tale prospettiva il mondo, così come ci si presenta, può essere superato sciogliendolo attraverso la meditazione e la rinuncia alle brame egoiche. Se nell’ebraismo, e in parte nel cristianesimo, la sofferenza è inerente alla salvezza, nel senso che attraverso il soffrire (quale modalità per la purificazione) si giunge alla salvezza dell’anima, nel buddismo la sofferenza è residuale, si configura come la sperimentazione soggettiva della struttura karmica. L’esistenza è sofferenza (la prima delle quattro nobile Verità) in quanto la sua struttura (dell’esistenza) è intrisa di quel sentimento di attaccamento che scatena la sofferenza quale reazione di fronte alla spinta evolutiva (liberante) dello spirito. Quindi il cammino verso la salvezza passa attraverso il soffrire come via obbligata, in quanto è la struttura karmica la realtà causa della sofferenza, e perciò è proprio essa, la struttura karmica, che noi possiamo e dobbiamo superare.

Questa prospettiva, che utilizza la nozione di karma per interpretare la sofferenza e l’esistenza (il porre in essere) della realtà fenomenica, ci porta ad alcune implicazioni quando la caliamo sul tema dell’amore tra due persone. In esso, nell’esperienza di Amore, possiamo ben ritrovare la necessità del superamento della struttura karmica e archetipica della personalità, quale presupposto indispensabile affinché Amore realizzi la sua peculiare finalità: l’incontro perfetto di due anime. Un superamento necessario in quanto la presenza di substrati karmici e archetipici impediscono all’amore di fluire liberamente tra i due amorosi. In questo senso troviamo in Giovanni:
“…Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore…”
1Giovanni 4,18

O ancora in San Paolo:
“Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.” 1 Corinzi 13,12.

I due pensieri implicano il superamento della forma archetipica (l’archetipo del castigo in questo caso) che da un lato suscita il timore, e dall’altro media la conoscenza e quindi crea frattura tra l’uno e l’altro (l’archetipo della scissione-separazione tra uomo e Dio). I due archetipi sono mantenuti nell’anima dell’uomo attraverso le dinamiche karmiche. Il superamento dei due archetipi, e quindi della loro influenza nell’anima, è affidato, nel Cristianesimo, alla prassi della carità e della preghiera; nel Buddismo alla meditazione e alla pratica della compassione e alla meditazione sulla vacuità

CARITA’ E COMPASSIONE; PREGHIERA E VACUITA’

Carità e compassione

Le nozioni di Carità e di Compassione sono legate a diverse implicazioni psicologiche ed esistenziali. La Carità, quale modo di relazionarsi al prossimo, presuppone l’atto della donazione verso l’altro, mentre la Compassione sembra porre l’accento sul sentimento di condivisione della sofferenza altrui. Anche la carità implica un sentimento di condivisione verso l’altro, ma la compassione in questo caso è un sentimento che subito viene estrovertito, condotto là di fuori, per operare nella realtà esterna; mentre la Compassione buddista, che comunque implica un agire sulla realtà in soccorso verso l’altro, è più orientata alla contemplazione ed all’affinamento del sentimento come fatto interiore, che quindi, come tale, può non essere seguito dall’azione, se questa va a confermare la dipendenza dalle modalità in cui ci si è identificati (il Salvatore che dipende dall’essere salvatore). In questa cornice etica va ricordato che il fine è quello di liberarsi dalla struttura karmica ed archetipica quindi è fondamentale l’analisi dei propri sentimenti anziché agirli immediatamente.
Nella prospettiva cristiana invece, la cornice etica è accentuata sull’azione verso il prossimo, in quanto l’esperienza centrale è quella del sacrificio; in effetti il vero dono è proprio il sacrificio che compie il fedele. Nella visione cristiana ritroviamo le radici della nozione giudaica del sacrificio, cosa che è meno presente nel buddismo, dove il sacrificio è sostituito dall’atto di superamento della struttura karmica. Ma a questo punto dobbiamo fare una ulteriore riflessione sulle implicazioni delle nozione di karma e di peccato.

Il karma: struttura che imprigiona l’anima.

Nella psicoanalisi junghiana usiamo un temine speciale per indicare il grumo di vissuti, sentimenti e idee che si pongono come antitesi alle prospettive coscienti del soggetto. Tale temine è Ombra. Con Ombra si vuole proprio indicare e nominare l’innominabile custodito nella psiche inconscia. Tale concetto è sviluppato da Jung sulla nozione più vasta di karma – e di peccato. Se il karma è l’irrisolto di una o più vite precedenti che alberga nelle profondità della psiche, è proprio questo il grumo ombroso che si intromette in senso antitetico allo sviluppo della personalità, e infine alla liberazione dell’anima. Questo grumo ombroso trasudante esperienze cristallizzate si presenta attraverso punte di sofferenza e slanci di illusione che ci conducono a interpretare una vita inautentica in quanto paradossale rispetto alle nostre vere e più essenziale esigenze. In tale corpo nascosto dentro le profondità della psiche, non solo trova sede l’irrisolto delle vite precedenti, ma alberga anche l’insieme degli aneliti che non sono stati adeguatamente adempiuto nelle vite precedenti, e che ora, nell’attualità dell’esistenza, trabordano la forma per spingere l’esistere oltre i propri confini, e realizzare un campo di esistenza finalmente più idoneo alle esigenza evolutive dello Spirito. La corretta comprensione di questi elementi profondi sviluppa le coordinate di orientamento della vita del soggetto che ritrova la capacità di adempimento del mistero di se stesso. Così la dialettica tra il qui e ore, il presente, e il passato impregnato di aneliti, va ha costituire il lessico profondo dell’anima con la propria esigenza trasformativa.

Il peccato: condizione che corrompe l’anima.

La dialettica profonda presuppone una capacità di distacco dall’immediatezza della vita tale da vedere contemporaneamente le diverse dimensioni dell’essere, ma tale capacità è impedita dall’azione del peccato, vale a dire dall’azione dell’archetipo della scissione che riproduce istantaneamente alla coscienza la visione della dicotomia dell’essere. Una visione non più percepita come “visione” – interpretazione soggettiva – ma come realtà oggettiva altra dall’osservatore (questo è il risultato più essenziale del peccato – archetipo della scissione- ). Questo automatismo presente nella coscienza perpetua la frattura tra l’uomo e Dio, tra l’idea di essere e l’essere, tra il pensiero e la vita (Taoismo, buddismo zen), gettando il soggetto nella disperata inautenticità del proprio esistere (il concetto di angoscia di Kierkegaard, dinamica tra l’ente e l’essere di Heidegger).

Preghiera e vacuità

La speranza, la trama e la prassi della salvezza, della liberazione dalla ciclicità tragica di una tale dinamica diabolica (dal greco diaballo cioè colui che separa), è ritrovata nell’intuizione straordinaria della preghiera e della meditazione. La preghiera quale atto interiore di fuoriuscita dalla prigione della razionalità, del gioco del pensiero cosciente – della coscienza che si identifica nel pensiero che poi è più il pensato piuttosto che il pensante – porta il soggetto al contatto e quindi all’esperienza di Anima, – che vive sospesa tra le cose, non è mai nelle cose-, sviluppando la possibilità di essere senza doversi fermare all’esserci. Il canto d’amore verso Dio, è tanto più autentico tanto più il soggetto non ha necessità di vedere attraverso il suo pensiero l’immagine di Dio, egli si affida al vero amore che “..tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (San Paolo 1Corinzi 13,7) E’ un Dio più vicino all’esperienza incommensurabile per il pensiero della coscienza del Tutto nel molteplice e del molteplice nell’Uno (Plotino), è l’approdo al nirvana. E’ qui che incontriamo la meditazione buddista sulla vacuità di tutte le cose -gli aggregati- sia esse materiali che immateriali. Un meditare che scivola oltre il pensiero discorsivo per ritrovare l’esperienza di Essere piuttosto che il pensiero come coscienza di essere.

Il pensiero che ci inganna

Dai discorsi del Buddha
…il Beato pronunciò i seguente versi ispirati:
“Ciò che un nemico può fare ad un nemico,
o chi odia a uno che odia,
è poca cosa rispetto al danno che può arrecare
la mente male orientata.”

Il vero pericolo si annida dentro di noi, proprio lì nello strumento che ci consente di vedere e percepire e pensare il mondo. Quel fidato servo della nostra vita, il Pensiero, è, nostro malgrado il più sottile e perfido nemico, che ci tende tranelli ogni istante. Ciò può essere lette in molti sensi. Il pensiero che coincide con l’Io, cioè con la coscienza che una persona ha di se stessa. Quella coscienza di sé può diventare la prigione dello spirito, che imbrigliato in quelle trame non riesce più a pensarsi diversamente e finisce per morire al proprio sogno.

Inoltre quando l’uomo si affida unicamente al pensare inteso come logica, razionalità, nel senso che ciò che esiste è solo quello che comprendo con la logica, egli si condanna all’oscuramento delle sue possibilità conoscitive.

Il pensiero discorsivo quindi è uno strumento utile ma potrebbe diventare l’opposto se l’uomo rinuncia alla altre sue innumerevoli facoltà. Nel percorso buddista l’analisi dei propri pensieri alla ricerca di ciò che li fonda, è essenziale. La finalità di questo lavoro introspettivo è di prendere coscienza che tutti i nostri pensieri derivano da altri pensieri, e che alla base della nostra vita cosciente, e alla gerarchia di valori che la orienta, sta la relazione tra le cose. Se l’uomo scopre che ogni cosa non ha una suo valore oggettivo e intrinseco, si libererà dalla sua dipendenza dalla cose del suo mondo, e approderà alla verità che le cose sono vuote in se stesse. La scoperta del vuoto o vacuità, non è però sufficiente per liberare l’uomo, poiché questa scoperta potrebbe gettarlo nel nichilismo. Se il considerare che le cose hanno un valore intrinseco porta l’uomo a implodere nel mondo, il considerare al contrario che le cose sono vuoto, può condurlo a rinunciare talmente al mondo da portarlo all’esperienza del nichilismo. Le cose sono vuote se sono percepite staccate dal contesto in cui si trovano, ed è questo fattore di relazione che le salva ai nostri occhi pur ridimensionandole alla luce della loro relatività. Per cose si intende anche situazioni esistenziali, che spesso, nella nostra vita, enfatizziamo sia in senso positivo che in senso negativo. Quindi essere in grado di commisurarle, relativizzarle, ci permette di non drammatizzare situazioni particolari che altrimenti ci porterebbero un tale scompenso da soffocare il nostro slancio vitale.

