BY: Irene Barbruni

Ansia da prestazione
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In generale l’ansia è un’attivazione che comporta sia segnali emotivi che fisici rispetto ad uno stimolo esterno che richiede un certo impegno e concentrazione. Banalmente l’ansia che precede un esame spinge lo studente ad attivarsi per studiare e prepararsi al meglio. Quindi di per sé essa è fondamentale nella nostra vita. A volte però l’eccessiva attivazione comporta una problematicità e diventa un ostacolo per il soggetto. Uno di questi casi è l’ansia da prestazione, ossia quella preoccupazione eccessiva verso una situazione che si è in procinto di affrontare. Il soggetto vive un forte senso di inadeguatezza pensando a ciò che dovrà fare e, quasi sempre, tale atteggiamento lo porta verso un blocco e una valutazione negativa di sè stesso. L’ansia da prestazione è associata a varie manifestazioni somatiche, come palpitazioni e forte sudorazione, e spesso a vere e proprie problematiche come insonnia o problemi gastrointestinali.

Il soggetto vive una forte paura della valutazione negativa degli altri e un eccesso di auto-svalutazione. Essa può avere ripercussioni in differenti situazioni: lavorative e scolastiche oppure relazionali e sessuali.

L’individuo si sente incapace di affrontare le esperienze che lo attendono ed è quindi importante recuperare il senso della paura e del timore: il vero eroe non è colui che non prova paura, ma chi la affronta, che la sa gestire. Quindi la percezione di non sentirsi adeguati è comunque testimonianza di individui che sentono forte l’importanza di essere all’altezza della vita che ognuno è destinato a vivere. Una coscienza che permette di attribuire importanza a quella determinata situazione, quindi si configura come un elemento di maturità. Da qui il soggetto deve partire per riacquistare consapevolezza di sè stesso e della sua forza soggettiva.

Un altro elemento da tenere presente è il fatto che viviamo in una società che, attraverso gli spot pubblicitari e l’insieme dei messaggi che giungono anche da altre fonti, indicano e al fine impongono, un determinato tipo di personalità: deciso, impavido, che non ha incertezza e sopratutto che deve essere un vincente. Tutto questo aumenta la percezione del distacco, della lontananza dell’immagine soggettiva da quell’immagine imposta, che va a costituirsi proprio come un alter ego mai raggiungibile. Se riflettiamo per esempio sulla fruizione molto diffusa dei film pornografici, che impongono una sessualità e quindi una prestazione forte, ci si può spiegare del perché tanti giovani maschi cominciano a far uso del viagra, in quanto non si sentono all’altezza di ciò che la partner si aspetta da lui.

Chiaramente il modo e il luogo in cui si manifesta l’ansia da prestazione ci può raccontare meglio del significato particolare e personale che può avere. Comunque riflettere sul modello di riferimento attraverso cui emerge il senso di inadeguatezza può aiutare ad imparare a gestire l’ansia da prestazione.

BY: Irene Barbruni

I ruoli genitoriali sono cambiati? Perché si sente usare la parola “mammo”?
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Indubbiamente sono molti i cambiamenti che osserviamo all’interno dei nuclei familiari. Oggi la cura dei figli non è più esclusivamente svolto dalle madri. Ma perché a volte sentiamo il temine “mammo”? Spesso le parole che usiamo, anche in modo non consapevole, veicolano dei messaggi in modo subdolo: quindi, in questo caso, è importante riflettere sui ruoli genitoriali.