BY: Renato Barbruni

Cristianesimo
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Dio mio perché mi hai abbandonato?
Salmi 21,2; Matteo 27,46; Isaia 49,14

tratto dal libro “Logos e Pathos” di Renato Barbruni, Ed. Nuovi Autori

Invocazione drammatica, che scuote l’anima fino alle sue radice, o meglio da quelle radici proviene e si diffonde. Quando la vita scorre linearmente dentro l’esistere di ogni singolo uomo, essa restituisce quel senso del compiuto, quel “questo è bene”, che da sé promuove i tratti dell’esistere e li fa assurgere a realtà vera. Da cui il senso pienamente percepito senza ulteriori artifizi, senza necessità di porre domande sulla nature di ciò che viviamo. In tali momenti sentiamo la presenza di Dio, sentiamo di essere con Esso all’unisono, di essere noi stessi docili al suo incommensurabile Volere; il suo volere è tutt’uno con il nostro volere, senza fratture, senza distanze, come una profonda comunione che è consustanzialità; quella consustanzialità che precedette il peccato, la frattura spazio-temporale tra l’uomo e Dio.

Ma quando la vita smette di essere percepita come senso, allora ci pervade e ci avvolge un silenzio inaudito, un vuoto soverchiante, là dove la vita non ci appare che il simulacro di istinti e percezioni vane e sterili. Ci sembra un abbandono da parte di Dio, da parte di Colui che solo ha il privilegio di fornire senso all’esistere. Allora ci sembra di percepire quel vuoto come silenzio di Dio, come se quel silenzio testimoniasse, gridasse non solo del suo mutismo ma della sua orribile inesistenza.

Nella nostra vita molte volte abbiamo sperimentato un tale vissuto dell’Anima. Di fronte ad un certo dolore che abbiamo incontrato nel corso della nostra vita, così forte e inspiegabile che ci ha trascinato nella disperazione, ci siamo sentiti soli, e abbandonati dal volere di Dio, abbiamo così dato corpo, attraverso l’inalienabile sofferenza, al discorrere del pensiero che deduce ma non intuisce il senso delle cose, e abbiamo scambiato il nostro dolore come assenza di valore; un valore che così annientato ha permesso alla nostra ombra distruttiva di dettare le parole più inutili e devastanti che conosciamo: “Il senso non c’è”. Quando in un’ultima eco di una fede sottile come la lama di un rasoio abbiamo gridata a pieni polmoni, con voce roca, quasi spenta dalla disperazione: “Dio mio perché mi hai abbandonato”, è lì che abbiamo ritrovato il miracolo: in quell’invocazione c’è chi invoca e c’è chi è invocato, e subito un senso di ritrovata alleanza sprigiona un profumo di speranza che balena repentino nel respiro dell’Anima.

Il corpo materiale, il corpo esistenziale e il corpo spirituale

“…Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo tratto dalla terra è terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l’uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale ilo celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste. Questo vi dico, o fratelli: la carene e il sangue non possono ereditare il Regno di Dio, ne ciò che è corruttibile può ereditare l’incorruttibilità.
Ecco io vi annuncio un mistero: noi tutti certo moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. E’ necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità….”
San Paolo, 1 Corinti 15, 44-53

Questo bellissimo passo di San Paolo si presta a diverse letture su diversi piani, ma rimane comunque una utile ed efficace rappresentazione della nozione della “salvezza” dalla morte, sia essa intesa sul piano spirituale o, più immediatamente, intesa sul piano esistenziale. Lo Psicoanalista si occupa della drammatica situazione della possibilità di morte esistenziale; il Teologo si occupa prevalentemente della possibilità di morte spirituale.. La differenza tra le due morti è relativa al corpo cui essa si riferisce. Nella morte spirituale è un evento escatologica che comprende la realtà ontologica dell’uomo, la realtà del suo “essere” più profondo ed assoluto; la morte esistenziale colpisce la realtà immanente e quindi fattuale dell’uomo, l’attualità dell’essere (la forma mandana percettibile come atto fenomenico dell’essere) nel suo lungo divenire. La forma mondana è composta dagli aggregati affettivi, sociali e ideale che ne sorreggono e ne sostanziano la presenza e la dinamica nel mondo. Sono, in altre parole, le varie identità attraverso cui si sviluppa la fenomenologia dell’esistenza di un soggetto. In ciò rileviamo tre fondamentali identità: l’identità affettiva, l’identità sociale e l’identità esistenziale.
Più complessivamente possiamo pensare l’uomo composta da tre diversi corpi:
il corpo materiale sede e luogo della vita biologica con la sue proprie dinamiche: la dinamica biochimica, la dinamica pulsionale, la percezione, la sua coscienza e l’autocoscienza;
il corpo esistenziale sede e luogo delle dinamiche esistenziali quali la coscienza riflessiva, la coscienza relazionale e la coscienza degli aneliti;
il corpo spirituale è luogo e sede delle realtà superiori che trascendono la realtà immanente e fattuale dell’essere, quali il senso del divenire ultimo, le sostanze divine nella loro incommensurabile realtà.
Spesso le persone fanno confusione sue tre piani, non sempre riescono a distinguere a quale piano di esistenza vada inscritto un loro vissuto o un certo accadimento della loro vita. Infatti alle volte si pensa che certi fatti interni alla persona appartengono al piano esistenziale, mentre essi trovano la loro origine e il loro esaurimento solo sul piano della corporeità; così anche per quanto riguarda il piano teologico: si pensa alle volte di argomentare e di provare sentimenti sul piano teologico mentre ci si trova ancora su un livello esistenziale. Lo psicoanalista deve aiutare a far chiarezza su tale situazione; è quindi importante una preparazione teologica che non significa un scelta confessionale (l’appartenenza ad un credo religiosa) ma che gli renda possibile un adeguato orientamento tra le realtà che compongono i vari aneliti dell’uomo.
Il corpo spirituale è assolutamente invisibile alla coscienza, per cui è necessario che si rifletta nel corpo esistenziale e nel corpo materiale. In altre parole noi non percepiamo direttamente lo spirito ma solo quando questo illumina il corpo materiale e quello esistenziale. L’anima, o corpo spirituale, è come la luce. Noi non siamo in grado di percepire direttamente la luce, ma solo quando essa è riflessa da un oggetto: l’errore sarebbe di pensare che l’oggetto sia la fonte della luce non solo il luogo di riflessione; l’anima è più facilmente percepita dalla coscienza solo quando si riflette sul corpo esistenziale, vale a dire sulle varie identità che costellano la nostra esistenza. Tali identità non sono, perciò, la fonte della nostra vita, ma in essa la nostra vita spirituale si riflette, si manifesta; alle volte il dolore per la morte di una o più identità è soverchiante e mortificante, tanto da spingerci verso un’esperienza di annullamento che viene percepita quale morte del corpo spirituale; è questa erronea cognizione che dobbiamo superare se vegliamo essere in grado di reggere l’esperienza della morte affinché si possa risorgere a vita nuova e superiore.
Nel corso della nostra vita moriamo tante volte, e tante volte risorgiamo, senza che ce ne rendiamo conto.

AMA IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO

Il come su cui dobbiamo riflettere riguarda la qualità dell’amore più che la quantità. Si può amare in tanti modi quante sono le necessità a cui l’amore tende a dare risposta. Se si ama se stessi nel modo giusto si ama il prossimo nel modo giusto; ma se non si è capaci di amare se stessi nel modo giusto è assai difficile riuscire ad amare veramente nel modo giusta l’altro. Non è poi così facile saper amare. Spesso confondiamo le esperienza emotive con l’amore; altre volte confondiamo stati di dipendenza psicologica come amore. Ma l’amore non ha a che vedere né con le emozione, né con gli stati di dipendenza psicologica. Anzi quasi sempre una forte dipendenza psicologica trasforma la relazione in una trappole, per l’uno e per l’altro, tanto forte da far sognare e desiderare ad entrambi di fuggire da essa. Certo quello che più forte vive la dipendenza avrà più difficoltà a pensare che sarebbe meglio per lui andare via da lì. Quel andare via da lì come vera necessità si riferisce al fatto che una relazione quando è ferma alla dipendenza non svolge alcun ruolo di agente evolutivo della persona, e per tale motivo è nociva alla persona in quanto tale. Tutto questo ragionamento si fonda sull’assunto che il valore primo da perseguire sia l’evoluzione della persona, l’evoluzione della sua anima. Il vero amore è l’occasione e il luogo dove tale evoluzione si realizza con più efficacia. A tale proposito Teilhard De Chardin dice: “L’amore non solo non spersonalizza (mentre lo stato di dipendenza lo fa), ma iper-personalizza”.

Quindi saper amare significa trovare la necessità dell’anima dell’altro e rispondere a tale profonda necessità: una necessità che tanto più è essenziale tanto più è vicina al centro della vita spirituale. Ma se una persona non sa trovare in se stessa la necessità essenziale della sua vita spirituale, non saprà riconoscerla neppure per l’altro, poiché egli è tanto distante da se stesso da non sentire più la voce interiore del suo profondo significato. E’ importante quindi la riflessione introspettiva per comprendere a pieno le proprie e le altrui necessità profonde, le necessità dell’anima. Ecco perché il dialogo nella coppia è importante, ma un dialogo che sia confessione delle proprie dinamiche interiori; che esprima la capacità di uscire dalla proprie chiusure, e quindi fuori dalle istanze puramente egoiche, quelle istanze che si riferiscono ai bisogni prettamente piscologici. La riflessione va quindi spinta verso le tematiche spirituale della Persona, poiché l’amore è la dimensione sacra per eccellenza. E’ questo che oggi molte donne chiedono ai loro uomini, ma questi spesso sono travolti dalla loro ignoranza e non curanza di fronte alla sfera dei propri sentimenti più profondi.

QOÈLET: UN UOMO STANCO CHE CERCA AMARAMENTE IL SENSO DELLA VITA

“Vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno. Per cui fatica sotto il sole?”

Così inizia la lunga riflessione di Qoèlet sulla vita che ha vissuto. La sua, da principio, è una riflessione amara, quasi disperata. Il senso della vita sembra lontano, una pia illusione. Tutto ciò che lo ha animato nelle epoche giovanili, la passione per le donne, le aspirazioni sociali, la ricerca della gloria, ora, davanti alla morte, ormai imminente, sembrano non contare più. Tuttavia, mano a mano che il ragionar del cuore prosegue, lentamente la saggezza prendo il posto dell’amarezza. Il testo è attribuito a Re Salomone, così per lo meno si legge nell’intestazione, ma sembra più probabile che sia stato scritto tra il II e III secondo avanti Cristo come ci dicono gli studiosi della Bibbia.
Lo scritto è intriso di tristezza, di una malinconia rassegnata, poiché ciò che fa parte del ricordo non è più posto come valore per la vita. Il mondo appare spietato, ingiusto e povero di afflato significativo, e l’esultanza dell’uomo appare come un movimento verso il nulla. Sotto il profilo di un testo biblico non è di facile lettura, poiché se ne seguiamo la logica, le parole e gli argomenti, ciò ci porta ad allontanarci da Dio, o comunque a non amare Dio. Una divinità lontana dall’uomo che sembra aver abbandonato l’umanità al proprio destino. “Vi è una sorte unica per tutti,/ per il giusto e l’empio,/ per l’impuro e l’impuro, […]” I forti, i violenti hanno la meglio, ma poi anche su di loro si abbatterà la catastrofe: non c’è scampo alla crudezze della realtà. La saggezza che se ne ricava è intrisa di rassegnazione, non certo di speranza. “E’ meglio la fine di una cosa che il suo inizio,/ è meglio la pazienza che la superbia. […]” L’amarezza verso l’uomo porta a considerare la sua pochezza e la sua stoltezza: “Dio ha fatto l’uomo retto,/ ma essi cercano tanti fallaci ragionamenti. […]”

Gli ultimi versetti ci ricordano che il destino è nella mani di Dio e che a lui, e soltanto a lui, dobbiamo affidarci, ma sembra più un argomento posticcio, messo lì per rientrare nella ortodossia di teste sacro nel solco della tradizione ebraica che vuole riferire comunque tutto a Dio, e che quindi non può essere discusso ciò che Egli ha deciso. Ma già nel libro di Giobbe vi erano i semi di una ribellione alla legge divina, legge quasi mai compresa dall’uomo. Tuttavia anche in quel testo la riflessione critica dell’uomo verso Dio è solo temporanea. La cosa interessante è constatare che l’argomento non è in fondo nuovo quando lo si incontra negli atteggiamenti dei nostri contemporanei che, godendo di maggior libertà di espressione, con più facilità si mettono contro Dio. La differenza sta nell’epilogo della discussione. Sia in Giobbe che nel Qoèlet l’amarezza sulla vita e le sue leggi cede il posto ad un sapienza che vuole essere da guida e di sostegno nei momenti dolorosi dell’esistenza. Ma più ancora questa forma più alta di sapere vuole preparare l’uomo a costruirsi intorno una vita che lo metta al riparo dalle false illusioni.
“Dio dei padri e Signore di misericordia,/ che tutto hai creato con la tua parola,/ che con la tua sapienza hai formato l’uomo,/ […] dammi la sapienza che siede in trono accanto a te/ e non escludere dal numero dei tuoi figli,/ […] Con te è la sapienza che conosce le tue opere,/ che era presente quando creavi il mondo;/ essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi/ e ciò che è conforme ai tuoi decreti. […]”
Questi frammenti della preghiera, attraverso la quale l’uomo chiede a Dio di conoscere l’intimo sapere delle cose, affinché egli possa adeguarvi il proprio comportamento, mette in evidenza la consapevolezza che solo aderendo a quell’intimo e profondo sapere l’uomo sarà veramente uomo.

Nel corso della riflessione la discussione vede sempre più al centro il tema della sapienza che viene isolato dal tema di Dio, quasi pronta (la sapienza) ad essere definita un persona distinta. Come lo sarà nel cristianesimo con lo Spirito Santo.
Dicevo che solo nel finale l’autore si piega alla volontà divina, mentre in tutto il testo Dio è messo più o meno velatamente in discussione. E’ uno scritto che necessita della presenza del Cristo affinché si intravveda la possibilità di superare la conflittualità tra l’uomo e Dio, una conflittualità molto presente nel mondo laico. (Non è sempre tenuto nella giusta considerazione questo tema sotto il profilo esistenziale, la psicologia è carente a tale riguardo). La rilevanza del testo sta nella sintesi, molte essenziale, circa la sensibilità disperata dell’uomo. E’ quindi un testo attualissimo in tempi nichilisti come il tempo attuale. Per questo piace molto al mondo laico. Un testo che tuttavia necessita di una lettura attenta, perché si presta troppo ad un’interpretazione atea e disperata sulla vita. Per altri versi è un testo che mette in evidenza il fatto che, in fondo, l’umanità non è cambiata nel corso del tempo, ripete gli stessi errori, e non è riuscita a trasformare il proprio cuore. L’autore esprime una lamentazione penosa sulla vita, egli constata ciò che chiunque vede quando guarda le cose del mondo. Tuttavia è un uomo che ha il coraggio di reggere il paradosso che sta alla base dell’esistenza: la morte è inevitabile, ma ancor più lo è la tenacia della continuità della vita.
Quindi è un testo che affascina anche l’uomo contemporaneo per la tentazione nichilista che lo pervade, ma che se letto con sincera obbiettività ci può dare spunti riflessivi che ci aiutino ad affrontare le difficoltà della vita quando questa è circondata da tutte le sue contraddizioni.

BY: Renato Barbruni

Mito e coscienza collettiva
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Il mito, inteso come narrazione di gesta di personaggi eroici, rappresenta, nel pensiero junghiano, il presentarsi al livello della coscienza collettiva della trama della realtà profonda che non avrebbe altrimenti modo di essere percepita. Il mito è la manifestazione per immagini delle strutture atemporali, gli archetipi, dell’inconscio collettivo. Il mito inoltre ha acquistato, nello sviluppo del pensiero junghiano di Silvia Montefoschi, la rappresentazione, o la metafora, di accadimenti nel divenire dell’essere. Nel mito, come nella leggenda e nella favola, è la psiche stessa profonda che si narra, racconta di sé, o meglio si dispiega in quella narrazione. Il materiale mitologico non è quindi da spiegare ma da ascoltare. Vi è una differenza fondamentale tra la nozione di “spiegare” e la nozione di “ascoltare”. Spiegare in ultima istanza vuole dire ricondurre un certo fenomeno a un significante che lo renda significativo, ma questa operazione appiattisce la realtà a ciò che già si conosce di essa; l’ascolto equivale invece a una sorta di contemplazione della cosa atta a far sì che da essa io tragga una dimensione non prima conosciuta.
In questa sezione partendo da questi presupposti verranno presentati vari elementi mitologici presenti nella nostra realtà contemporanea, e discussi alla ricerca del loro valore evolutivo.
Gli autori da cui si trarrà ispirazione oltre a Jung sono Silvia Montefoschi e James Hillmann che rappresentano i due più importanti continuatori del pensiero junghiano. Essi sono gli autori che più hanno contribuito allo sviluppo dell’opera speculativa di Jung.

BY: Renato Barbruni

Indicazioni e suggerimenti per chi inizia una psicoterapia
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Il RAPPORTO CON IL SE’ PROFONDO

  • Che cosa si intende per vita spirituale
  • La fonte della vita spirituali

In questo contesto la vita spirituale assume i connotati di esperienza di se stessi di fronte a se stessi. Ognuno di noi vive una tale esperienza, ma di essa spesso non si accorge poiché non vi presta la necessaria attenzione; certo è che chiunque ha una vita spirituale. E’ infatti esperienza di tutti il fatto che quando rivolgiamo il pensiero alla nostra realtà interiore, ciò ci rivela la presenza di un mondo che non sappiamo descrivere adeguatamente. Tutti possiamo riconoscere il fatto che di fronte a certi accadimenti, più o meno significativi e dirompenti della nostra vita, sentiamo qualcosa che percepiamo come assolutamente nostro, individuale e soggettivo. Questo modo soggettivo e personale di vivere gli accadimenti compone l’insieme della vita spirituale. E questo campo di esperienza costituisce il vero oggetto del lavoro psicoterapeutico. E’ lì che noi soffriamo o gioiamo; è da lì che traiamo orientamento per le scelte importanti della nostra vita. La fonte della nostra esistenza è dentro di noi, in quel luogo che da sempre è chiamato la Vita Interiore, o Anima.

CHE COS’E’ LA PSICOTERAPIA ANALITICA

  • Aiuto
  • Analisi e introspezione
  • Le immagini interiori
  • Mutamento e rapporto con le proprie immagini


“…nello spazio interiore dell’Anima danzano i sogni e le speranze per la nostra vita…”

La psicoterapia analitica è quella prassi di intervento sul disagio psicologico che trova nella coriflessione (tra paziente e analista) sulla dimensione interiore degli accadimenti dell’esistenza, il momento essenziale al fine di superare lo scacco esistenziale espresso nella modalità del sintomo.
L’orientamento teoretico e filosofico che ispira la prassi psicoterapeutica da me esercitata si inscrive nella psicologia analitica di orientamento junghiano e nella psicologia umanistico-esistenziale. In queste psicologie, più che in altre, il sintomo, cioè il grumo di sofferenza patito, è collocato lungo lo scenario dell’esistenza della Persona, in quanto punto-momento di interruzione del fluire autentico della vita. Il sintomo, quindi, in questa visione olistica dell’essere umano, non può essere svincolato dall’insieme delle esperienze profonde del soggetto.

La nozione di “psicologia” in questo contesto filosofico e teoretico, riacquista il significato di discorso della psiche dove al termine psiche viene restituito il suo originario significato di Anima in quanto momento interiore in cui gli accadimenti si traducono in significativi per il soggetto. Gli accadimenti della vita sono sempre gravidi di significato per il soggetto che li vive. Quel significato può essere colto direttamente oppure può sfuggire alla capacità di comprensione. Il significato di un accadimento della vita può esser colto sul piano del pensiero, quindi con un forte grado di consapevolezza, ma può essere anche colto su altri piani quali per esempio a livello emotivo, a livello somatico, e più in generale esso può segnare una traccia di sé come sintomo psico-logico: cioè può divenire oggetto psichico. Psicologia analitica significa quindi analisi della psiche nelle sue rappresentazioni per immagini interiori. Queste immagini costituiscono il riflesso dei contrappunti dell’esistenza. La psiche, in questa concezione filosofica, non è indicata e definita come organo pensante dell’essere umana, essa in effetti trasborda dalla mente, si espande all’esistenza complessiva. L’esperienza psichica colora tutta la vita del soggetto, manifestandosi in vari ambiti.