Al di là della cura del bambino, che può e deve essere suddivisa tra i genitori, vi è una modalità diversa di approcciarsi al proprio figlio. Entrambe le relazioni con i genitori sono fondamentali per la crescita, ovviamente parliamo di figure genitoriali amorevoli senza problematiche o patologie. Dal punto di vista relazionale la madre è più sensibile al mondo soggettivo del proprio figlio, quindi è più attenta alle problematiche psicologiche e relazionali. Questo atteggiamento facilita l’empatia con il bambino, ma sviluppa anche la tendenza ad una eccessiva protezione. Diversamente, il padre è più legato al mondo del fare, delle esperienze e spinge maggiormente il figlio verso il principio di realtà. Il principio di autorità del padre ha il ruolo di sviluppare nel giovane quelle capacità utili ad affrontare le difficoltà della vita.  Quindi, il padre spinge verso la volizione tralasciando, invece, gli aspetti etici e relazionali di quelle esperienze. Ecco che si comprende bene come i ruoli genitoriali siano equamente importanti e fondamentali per una crescita armonica, se sono equilibrati e dialoganti tra loro.

Alla luce di queste riflessioni la definizione “mammo” purtroppo svilisce sia la funzione materna che paterna. Oggi sappiamo che nel nostro paese le donne si occupano in modo prevalente dei figli e della casa, anche se sempre di più anche i padri sono impegnati nel lavoro domestico. Quindi la figura genitoriale maschile tende ad essere più presente nella relazione con il proprio figlio e di conseguenza questi tende ad aumentare le richieste al proprio padre.

Possiamo pensare che la definizione “mammo” sia legata al fatto che un padre che si occupa anche della cura della casa e dei figli, è visto come eccezione. In realtà una presa di coscienza dell’importanza della figura paterna oggi è fondamentale. Il maggior tempo educativo con i figli, tenendo conto delle caratteristiche psicologiche che abbiamo spiegato, è auspicabile e prezioso anche per il padre stesso. A volte capita di leggere della “crisi del padre”, ossia del principio di autorità, che oggi spesso si osserva. Al di là di quello che si fa con il proprio figlio è fondamentale l’atteggiamento del genitore. E’ giusto liberarci da vecchi stereotipi circa i ruoli familiari perché un padre che cucina per i propri figli non perde la propria identità maschile. Tuttavia il padre oggi tende a dimenticare il suo ruolo normativo e indicativo per scivolare verso un ruolo più amicale che paterno. E’ molto importate che il padre sappia trovare l’equilibrio tra la sua maggiore presenza nella vita del figlio, con le conseguenti complicità ludiche, a cui ciò lo espone, con la necessaria attività orientativa, sia pragmatica che etica, del proprio figlio. Per far ciò è necessario che egli sappia mettersi in discussione, si adoperi per analizzare il senso ed il movente che muove le sue scelte e il suo agire. Se sarà vigile in se stesso e su se stesso, potrà evolvere proprio attraverso l’evoluzione delle necessità del figlio, aiutandolo a sviluppare le capacità pragmatiche, poetiche ed etiche che ne garantiranno una vera autonomia.   

BY: Irene Barbruni

I rischi della pornografia sulla formazione della persona
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Diverse sono le ricerche che hanno approfondito gli effetti delle immagini pornografiche sul funzionamento del cervello. Conosciamo le conseguenze sull’adulto come ad esempio la dipendenza e le problematiche sul desiderio sessuale, ma attualmente, vista la facilità con cui è possibile anche per i più piccoli entrare in contatto con quel tipo di immagini, si stanno studiando i pericolosi effetti sulla formazione della personalità. Alcune ricerche hanno registrato la modificazione della struttura cerebrale dell’emisfero sinistro in seguito all’esposizione alla pornografia online che determina una forte reazione emotiva.


Negli ultimi anni si osserva che l’esordio del periodo adolescenziale tende ad anticipare, ossia sempre più precocemente i giovanissimi agiscono la loro sessualità. Purtroppo però tutto ciò a fronte di un’ immaturità relazionale ed etica, spesso accompagnata da un’ inconsapevolezza delle problematiche legate alla propria identità sessuale. Questa disarmonia diventa un problema in quanto i ragazzini agiscono sessualmente senza rendersi conto di quello che fanno e soprattutto senza gli strumenti etici e relazionali che la situazione richiede. A questo dato dobbiamo considerare che i bambini hanno sempre di più la possibilità di connettersi a internet in età sempre più precoce. Le statistiche ci dicono che circa il 30% dei bambini accede alla pornografia online, la percentuale sale al  44% dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni.