Tutta la nostra realtà è costituita da Psiche. Questa affermazione merita una ulteriore spiegazione. E’ opinione comune ritenere che la psiche sia come un organo collocato dentro il nostro cervello. Quindi avente una sua collocazione spaziale ben definita. Più che un organo, essa è meglio rappresentabile come un momento spazio temporale del continuum dell’esistere della Persona. In altre parole si può dire che mano a mano che noi esistiamo punteggiamo la trama dell’esistenza di momenti in cui riflettiamo dentro di noi ciò che viviamo e siamo (ciò che vivendo siamo); questa riflessione interiore, come una specie di registrazione dell’accadere, è l’evento psichico, esso da “luogo” a Psiche, o meglio all’esperienza psichica. Non bisogna però pensare che la “registrazione” avvenga sempre in modo volontario e consapevole, infatti la maggior parte degli accadimenti raggiunge l’organo registratore in modo del tutto naturale senza la partecipazione dell’atto di volontà. La volontà infatti è un prodotto di Psiche, non è il contrario.


“…quando l’armonia rischiara i miei pensieri, l’incanto si svela ai miei occhi…”

STRUMENTI E PRASSI

Lo svolgimento di una psicoterapia attraversa varie fasi e si esprime in diverse modalità in cui vengono utilizzati diversi “strumenti”. Il punto centrale è il colloquio che si instaura tra paziente e analista. Il colloquio si esprime in diversi stili e si orienta ai diversi e molteplici contenuti della vita della Persona. Si passa dalla biografia del paziente all’analisi dei suoi vissuti e dei sentimenti ad essi collegati fino all’interpretazione dei sogni. Attraverso il racconto di episodi salienti della vita si giunge ad una comune riflessione sul valore di quegli accadimenti e sul loro significato oltre che sulla loro portata esistenziale, quanto cioè quegli accadimenti abbiamo inciso sulla vita. Proprio attraverso la riflessione sugli avvenimenti salienti della vita è possibile per il paziente rendersi conto delle proprie intenzionalità più autentiche. La presa di coscienza di queste varie intenzioni conduce ad una più profonda conoscenza di sé, a quella che viene chiamata “allargamento della consapevolezza di sé”. Spesso, infatti, le persone non hanno coscienza del vero motivo che le ha spinte ad una certa scelta o ad una certa rinuncia. Questa erronea conoscenza di sé spesso si traduce in un senso più o meno profondo di insoddisfazione. L’insoddisfazione in effetti è la spiacevole sperimentazione soggettiva della distanza tra ciò che penso di me e ciò che vedo di me stesso. Un percorso psicoterapico non si esaurisci nell’osservazione del passato, ma, in questo contesto, si sviluppa nell’abbracciare le istanze in avvenire, cioè in ciò che stimola e motiva il soggetto nella sua vita. E’ quindi molto importante osservare i desideri, i progetti, gli aneliti della Persona dato che ciò fornirà un quadro più esauriente per una conoscenza più profonda.

Studio biografico

Il raccontare la propria vita è una delle attività verbali più frequenti tra le persone. E’ qualcosa che tutti fanno sia pure senza un particolare metodo e senza una finalità precisa se non quella di comunicare in fondo chi siamo. Ma non è poi così semplice raccontare di sé, o meglio sapersi raccontare al fine di conoscere meglio la nostra vita. Per un psicoterapeuta è estremamente importante acquistare la capacità di facilitare il racconto di sé da parte del paziente. Jung diceva che la psicoterapia in fondo è un’arte, e in questo contesto è più evidente cosa intendesse dire. Il dialogo tra paziente e analista si può sviluppare in tanti modi, certo è importante che l’analista abbia l’abilità necessaria a far sì che il suo paziente riesca a narrare di sé nel modo più spontaneo e libero ma anche creativo. Questa qualità dell’analista (in parte derivante dalla sua preparazione, in parte proveniente dalla sua predisposizione personale in quanto elemento della sua personalità), aiuta il paziente ad inoltrarsi dentro di sé alla ricerca di quel saliente momento che c’è in ogni esperienza vissuta. Il racconto può risultare piatto e banale come in effetti la vita sembra mostrarsi, ma se sappiamo raccontare e ascoltare in modo adeguato, si procedo oltre quella apparente banalità, e scopriamo momenti che così acquista valore di significativo per la nostra vita. Vi sono registi cinematografici o scrittori che pur narrando di vite quotidiane fatte da sentimenti consueti riescono a trarre un’opera d’arte da quelle immagini e da quelle storie. Quello che comunemente è chiamato momento artistico è quel magico momento in cui ci appare un senso delle cose che trascende la realtà puramente materiale. Così capita che mentre raccontiamo di quella particolare volta in cui eravamo con gli amici, in quella particolare sera abbiamo capito qualcosa di significativo di noi o della persona che amiamo. Questo momento magico è reso manifesto dal saper raccontare.

Il sonno

E’ determinante dormire bene, ed intervenire sul sonno disturbato è essenziale. Ci sono vari modi per facilitare il recupero di un sonno soddisfacente. Di fronte ad un sonno con gravi motivi di disturbo l’ausilio del farmaco diviene necessario. Il medico curante saprà trovare il farmaco più adatto, in quanto lo psicologo non può prescrivere farmaci non avendone la preparazione specifica. A parte queste considerazione preliminare necessaria relative a situazioni di disturbo particolari, si possono indicare suggerimenti che se attuati opportunamente sono in grado di farci migliore la qualità della ore destinate al riposo e alla notte. Un aspetto su cui è bene riflettere è proprio la “qualità delle ore notturne”. Nella nostra cultura non si dà molto importanza alla qualità delle ore notturne altrimenti non vedremmo riempite le notti di tanto clamore e confusione; non assisteremmo alla continua ricerca di ora da vivere svegli, quasi che la notte e il sonno siano delle tasse da pagare che si cerca di eludere. La notte come tale non ha alcun valore nella attuale cultura. Riflettere sul significato e sul valore che diamo alle ore notturne è dunque il primo passo. Da qui possiamo trovare il modo di riorganizzare il tempo della notte, partendo dalle ore serali. Questa riorganizzazione va progettata su misura per ogni individuo in quanto ciascuno ha la propria sensibilità e il proprio temperamento. La qualità della vita serale e notturna migliora la possibilità di sognare. Dormire (bene) è molto importante al fine di sognare e contemplare e contemplare, attraverso il sogno, la realtà interiore. Infatti molti studi sull’argomento hanno confermato che noi dormiamo per sognare. Il motivo dell’importanza del sogno è relativo alla riorganizzazione delle tracce della memoria.

Il sogno

Da un lato è utile l’interpretazione del sogno, ma dall’altro è oltremodo determinante per recuperare la capacità contemplativa troppo spesso compromessa dall’uso costante e prevalente del pensiero razionale. Introdursi nel linguaggio simbolico e poetico del sogno promuove una inversione degli abituali modi di pensare – per cui la realtà è solo quella chi ci appare là di fuori -, mentre nell’esercizio contemplativo delle immagini del sogno, lentamente ci rendiamo conto che la realtà è più sfumata e meno cristallizzata, ed è colta nella sua trasparenza da ciò che appare.

Il diario personale

Redigere un proprio diario personale è una forma di scrittura oggi non più comunemente usata, ma essa trova nel lavoro analitico un suo spazio e una rinnovata dignità. Lo scrivere di sé, per se stessi ha lo scopo di aiutare il soggetto a ritrovare quel dialogo interiore smarrito che se esercitato con la necessaria serietà ed impegno può aiutare lo sviluppo di modalità di pensiero, quali ad esempio il pensiero poetico, che conducono a rivelazioni del nostro mondo interiore insospettate.


“…rileggendo le mie parole riscopro un senso dimenticato…”

PAROLE INTRODUTTIVE AL PERCORSO DI ANALISI

Qualche raccomandazione e qualche suggerimento per chi inizia un lavoro di conoscenza di sé sono necessarie, in quanto possono aiutare il soggetto desideroso di svolgere bene il proprio compito di ricerca personale. Innanzi tutto è molto importante trovare il giusto analista: quella persona che per caratteristiche professionali, legate alla sua formazione, e per caratteristiche personali, sia in grado di stabilire col suo paziente un giusto rapporto di reciproca collaborazione. E’ in questo senso che ho voluto realizzare un sito web attraverso il quale rendo nota la mia preparazione e il mio percorso formativo. Nel sito ho infatti inserito il mio curriculum professionale e formativo per dare un quadro di riferimento a chi è alla ricerca di un analista. Fatta questa necessaria premessa soffermiamoci sul paziente o Persona in analisi.

E’ bene che la Persona si collochi con un atteggiamento di fiducia nel lavoro di ricerca interiore. La costanza delle sedute, la giusta concentrazione sono atteggiamenti indispensabili per il buon esito della terapia. Inoltre è bene alle volte leggere qualche libro che l’analista suggerirà in funzione dei bisogni conoscitivi della Persona.
Esistono fondamentalmente tre tipi di psicoterapia. La psicoterapia breve; la psicoterapia d’appoggio, e la psicoterapia analitica.
Un terapeuta preparato e ricco d’esperienza sa destreggiarsi in tutte e tre le forme, e sceglierà quella più appropriata in base alle esigenze e in funzione alle aspettative della Persona.
Solitamente un terapia breve ha una durata di qualche seduta ed è mirata ad alleviare la presenza di un particolare sintomo dalla vita del paziente. Naturalmente il sintomo in questione non avrà una particolare tenacia o non sarà profondamente radicato nell’esperienza interiore della Persona, altrimenti un terapia breve non può avere nessun effetto durevole. Spesso si scambia l’effetto della semplice rassicurazione (che alle volte ha buon esito in personalità plastiche) come una forma di terapia breve. O altrimenti si scambia l’assuefazione ad un certo comportamento appreso come terapia breve. Nessuna terapia breve più veramente risolvere un vero problema, lo più attenuare o peggio nascondere. Si deve essere molto chiari su questo. Quando la situazione sintomatologica della Persona è complessa e profonda l’unica via è una psicoterapia di ampio respiro che tocchi vari elementi della personalità.

La psicoterapia d’appoggio è indicata in particolari stati d’animo di sofferenza, in situazioni esistenziali dove la Persona ha smarrito la sua naturale capacità di affrontare i problemi in modo autonomo. In questi casi necessita di un appoggio per prendere certe decisioni o per maturare un più appropriato atteggiamento di fronte a certe nuove necessità. Immaginiamo ad esempio quando la Persona si trova a vivere un lutto improvviso, o una separazione particolarmente sofferta. Spesso queste sofferenze hanno solo bisogno di un qualificato appoggio che sappia, sia pure attraverso un sostegno, spingere la Persona verso il rinnovamento di sé, un rinnovamento che restituisca un senso nuovo alla propria vita. In questo ambito l’elemento “conoscenza di sé” assume una portata circoscritta e comunque mirata al campo della decisione. Non va comunque mai dimenticato che la “conoscenza di sé” è il primo atto di ogni agire. L’azione dell’uomo è sempre in qualche modo legata a ciò che “egli sa di sé”, o semplicemente e più frequentemente a ciò che “egli pensa di sapere di sé”. Spesso infatti decidiamo cose sbagliate perché abbiamo una errata visione di noi stessi. Quindi “sapere di sé” è fondamentale. La differenza è l’approfondimento di questo “sapere”. Nella psicoterapia d’appoggio è un sapere limitato e circoscritto alla situazione in se stessa; nella psicoterapia analitica il sapere di sé diviene il punto centrale. Il lavoro nobile è la conoscenza di sé, il sottoprodotto o effetto è il giusto comportamento, giusto in quanto consono a quel sapere di sé.


“come una musica l’incanto e la gioia guidano i miei passi, dimentico di tutto mi abbandono al sogno…”

GLOSSARIO

Autentico. Termine che nella psicologia esistenziale vuole indicare la vera vita del soggetto in quanto la vita che il soggetto conduce ed esprime rispetta pienamente le sue intrinseche vocazioni, e la sua vera particolare natura.

Co-riflessione. Costituisce il momento dell’alleanza riflessiva tra analista e paziente. E’ una della fase dell’analisi che sono: espressione – accoglimento; dialogo-richiesta – risposta-delucidazione; sintesi coriflessiva

Dimensione interiore. La risonanza intima degli accadimenti della vita, e inoltra la rielaborazione soggettiva degli accadimenti dell’esistenza che sono: esperienze, progetti, aneliti, sentimenti e vissuti.

Disagio psicologico. L’insieme delle sofferenze psicologiche che definiscono e esprimono un malessere che impedisce o semplicemente ostacola la vita del soggetto

Esistenza. L’insieme della vita sul piano biologo, relazionale e sociale, spirituale e ideale di ogni singolo soggetto umano.

Intenzionalità. Si intende quella spinta verso quel qualcosa che ci è intimamente necessario; anche quel manifestarsi di un anelito strettamente relativo alla profonda immagine di noi stessi.

Olistico. Termine che designa lo scenario complesso della vita di in soggetto, per cui nulla delle particolari esperienze che egli fa può essere separata dalle altre. L’uomo nei suoi vari comportamenti, atteggiamenti, pensieri e sentimenti è sempre un tutt’uno altamente organizzato in un significato che totalmente lo rappresenta.

Scacco esistenziale. Frattura traumatica, o impedimento del fluire dell’esistenza, contratta nella forma inautentica della monotonia senza speranza di divenire se stesso da parte del soggetto.
Sintomo. Manifestazione visibile o comunque percettibile da parte del soggetto del suo disagio esistenziale.

BY: Renato Barbruni

Le dimensioni dell’amore
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L’ESPERIENZA DELL’AMORE

Partiamo dall’anima per parlare dell’amore, poiché l’amore è un’esperienza dell’anima, poiché nell’amore l’anima fa sì che noi si faccia esperienza del mondo.
L’anima è il farsi persona del mondo, e lo può fare soltanto nelle esperienze totalizzanti, una di queste è l’amore.
L’amore ci percuote fino nel più profondo anfratto del nostro essere, al limite estremo della nostra forma esistente. L’amore trasforma e trascende, l’amore insegue e persegue. Nell’esperienza d’Amore ciascuno sente la necessità di andare altro se stesso, è quel senso di inadeguatezza che accompagna il momento dell’essere in-amore. Dire “sì” all’Amore è dare assenso al proprio spirito innovativo, poiché l’Amore svanisce quando svanisce l’anelito al proprio divenire. In questo caso assoggettiamo l’esperienza d’Amore alla conservazione della nostra quiete, non ci affidiamo alla sua (dell’Amore) spinta innovativa. Chi Ama è in perenne rinnovamento, rimane giovane nello spirito.
L’Amore è uno dei temi dell’Anima, ed è probabilmente il tema entro il quale si esprime l’Anima come discorso, come movimento verso la sua realizzazione. In Amore l’Anima si invera. E’ questo il senso della favola greca di Eros (Amore) e Psiche (Anima). E’ l’incontro con Eros che rende Vera, attuata, Psiche (Anima).

L’AMORE COME INCANTO SOGNO E PASSIONE

L’esperienza dell’incanto che come un’aura circonda l’amante preso dal pensiero dell’amato, fa sì che venga mutato il rapporto con l’interezza del reale. Attraverso il suo amore chi ama vede un mondo nuovo.

Il sogno come facoltà di trasfigurazione creativa, introduce l’amante verso aneliti di nuove possibilità di esistenza.

La passione costituisce la condizione abituale per cui l’amante si senti circonfuso in una realtà più grande a lui trascendente.

L’AMORE E IL DOLORE ovvero L’AMORE E IL SUO PARADOSSO

Prendiamo spunto da una poesia di Prevert, in cui troviamo le tracce dell’ombra dell’Amore: il dolore. Inevitabile, il dolore accompagna l’amore da sempre e per sempre.

PRIMA COLAZIONE

Lui ha messo
Il caffè nella tazza
Lui ha messo
Il latte nel caffè
Lui ha messo
lo zucchero nel caffelatte
ha girato
il cucchiaino
ha bevuto il caffelatte
ha posato la tazza
senza parlarmi
s’è acceso
una sigaretta
ha fatto
dei cerchi di fumo
ha messo la cenere
nel portacenere
senza parlarmi
s’è alzato
s’è messo
l’impermeabile
perché pioveva
e se n’è andato
sotto la pioggia
senza parlare
senza guardarmi
e io mi son presa
la testa fra le mani
e ho pianto

Sconsolata una donna piange la fine miserevole dell’incanto e del sogno e della passione; e la realtà che le appare è svuotata di senso, poiché lo spirito non alberga più entro le mura del rapporto tra lei e il suo uomo. Quelle mura si sono dissolte svelando un mondo opaco e sterile.

RESURREZIONE

Piano piano,
nel silenzio del mattino,
risboccia il fiore
eludendo la morte.
Il sole, lassù,
sorride, e sull’orizzonte risplende
il bacio della vita.
Un cigolio di finestra
riapre al giorno
la prigionia da inutili
e vuote passioni:
una pietra si spacca
rivelando un manto bianco,
un sudario inutile
e una gioia appena sentita.

Renato Barbruni

La fine di un amore si presenta alla donna della poesie, – ma può essere anche un uomo -, nel letto disfatto del risveglio mattutino, memoria della notte appena trascorso dove l’intimità è scolorita e scomparsa, rivelando “un sudario inutile”, un fare che non porta a nulla. I due non sono più Amanti, ma si costringono in un rapporto che sopravvive alla morte del loro essersi Amati. Ma quando lo sguardo procedo oltre la monotonia rassegnato e colpevole, e si torna ad ascoltare il flusso inesauribile del sorgere perenne della vita, la speranza si accende e illumina nuovamente lo scenario del proprio destino.

Ma il dolore è spesso accompagnato nell’amore dalle trame sottile e taglienti del senso della colpa. La colpa che deriva dall’aver inflitto una sofferenza,  di aver inflitto un dolore lacerante. Soffre chi è lasciato e soffre che lascia. Chi è lasciato soffre perché vede svanire il suo sogno, ma alle volte soffre perché incapace di lasciare libero l’altro rivelando così un modo di amare troppo intriso del desiderio del possedere. Perché l’amore si porta ancora dentro l’inquinamento che la storia dell’umanità gli ha imporesso. Il rapporto tra uomo e donna, in epoche passatre, era asservito alla conquista di nuove terre nella strategie della guerra. I conquistatori obbligavano al matrimonio o stupravano le donne della terra conquistata per aver da loro figlio che sarebbero così diventati eredi della terra conquista. In quel tempo storico l’amore deve aver subito una deformazione genetica, assorbendo in sé il senso del potere. Per cui uno possiede l’altro: ne ha il possesso.

Soffre chi lascia poiché si sente pervaso della colpa che deriva dal vedere il dolore della persona che ha un tempo amato e che forse a quel punto ama ancora, se pur di un amore diverso, più fraterno. E quando la colpa giunge agisce come distruzione di tutto ciò che incontra. Allora l’insicurezza pervade colui che sta compiendo l’atto del lasciare fino al punto di non saper più cose fare. Ne scaturiscono comportamento ambigui, discontinui e paradossali.

UNO SGUARDO ALLA POESIA

Jacques Prévert

QUESTO AMORE

Questo amore
Così violento
Così fragile
Così tenero
Così disperato
Questo amore
Bello come il giorno
Cattivo come il tempo
Quando il tempo è cattivo
Questo amore così vero
Questo amore così bello
Così felice
Così gioioso
Così irrisorio
Tremante di paura come un bambino quando è buio
Così sicuro di sé
Come un uomo tranquillo nel cuore della notte
Questo amore che faceva paura
Agli altri
E li faceva parlare e impallidire
Questo amore tenuto d’occhio
Perché noi lo tenevamo d’occhio
Braccato ferito calpestato fatto fuori negato cancellato
Perché noi l’abbiamo braccato ferito calpestato fatto fuori negato cancellato
Quest’amore tutt’intero
Così vivo ancora
E baciato dal sole
E’ il tuo amore
E’ il mio amore
È quel che è stato
Questa cosa sempre nuova
Che non è mai cambiata
Vera come una pianta
Tremante come un uccello
Calda viva come l’estate
Sia tu che io possiamo
Dimenticare
E poi riaddormentarci
Svegliarci soffrire invecchiare
Addormentarci ancora
Sognarci della morte
Ringiovanire
E svegli sorridere ridere
Il nostro amore non si muove
Testardo come un mulo
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Stupido come i rimpianti
Tenero come il ricordo
Freddo come il marmo
Bello come il giorno
Fragile come un bambino
Ci guarda sorridendo
Ci parla senza dire
E io l’ascolto tremando
E grido
Grido per te
Grido per me
Ti supplico
Per te per me per tutti quelli che si amano
E che si sono amati
Oh si gli grido
Per me per te per tutti gli altri
Che non conosco
Resta dove sei
Non andartene via
Resta dov’eri un tempo
Resta dove sei
Non muoverti
Non te ne andare
Noi che siamo amati noi t’abbiamo
Dimenticato
Tu non dimenticarci
Non avevamo che te sulla terra
Non lasciarci morire assiderati
Lontano sempre più lontano
Dove tu vuoi
Dacci un segno di vita
Più tardi, più tardi, di notte
Nella foresta del ricordo
Sorgi improvviso
Tendici la mano
Portaci in salvo.