Considerando il contesto culturale in cui si muove l’adolescente attuale, la spinta verso le esperienze emotive e la ricerca del piacere come trama essenziale, la pornografia si aggiunge come ulteriore problematicità. I bambini non devono scoprire la sessualità attraverso la pornografia, in quanto in essa viene proposto un modello che non corrisponde alla realtà e soprattutto alle esigenze umane. Inoltre tanto più il bambino è piccolo tanto più i rischi sono alti, in quanto si troverà a dover affrontare emozioni che non è in grado di gestire e dalle quali viene quindi sopraffatto e travolto.

Se lasciamo che siano questo tipo di immagini ad avvicinare i giovanissimi alla sessualità, chiaramente forniamo una rappresentazione distorta, molto lontana da una sana sessualità. Con “sana sessualità” si intende una sessualità vissuta all’interno della sfera relazionale connotata da sentimento di reciprocità ed ispirata all’ideale della comunione tra le persone. La pornografia invece mostra un maschio dominante e una femmina sottomessa ripiegata a puro oggetto del piacere, e quindi in modo implicito fornisce l’idea che la donna provi piacere nell’essere umiliata e dominata. Teniamo presente che, al di là delle immagini pornografiche, oggi la cultura è dominata da una visione maschilista della sessualità la quale tende ad essere vissuta e vista come momento di piacere slegato dalla relazione e dai sentimenti. Una sessualità che si sviluppa dalla trama dell’uso e del dominio dell’altro, presuppone anche la visione dell’altro come oggetto da usare. Tale vissuto è alla base dell’insoddisfazione sessuale che oggi registriamo costantemente. Infatti come mai, nonostante oggi, dove i costumi culturali hanno liberato la sessualità la quale non ha più vincoli morali, assistiamo ad un aumento dell’insoddisfazione, delle insicurezze e delle problematiche sessuali? Tra l’altro il tema dell’ inibizione sessuale era ed è al centro di differenti teorie psicoanalitiche, da cui l’indicazione di quelle teorie di vivere più liberamente la sessualità.

Quindi nonostante la cultura abbia liberato la sessualità si assiste, come dicevo, ad un aumento dell’ insoddisfazione sessuale. Questo perché essa è stata privata della sfera relazionale cadendo nella logica maschile; ciò che genera la vera soddisfazione è una sessualità vissuta all’interno della relazione d’amore. La pornografia contribuisce ad alimentare una cultura dionisiaca che contraddice le vere esigenze del soggetto umano, da cui l’insoddisfazione. Da questa frustrazione oltretutto si genera l’uso di sostanze allo scopo  di provare il piacere che questa sessualità impoverita non offre più.

Il compito dei genitore è assai difficoltoso, in quanto non solo si deve vigilare sulla percezione della sessualità ma, al contempo, difendere i figli dalla trappola delle immagini pornografiche, le quali si trovano anche in tanta pubblicità. I genitori devono prendere coscienza di questa realtà. Purtroppo la sola sorveglianza a casa non basta in quanto ci può essere sempre un altro bambino che può mostrare filmati in qualsiasi luogo o contesto. Quindi è importante che siano i genitori a riflettere con i loro figli su queste tematiche e li supportino fornendo loro quella capacità critica che non possono avere in giovane età. Le riflessioni non dovranno riguardare solo o prettamente la pornografia, ma in senso più ampio è fondamentale fornire un’educazione all’affettività e al rapporto tra i sessi. E’ fondamentale contrastare la deriva culturale e maschilista, di cui abbiamo accennato, cercando di trasmettere ai più giovani l’educazione al rispetto di se stessi e dell’altro; soprattutto parlare di sentimenti e non solo di emozioni.