BY: Renato Barbruni

Lo struggimento dell’anima
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Anima

IL tema dell’anima è il tema fondamentale della psicologia, è il tema che fonda la psicologia. Il termine “psicologia”, in senso etimologico, significa discorso sull’anima. La psicologia nel corso della sua storia, inseguendo il sogno illusorio e fuorviante di divenire Scienza, si è data strumenti di indagine e riflessione tipici delle scienze naturali. Così facendo ha dell’anima indagato più la sua forma apparente, lasciando sulla sfondo la vera essenza di essa. L’anima è un’esperienza particole dell’essere umano: è quell’esperienza dell’unicità attraverso la quale sentiamo risuonare dentro di noi un certo evento; in quel caso quell’evento entra dentro di noi e va a costituirsi come la nostra realtà interiore restituendoci il vissuto della soggettività; è un’esperienza che trasformare un evento in significativo per me. Il guardare quel particolare albero diviene esperienza di Anima nell’istante in cui il mio guardare trasforma quell’albero in qualcosa che ha significato per me.

L’esperienza del proprio significato

Il soggetto umano nella sua evoluzione percorre due linee direttrici:
1- quella che lo porta a sempre migliori capacità di adattamento;
2- quella che lo conduce a sempre più profonde riflessioni sulla modalità del suo rapportarsi al mondo.

L’evoluzione che porta il soggetto a migliori capacità di adattamento trova il suo riferimento iniziale nelle esigenze fisiologiche. In generale sono le esigenze che si riferiscono agli appetiti della biosfera. In questo ambito d’esperienza il soggetto, per così dire, è guidato dalle condizioni e dalle circostanze ambientali.
La linea direttrice che conduce il soggetto a sempre più profonde riflessioni sul modo di rapportarsi al mondo ha come punto di riferimento un fatto prettamente umano: il valore etico del proprio esserci nel mondo.
Questa esperienza è espressa da domande del tipo: perché esisto? Quale fine giustifica la mia presenza nel mondo? Quale scopo ha la mia azione?

In effetti il passaggio storico dalla condizione animale a quella umana avviene proprio come momento riflessivo circa il valore etico dell’azione esercitata sul mondo. Alle sue origini l’uomo si trova ad essere animale predatore come tanti altri; ma ad un certo punto della sua storia accade qualcosa di inaspettato. Egli, osservando le sue mani lorde del sangue della sua vittima, si trova a domandarsi il perché, il motivo di ciò che ha fatto: il perché del suo uccidere. Domanda questa che scaturisce dall’inquietudine esistenziale tutta umana che è vissuta come compassione e sentimento di pietà verso la vittima. La giustificazione della propria alimentazione, della propria sopravvivenza sul piano fisico-biologico, non è sufficiente a placare l’inquietudine e l’orrore di fronte alla pietà della sofferenza mortale. Qui nascono ritualità che costituiscono il nucleo di molte religioni come il rito dell’uccisione sacrificale dell’animale. In questi riti l’uccisione stessa e l’animale ucciso costituiscono l’offerta a Dio. L’uccisione diventa momento sacro: “sacrificare” e “sacrificio” trovano la loro comune radice etimologica nel termine “sacro” e quindi “rendere sacro” . Il che ci porta a ritenere che l’atto dell’uccisione viene recuperato sul piano di una giustificazione trascendente, quindi recuperato sul piano della giustificazione etica. In questo senso si può dire che l’uomo non può stare senza una giustificazione etica, e si può altresì affermare che l’uomo è un sistema etico. Eticità e umanità sono indissolubili.

E’ evidente che le domande relative ai significati non possono trovare risposta sul piano di una spiegazione meccanicistica del mondo, utilizzando quindi lo schema interpretativo di causa-effetto. Infatti il soggetto non si pone l’interrogativo circa la causa del suo esserci, ma si interroga sul fine, sullo scopo. Il mondo dei fini è il mondo dei significati, quindi dei valori, dove una cosa trova la sua giustificazione in qualcosa che la trascende (in un assoluto che trascendendola la comprende).

Ma cosa vuol dire che una cosa trova la sua giustificazione in qualcosa che la trascende?

Ogni cosa non è finita in se stessa, ogni cosa rimanda ad altro. La lampada, la scrivania, il tavolo, la sedia, tutti gli oggetti che si trovano nella mia stanza non sono finiti in se stessi, rimandano sempre a qualcosa d’altro. La mia matita, per esempio, rimanda allo scrivere che le si pone come trascendente rispetto ad essa: la mia matita trova la sua giustificazione (del suo esserci nel mondo) nel mio scrivere. Lo scrivere, a sua volta, rimanda ai miei pensieri, ma non soltanto a quelli poiché ad essi soggiace la mia esigenza di scrivere, di esprimere e comunicare certi miei contenuti mentali propri della mia esistenza. E tale esigenza, del comunicare, rimanda, a sua volta, al rapporto che io, come soggetto umano, vivo con l’Altro con il quale anelo comunicare.

Da ciò possiamo ricavare due considerazioni:

· la prima è che ogni cosa vive in un rapporto;
· la seconda è che il valore dell’esistenza di una cosa non è mai appreso immediatamente nell’atto percettivo, ma è colto nel trascendimento di questo.

Per trovare il valore esistenziale di una determinata cosa devo dunque individuare il rapporto nel quale quella cosa è situata. Quando si dice che nella nostra società non ci sono più valori ciò non è del tutto esatto. Il fatto è che sono mutate le relazioni nelle quali le cose e le persone sono collocate. Cosicché i valori sembrano scomparsi: ma in effetti ciò che è scomparso è un modo di relazione. Per trovare i valori contemporanei dovremmo indagare e scovare le relazioni in cui le cose e le persone si danno.

Facciamo un esempio.

Nella cultura contadina l’anziano aveva un ruolo e quindi un valore centrale. Ciò era determinato dal rapporto economico che le nuove generazioni avevano nei confronti dell’anziano che solitamente era il proprietario della terra. Il rapporto, in questo caso economico, che intercorreva tra genitore e figlio determinava il valore del padre. Infatti il padre rimandava alla titolarità della proprietà della terra. La proprietà della terra è l’elemento trascendente che individua e valorizza il ruolo sociale e interpersonale agito e incarnato dal padre. Con il mutare delle condizioni economiche e di proprietà, nonché delle modalità di acquisizione della proprietà, la centralità dell’istituto del patriarcato, e quindi del padre, viene meno. Il rapporto è chiaramente mutato. Questo mutamento modifica il valore di quella figura sociale ed affettiva. Risulta quindi mutato il valore affettivo e il valore sociale di quella figura. La morte del patriarca era senza dubbio una tragedia più profonda – sia sul piano sociale che sul piano personale – della morte del padre nella società contemporanea.

Quindi abbiamo osservato che il rapporto quale realtà immanente è colto mediante l’atto del trascendimento, trascendimento che ha come intenzione quella della ricerca del valore, inteso qui come relazione fondamentale.

Il rapportarsi è quindi la modalità che più d’ogni altra sostanzia (da sostanza, realizza, rende concreta, manifesta, rendere visibile) l’esperienza umana, che ha come sua matrice basilare l’anelito alla scoperta del senso, della giustificazione dell’esserci.
Senza un qualche significato della propria esistenza l’uomo non può vivere come uomo. Se l’uomo non ha tra le mani un significato che lo spinge a superare se stesso, sarà indotto a trovare tale significato nell’immediatezza della sua vita, e ciò lo porterà ad enfatizzare gli appetiti istintuali, quelli relativi all’appagamento immediato dei bisogni fisiologici, e quindi sarà preda della legge naturale.

Il bambino nasce in questa condizione, ed è destinato a rimanerci se non trova la possibilità di cogliere il valore etico del proprio rapporto con il mondo. Se egli è preda degli istinti tenderà a vivere il rapporto in modo utilitaristico.

Poiché egli sperimenta prevalentemente una sola legge, il soddisfacimento immediato dei suoi bisogni, questa tenderà a strutturare tutta la sua personalità. In una tale situazione esistenziale al bambino non interessa la crescita del rapporto, ma solo se stesso, un se stesso tutto identificato nei suoi bisogni immediati.

Possiamo osservare, ai fini del nostro discorso, che il bambino instaura rapporti con il mondo delle cose e con il mondo delle persone.

Con il mondo degli oggetti il bambino ha rapporti di tatto, di conoscenza e di funzionalità. Questo è un rapporto finalizzato al loro uso e a soddisfare determinati bisogni, come il piacere per esempio. In questo tipo di relazione il bambino impara a “dominare e usare”. Sono capacità importanti e che lo aiuteranno ad affrontare più adeguatamente la vita.
Il dominare diviene capacità di gestire, di governare certi processi dell’esistenza; l’usare evolve nella capacità del soggetto di poter disporre degli oggetti o situazioni che mano a mano gli si pongono di fronte.

Anche con il mondo delle persone il bambino sviluppa interazioni di conoscenza e funzionalità. Anche in questo caso il bambino impara a dominare e ad usare. Ma qui la situazione esistenziale possiede ben altre potenzialità di sviluppo. Se il rapporto con le cose non riesce ad andare oltre le categorie sopra menzionate – dominio e uso (quindi è una relazione che possiede un potenziale evolutivo limitato)-, la relazione con il mondo delle persone ha notevoli possibilità di sviluppo. Ad esempio non soltanto di crescita conoscitiva, ma bensì di crescita e ampliamento etico, e quindi dell’evoluzione della coscienza quale sperimentazione soggettiva della dimensione storico-universale. Quando parliamo di eticità parliamo di quell’elemento che costituisce l’interfaccia tra la dimensione personale-individuale-particolare e la dimensione collettiva-storica-universale. Difatti le problematiche etiche si collocano proprio nel momento di relazione tra il soggetto in quanto entità singolare e il soggetto in quanto elemento di una totalità sovraorganizzata. E’ evidente che la realtà etica spinge il soggetto a uscire dalle propria dimensione di individuo per aprirsi ad interrogativi sovrapersonali che derivano dalla dimensione storico-universale.

(Se l’oggetto è muto e si piega al volere del soggetto, la persona non si piega e ciò ende il rapporto più problematico)

Quando il bambino interagisce prevalentemente con il mondo degli oggetti e non riesce a scorgere differenza tra questo e il mondo delle persone, tenderà a trasferire le competenze acquisite nel primo modo di rapportarsi al secondo. In altre parole tratterà le persone come fossero oggetti poiché per lui non vi è differenza significativa. Tenderà ad enfatizzare le sue competenze in ambito di dominio e uso. Quanti rapporti umani possiamo definire fermi a questo stadio?

Si rende necessario quindi che il bambino impari a cogliere la pecularietà inerente al rapporto con il mondo delle persone. E la pecularietà è proprio la forte connotazione Etica di tale rapporto: la presenza in esso dell’amore.

Ma l’amore ahime! subisce l’inquinamento delle modalità prevalenti in un individuo: nell’amore infatti noi viviamo la nostra personalità. L’amore risente della immaturità o maturità della personalità; in altre parole risente del livello evolutivo raggiunto dalla persona.
Una personalità abituata a esprimersi in un rapporto di dominio e uso sarà una personalità ferma alla dimensione egoica quindi prevalentemente egoriferita: sarà una persona che non riesce ad uscire da se stessa. Infondo il rapporto con gli oggetti non ci permette di porre il problema “dell’oggetto”: quindi siamo schiacciati al livello delle esigenze immediate dell’Io; mentre il rapporto con una Persona ci obbliga a domandarci “dell’Altro”. Naturalmente questo interrogarsi dell’Altro sarà più coinvolgente se esiste con l’altro un profondo legame d’amore. Ma questo amore deve essere aiutato a svincolarsi dall’inquinamento delle modalità egoiche: dominio e uso.

Da quanto detto si ricava la necessità che il soggetto percepisca se stesso come utile e necessario all’altro del suo amore. Egli deve sperimentare quella dignità soggettiva che lo porta a sentire come di valore la sua presenza nella relazione. Ma come è possibile realizzare una tale forma di rapporto?
Il discorso è complesso basti però ora accennare ad un punto essenziale. Un rapporto è vero e autentico quanto rispetta l’esigenza di ciascuno di trovare se stesso. Quando lascia libero ciascuno di esser ciò che è: ed è questa ricerca di sé che costituisce l’equilibrio su cui poggia l’esigenza ed il valore di quel rapporto.

La solitudine: un’esperienza tra emarginazione e spazio soggettivo

La solitudine, come esperienza, può assumere i connotati dell’emarginazione; ma può anche delinearsi come lo spazio soggettivo nel quale emerge la parola interiore: la realtà interiore dello spirito.

Due modi diversi di vivere la stessa esperienza che risentono, per la loro definizione, del livello di coscienza o meglio della maturazione della personalità.
Infatti una personalità immatura (più avanti spiegheremo cose intendiamo per immatura) tenderà a vivere la condizione di solitudine come l’esperienza dell’emarginazione, cioè percepirà l’assenza dell’Altro come vuoto esistenziale: come incompletezza della propria esistenza.
In una tale esperienza è predominante, nel campo della coscienza, il senso del vuoto inteso come nulla. Un nulla schiacciante che mortifica la persona e ne svilisce il valore soggettivo.
Quest’insieme di vissuti e sentimenti presuppone un significato e un anelito propri dell’essere umano.
Il senso del vuoto, sperimentato di fronte alla mancanza della presenza dell’Altro, rimanda e suppone l’anelito verso l’Altro; rimanda all’essenzialità, per la Persona umana, che l’Altro ci sia, che l’Altro si faccia presenza nel rapporto.

L’Io, diceva Edmund Husserl, ha natura intersoggettiva. Ciò significa che l’IO non c’è, come realtà empirica, se non nel continuo rapportarsi all’Altro. L’anelito al rapportarsi è dunque connaturato all’Io. E’ tanto connaturato da costituire una condizione ontologica: vale a dire una condizione essenziale per l’esserci dell’Io.
Da ciò possiamo ben affermare che se l’Io è impedito o impossibilitato all’esperienza della relazione, il vissuto dell’alienazione è inevitabile. Ciò che viene alienato, sottratto, è l’Io in quanto soggetto. E a ciò consegue la inevitabile mortificazione della Dignità Soggettiva. L’Io fa comunque esperienza della conoscenza, sia pure su un piano puramente e meramente percettivo, ma non fa esperienza della conoscenza come fatto soggettivo in quanto l’esperienza della soggettività è negata.
L’elemento di immaturità, accennato sopra, si colloca proprio in questo punto: l’Io non vive l’esperienza del relazionarsi, oppure, se la vive, ne percepisce la natura condizionante: in altri termini non può essere se stesso.

Nella sua evoluzione un Soggetto umano incontra vari tipi di bisogni la cui soddisfazione è essenziale affinché il cammino continui verso stadi sempre più maturi.
Il bambino viene al mondo portando una serie di bisogni la cui soddisfazione è essenziale per la sua sopravvivenza: basti pensare al bisogno di essere nutrito, protetto dal freddo, ecc. Vi sono poi altri bisogni, come ad esempio l’essere accarezzato o tenuto in braccio, la cui soddisfazione presuppone la presenza dell’Altro. E’ anche attraverso tali momenti che il bambino comincia ad entrare in relazione con l’ambiente umano.
Superata questa fase, e ovviamente soddisfatti questi bisogni primari, il bambino sarà facilitato ad aprirsi verso il mondo che lo circonda. Durante quel periodo egli elabora un atteggiamento positivo verso l’ambiente. Egli sorride alle persone, guarda con interesse qualunque cosa gli venga presentata. Il bambino è pronto a tuffarsi nel mondo umano costituito di relazioni sempre più complesse.
Ed è proprio in questo periodo che il bambino, spinto dall’anelito all’incontro con l’Altro, impara il linguaggio il cui esercizio gli richiede uno sforzo notevole. Ma egli è guidato da un grande anelito d’amore verso il suo prossimo, così fa di tutto per essere accolto e accettato dall’Altro.
E’ qui che emerge il bisogno di appartenenza, di appartenere ad una comunità: qui emergono i bisogni psicologico-relazionali. Qui l’Io manifesta in modo più evidente la sua natura intersoggettiva.
L’esperienza di sentirsi emarginato, di sentirsi escluso è primitiva, è l’altra faccia dell’anelito a stare-con-l’Altro.

Una soggetto che nel corso della vita non abbia superato tale fase, quindi non abbia sperimentato se stesso come interlocutore dell’Altro, tenderà a vivere i momenti di solitudine come momenti di esclusione dagli altri, e quindi a viverli come negazione del proprio Io o negazione del proprio anelito relazionale.

In una fase storica dove il fatto relazionale è scaduto a momento solamente comunicativo e non già di autenticità, l’esperienza della solitudine è molto diffusa.
Nell’infanzia il bambino è lasciato sempre più spesso solo poiché a lui non è richiesto di entrare in rapporto significativo con il mondo degli adulti. Allo stesso tempo le esperienze relazionali tra coetanei sono ridotte tanto più quanto i giochi collettivi vengono meno praticati. Le attività che il bambino svolge sono sempre più individuali, e individualizzanti. I momenti di aggregazione sono ristretti nel tempo e nello spazio.
Nell’organizzazione della famiglia, come nell’organizzazione della scuola (tanto per citare due realtà sociali rilevanti nella vita del bambino), l’accento posto al fatto relazionale va da un massimo di trascurabile ad un minimo di assenza.
Quanto si adopera la scuola per insegnare ai bambini a rapportarsi tra di loro? Quanto li aiuta a comprendere le reciproche differenze?
E la famiglia non ha forse delegato quasi completamente alla scuola l’educazione dei figli, abdicando al ruolo che essa ha sempre svolto di trasmettitore di valori? E così facendo, la famiglia si deresponsabilizza al perfezionamento dei valori umani. Poiché i valori non sono dati nella storia dell’uomo una volta per tutte, ma seguono una loro evoluzione. E chi li fa evolvere se non l’uomo stesso nel corso della sua esistenza? Cosicché l’elaborazione dei valori è sempre più affidata alla struttura economica dominante. Così anche i valori diventano oggetto di consumo, invece di essere momento di elaborazione soggettiva delle realtà relazionali vissuta.
Dove oggi il bambino può recuperare quel senso della relazione umana che sente premere dentro di sé, ma che non riesce a sperimentare in una società che solo a parole si definisce “umanistica”, ma che rivela essere invece prevalentemente tecnocratica, massificante e materialista?

Fin qui la denuncia dei connotati di emarginazione relativi all’esperienza di solitudine.
Colta in questa luce la solitudine sembrerebbe possedere solo aspetti negativi. Ma non è così. In essa sono presenti aspetti interessanti e positivi.
La solitudine è anche lo spazio nel quale può emergere quella parte di ogni singolo soggetto umano che ne costituisce l’aspetto più personale. Alludo ancora una volta alla soggettività.
Quando alle volte il bambino gioca da solo nella sua stanza, dentro di sé egli sperimenta un mondo molto personale, frutto della sua fantasia, della sua capacità creativa di ristrutturare la realtà attraverso i suoi sogni, le sue paure e attraverso i suoi aneliti più profondi e ispirati.
Un bambino in effetti non è mai solo. E’ meglio dire: un bambino che si sente amato, accolto in un mondo pieno di calore, non sperimenterà la solitudine solamente perché fisicamente accanto a sé quel giorno non c’è nessuno: poiché egli avrà imparato a dialogare con se stesso, in se stesso con un se stesso che si fa presenza viva dentro di lui, che si fa presenza interlocutrice dentro di lui.
Chi sperimenta la solitudine la sperimenta sempre, anche quando è in un luogo affollato, poiché non ha imparato a godere della presenza dell’Altro in sé stesso.
Quindi possiamo dire che sperimenterà la solitudine chi non avrà imparato a dialogare, parlare con l’Altro, un altro da sé, un soggetto staccato, diverso da sé stesso. E il dialogo con l’Altro è possibile solo nel caso che si sia superata la fase egocentrica, la fase narcisistica dell’anelito relazionale.
E ciò è possibile solo se il soggetto sarà evoluto ad una fase superiore dell’Amore: dall’Amore Egoriferito, all’Amore Eteroriferito. Da chi pone sé stesso al centro dell’Amore, a chi pone sé stesso come il centro dell’Amore.

E’ la nascita dell’Io Etico.

Il vuoto esistenziale è colmato dal partecipare alla vita di quell’Altro che porta il suo fardello di sofferenza e limitazione, un fardello che suscita speranze nuove. Ciò vuol dire che cogliamo l’Altro, quale significativo per noi, quando in esso intuiamo la presenza di quella frattura interiore che lo rende ai nostri occhi “colui che necessita del nostro amore quale momento di ricomposizione di quella ferita”. Il riconoscimento di quella ferita è possibile solo, però, se trova in noi la eco che la fa significativa ai nostri occhi. Lo strutturarsi di un rapporto significativo con l’Altro aiuta a rompere l’isolamento interiore poiché aiuta il soggetto a cogliersi degno di esserci nella relazione. Quindi la riflessione etica si configura quale superamento della solitudine che a sua volta va intesa come scissione tra l’esperienza della vita e il suo senso che viene sperimentato come inutilità esistenziale.