BY: Irene Barbruni

Ragione e sentimento
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In diversi ambiti culturali ritroviamo il tema del confronto tra la parte più razionale di noi e quella legata alla sfera dei sentimenti: il conflitto tra mente e cuore. Esso viene ripreso numerose volte nell’ambito letterario e cinematografico, lo ritroviamo in molte fiabe e in diversi miti. Uno di questi è il mito di Eros e Psiche che racconta le vicende del dio dell’amore che si innamora di una bellissima mortale. Nel racconto troviamo Psiche che non può vedere il suo amato, poiché arriva solo durante l’oscurità della notte. L’oracolo aveva predetto che Psiche si sarebbe sposata con un mostro e le sorelle le suggeriscono di illuminare il suo amato per vederne il volto. Eros la scopre e mette in dubbio il suo amore. Psiche si troverà in seguito a dover superare diverse prove per riavvicinarsi al suo amato. Nuovamente in una delle prove la curiosità di vedere il contenuto di un’ampolla getta Psiche in un sonno profondo, come punizione di non aver saputo trattenere la curiosità. Eros però la salva, conquistato dall’impegno di Psiche, e i due si sposano.  Questo aspetto evidenzia come anche in ognuno di noi, il dialogo e l’equilibrio tra cuore e mente è la chiave per affrontare momenti importanti della vita.

Spesso ci interroghiamo sul senso di alcune scelte e ci domandiamo se ha prevalso la ragione o il cuore. In altri casi definiamo il nostro tipo di carattere identificando la nostra tendenza prevalente. Jung nell’opera “Tipi psicologici” suddivide le funzioni psicologiche in razionali ed irrazionali. Nel primo gruppo inserisce il tipo pensiero e il tipo sentimento, mentre nel secondo il tipo sensazione ed il tipo intuizione. Ognuno di noi possiede una propensione ad utilizzare una modalità piuttosto che un’altra, la strada dell’equilibrio non è quella del giudizio cercando una modalità giusta, ma di dare spazio al dialogo con noi stessi poiché è solo attraverso di esso che possiamo raggiungere l’armonia che fornisce la giusta serenità alle scelte che prendiamo.

Da ciò l’importanza di un’analisi introspettiva alla ricerca della modalità che abitualmente usiamo e quelle che non usiamo, che si sono come addormentate. Per evitare di rimanere troppo legati ad una sola modalità è bene tentare di esercitare anche l’altra. Chi è troppo razionale dovrebbe esercitarsi alla visione poetica della realtà; così del resto chi è troppo irrazionale, dovrebbe cercare di esercitarsi nella razionalità per riequilibrare il sistema di pensiero e di essere che lo caratterizza.

BY: Irene Barbruni

Perché esiste la paura dei mostri?
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La paura dei mostri fa parte del mondo dell’infanzia di ogni individuo. Essa deve avere quindi un ruolo importante nell’evoluzione della nostra psiche.

Il noto psicoanalista Jung nel corso dei suoi studi sulla personalità, traendo spunto dalle scienze alchemiche, spiega che è fondamentale l’integrazione del nostro lato Ombra.  Esso rappresenta quella parte della personalità inconscia con la quale diviene necessario trovare un dialogo. Infatti stabilire un contatto dialogico con la parte profonda di noi stessi significa stabilire un legame con il nostro sapere inconscio, un sapere sedimentato nei millenni della storia. Infatti Jung aggiunge al concetto di inconscio personale, quello di inconscio collettivo, ossia l’insieme delle esperienze dell’umanità che risiede dentro la nostra psiche attraverso gli archetipi.

Il termine “mostro” ha assunto una connotazione esclusivamente negativa solo recentemente. In realtà in passato esso racchiudeva significati come per esempio “un segno divino inviato da Zeus” nel mondo greco; oppure in latino la parola “monstrum” era legato originariamente al verbo “avvertire”, “richiamare l’attenzione su”. Nelle fiabe non è un caso che essere inghiottiti dal mostro coincida con un momento di trasformazione. L’intreccio fiabesco ha proprio la funzione di spingere il bambino ad esplorare il proprio mondo interioree, da ciò trovare la soluzione tra dimensioni opposte come, per esempio, il bene e il male. Quindi il bambino impara prima ad esplorare la propria Ombra attraverso la fantasia, per poi avere gli strumenti per affrontare il mondo esterno e le difficoltà della vita reale.