Antologia

Frammento da “Cosa accade al cielo quando piove” di Renato Barbruni

…Soltanto nelle trame infinite dei pensieri infiniti di Dio può esserci l’instabilità. Ma è l’instabilità di ciò che è infinito, eterno e dunque questa è soltanto il battere delle ciglia che sospende per una frazione di tempo lo sguardo, mentre la mente lo tiene, e l’anima si affida alla memoria di ciò che è stato visto. E’ il destino dell’anima quello di affidarsi, poiché essa vive nella sua sospensione, essa vive sospirando; non tocca e non si esaurisce nelle cose certe, essa è sospesa, sospesa tra le cose attuate e le cose in avvenire. Questo è il tremore dell’amore: chi ama è sospeso tra l’attualità, il compiuto, e le cose in avvenire, ciò che è da compiersi. Illusoriamente chi ama pensa di vivere nell’instabilità e pensa che l’amore sia precario: ma l’amore è eterno. Possiamo sospenderne la percezione, la consapevolezza per qualche istante, ma esso vive nella costanza eterna del pensiero di Dio….

Dall’Enneadi di Plotino:

“Credo perciò che gli antichi saggi, che cercarono di ottenere la presenza degli esseri divini erigendo templi e statue, dimostrarono di aver ben visto nella natura del Tutto; essi intuirono che, pur se quest’anima è docile ovunque, è tanto più facile ottenerne la presenza là dove venga escogitato un ricettacolo acconcio, un luogo particolarmente atto a ricevere una qualche porzione o fase di essa, qualcosa che la riproduca o la rappresenti e che riesca, come uno specchio, ad afferrare un’immagine di essa.”

Il ricettacolo che raccoglie l’anima è l’incontro d’amore; è il luogo spazio temporale dove l‘anima si fa presenza e si personifica nell’esperienza del Noi.

Miguel de Unamuno

“Per avere compassione di tutto, per amare tutto, l’umano e l’extraumano, il vivente e l’inesistente, bisogna sentir tutto dentro di sé, dare a tutto una persona. Poiché l’amore personifica ogni cosa che ama, ogni cosa di cui ha compassione… Si ama soltanto chi ci somiglia… è l’amore stesso quello che ci rivela la nostra somiglianza con loro, l’amore personifica tutto ciò che ama. Ci si innamora di un’idea unicamente personificandola.”

L’esperienza dell’amore si svolge nell’intimo della persona là dove la persona diviene persona, nel senso di una esperienza che ci trasforma personificando ogni atto: ogni atto diviene me.

I bisogni dell’anima o soggettività trascendente

Un grande psicologo americano, Abrhaam Maslow, in un suo importante lavoro, Motivazione e personalità, elabora una teoria interessante sullo sviluppo della personalità. Egli costruisce il suo ragionamento intorno alla nozione di “gerarchia dei bisogni”.
La personalità, dice l’autore americano, cresce e si sviluppa in seguito alla soddisfazione di determinati bisogni, che liberano la coscienza di altri bisogni più evoluti. Nella prima fase della vita sono prevalenti e più presenti i bisogni della sfera biologica. Nei primi mesi di vita il bambino si può dire che non fa altro che mangiare e dormire.
Sembra quasi che non mostri altri bisogni se non quelli alimentari.
Mano a mano che i mesi passano assistiamo all’emergere di altri bisogni: il bambino si guarda intorno, diviene più curiosa e mostra di gradire il contatto fisico con l’adulto; vuole essere preso in braccio, piange quando lo si rimette nella culla.
A volte sembra che non voglia più abbandonare l’abbraccio della madre.
Già in quella prima fase della vita la madre sente in se stessa naturale parlare al bambino, rendendolo così partecipe delle cose che fa’.
Anche se la madre sa che il bambino non capisce le sue parole, ciò nonostante continua a parlare e così facendo il bambino si sente e vive l’esperienza della relazione.
Oltre all’abbraccio, al sorriso, agli sguardi che il bambino sente rivolti a lui, anche la parola, sia pure incomprensibile, lo conduce nel mondo relazionale ove trae quel senso di appartenenza che costituisce un bisogno tra i più importanti.
L’apparire di questo bisogno, dice Maslow, introduce il bambino nella sfera psicosociale. E’ qui che il soggetto si misura con gli altri, ed è qui che nasce tutta una serie di bisogni che andranno a fondare la problematica relazionale. Proprio nel relazionarsi con l’Altro il soggetto è spinto a rivolgere lo sguardo su di sé alla ricerca del proprio valore relazionale. Ed è qui che la domanda si sposta dal valore nella relazione al valore soggettivo, cioè dal valore di se stesso al di là della relazione.

E’ in questa fase che emerge alla coscienza del soggetto la problematica intrapersonale, vale a dire il rapporto con se stesso. In altre parole si fanno sempre più presenti i primi bisogni dell’anima.
Qui indichiamo solo alcuni di questi bisogni.

Il bisogno di autostima, è uno dei bisogni fondamentali dell’anima in quanto è l’esperienza che porta il soggetto a godere del rispetto di se stesso. L’autostima non va confuso con l’eterostima (la stima da parte degli altri). La stima (o eterostima) è un valore che gli altri ci attribuiscono, l’autostima è il valore che noi stessi ci attribuiamo. In tante crisi di identità è proprio l’autostima che viene a mancare anche quando gli altri sono prodighi di stima nei confronti del soggetto. Quando viene a mancare il rispetto di se stessi la personalità frana.
Un altro bisogno dell’anima è li bisogno all’autorealizzazione. E’ il bisogno di un soggetto di realizzare la propria unicità e irripetibilità. Se un soggetto non può realizzare se stesso vive un sentimento di alienazione che lo porta alla disistima. Questo sentimento negativo è presente in tanti stati d’anima che sfociano nella depressione.

I bisogni etici sviluppano altre dimensioni dell’anima. Fra questi il bisogno di giustizia. Tutti ricorderanno il discorso della montagna: “Beati colore che hanno fame di giustizia, perché verranno saziati.” L’anelito alla giustizia è uno dei bisogni etici che il bambino sente frustrato. Spesso nei suoi confronti l’adulto tende a dimenticare che la giustizia non ha età. Molti bambini vengono soddisfatti nei loro bisogni biologici, sono ben nutriti, protetti da mille pericoli, ma forse non godono di quella giustizia profonda che condurrebbe loro a sperimentare il senso e la dignità della propria presenza come persona nella relazione. Ecco che abbiamo toccato una altro bisogno fondamentale dell’anima: la dignità soggettiva. Forse possiamo anche dire che questo sia il bisogno più importante. In termini mistici è la risposta alla domanda che Sant’Agostino si poneva con grande inquietudine: “Ma chi sono io Signore che mi hai cercato in ogni luogo?” Il che vorrebbe dire: Quale valore ho per te Signore? Il valore che sento di rappresentare è sperimentato con quel sentimento di dignità soggettiva che fa sì che io avverta l’importanza del mio esserci nel mondo, il senso della mia stessa esistenza. Il valore soggettivo è sperimentato a prescindere, e trascendendo tutti i ruoli che il soggetto può interpretare e vivere nel corso della sua vita. Il valore è trovato in quel unico e irripetibile che è l’anima. Diceva Jaspers: “…l’anima è divenire, espansione, differenziazione, nulla di definitivo e di compiuto…”

Una relazione umana deve tenere conto dei bisogni della biosfera, dei bisogni psicosociali e dei bisogni dell’anima. Deve anche tenere conto dei tempi dell’evoluzione del soggetto, dei conflitti che vive il soggetto nella sua realtà relazionale e nel rapporto con se stesso.

La bellezza

Consideriamo il tema della bellezza partendo dalla parola greca Kosmo. Si riferisce, come è ben noto all’insieme organizzato di pianeti, stelle, galassie e altri corpi celesti che compongo l’interezza del mondo visibile. Anche la parola di origine latina Universo si riferisce alla stesso oggetto.
Nonostante si riferiscano allo stesso oggetto i due termini lo indicano e quindi lo definiscono attraverso accenti diversi. Il termine greco kosmo tende a significare “ordine opportuno”, “appropriata sistemazione”: cioè organizzazione di un sistema attraverso un principio di armonio e di equilibrio. Elementi questi ultimi che rientrano all’interno della dimensione dell’estetica. D’altra parte il termine cosmesi deriva proprio dalla parola cosmo. Mentre la parole latina Universo significa organizzazione intorno all’uno: uni-verso.
Questo termine quindi indica una aggregato che si organizza intorno ad un centro, seguendo un principio di autorità.Quindi il cosmo, come organizzazione del mondo visibile, trova nel principio estetico una forte componente organizzativa, anche se non l’unica.
Mentre Universo lo trova nel principio di autorità. Ma la parola Kosmo, fa osservare J. Hillman “abbraccia significati come “in maniera conveniente”, “decentemente”, “onorevolmente” (Politica della bellezza, pag,94 J. Hillman, Ed. Moretti e Vitali). Tutto ciò spinge il significato della parole a collocarsi come sintesi tra estetica e morale. Proseguiamo il nostro ragionamento citando ancora Hillman quando riporta le caratteristiche di Afrodite, la dea greca della bellezza.
“…Ma Afrodite era più che una gioia estetica: era una necessità epistemologica, perché senza di lei tutti gli altri Dei sarebbero rimasti nascosti, come le astrazioni della matematica e della teologia, ma mai realtà palpabili.”
Passo suggestivo questo che si riferisce ad una potenzialità portentosa inerente all’esperienza di Psiche quando è toccata da Bellezza-Afrodite. La bellezza ci giuda verso l’intrinseca verità delle cose. Come gli è possibile? Quando siamo affascinati da qualcosa, lì noi troviamo l’energia , la motivazione e, successivamente, il risveglio di una più elevate intelligenza tale per cui la cosa nascosta non è più celata ai nostri occhi. Una teoria filosofica, un modello matematico, una teoria politica, una musica, prima che catturarci razionalmente, ci affascina, ci seduce: armi queste proprie di Afrodite, quando la Dea decide che è giunto il momento per noi di passare dal mondo visibile a quello invisibile degli Dei. L’importanza della bellezza sta tutta qui: è un’esperienza che ci apre a dimensioni dormienti della nostra personalità, e ci fa, per questo, più svegli, e quindi più presenti a noi stessi.

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