A volte si può avere la percezione che i bambini di oggi non si lascino spaventare come i bambini di qualche decennio fa. Certo molte cose negli ultimi decenni sono cambiate. Oggi i bambini hanno meno occasione di entrare in contatto con la loro personale interpretazione del mostro che è raffigurato in modo esponenziale da film, cartoni animati e videogiochi. Il mostro è diventato iper realistico grazie alle nuove tecnologie. Inoltre è accaduta un’altra cosa particolare: sempre più spesso, in alcuni cartoni animati, il mostro è mutato in qualcosa che fa ridere (vedi il cartone animato Monsters & Co.), oppure diventa buono e protagonista della storia (come il personaggio di Vampirina). Si è cercato quindi di esorcizzare la paura? Purtroppo, in questo modo, si danno meno possibilità al bambino di trovare una soluzione attraverso il contatto con sé stesso. Il percorso che il fanciullo intraprende per riuscire a contrastare i mostri, gli permetterà l’affermazione della sua individualità e della sua autonomia. Quindi è probabile che oggi i bambini appaiano meno impauriti dai mostri perché si abituano a molteplici immagini, di fronte alle quali sono però passivi e hanno meno occasioni di esplorare tali immagini archetipiche ospitate nel profondo della loro psiche.

La paura dei mostri la ritroviamo anche negli adulti e nel mondo reale. Se nell’infanzia non si affronta il rapporto con il mostro nella propria fantasia non si potrà avere la giusta capacità di sicurezza nell’affrontare i “mostri reali” nell’età adulta. Quindi lasciamo spazio all’espressione creativa nei bambini lasciandoli incontrare i propri mostri, dandogli la possibilità di vincerli come gli eroi delle fiabe, proteggendoli così da immagini troppo realistiche che limitano le loro potenzialità creative. Il processo di evoluzione interiore passa anche attraverso l’interiorizzazione delle gesta dell’eroe positivo e giusto che sconfigge le avversità e le malvagità del mondo. Se l’eroe non è capace di distinguere il bene dal male (la confusione tra questi aspetti a cui abbiamo accennato sopra), il bambino cade nell’illusione che non vi siano avversità e che tutto sia possibile al suo desiderio. Ciò sviluppa una personalità in fondo fragile e non é un bene per l’evoluzione della persona.

BY: Irene Barbruni

L’autostima
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L’autostima è il valore o giudizio che un individuo attribuisce a sè stesso, quindi dipende dalla valutazione positiva che ognuno si può dare.

WiebkeBleidorn dell’Università della California ha realizzato la prima ricerca che studia l’influenza del genere e dell’età sull’autostima in differenti tipi di culture. Dai dati raccolti emerge che gli uomini tendono ad avere più autostima rispetto alle donne e, senza distinzione di sesso, aumenta con l’età.

Alcuni studi hanno messo in evidenza come nell’epoca contemporanea, soprattutto negli adolescenti, è molto presente la preoccupazione dell’apparire sui social media al meglio e molto spesso viene utilizzato il photoshop.  Vi sono statistiche che riguardano l’Italia che riportano di come nella maggior parte dei casi le donne italiane dichiarino di avere una media o bassa autostima, facendo posizionare l’Italia penultima nella classifica dei paesi coinvolti nella ricerca (ricerca “Beauty Confidence e Autostima” promossa da Dove e realizzata in collaborazione con Edelman Intelligence).

L’autostima è legata alla dignità soggettiva che un individuo ricava esclusivamente dal rapporto con sè stesso. Essa è un concetto ambiguo perché difficile da osservare, in quanto a volte può essere arduo capire se è veramente autostima o in realtà sia “eterostima”; ossia un valore ricavato dal consenso degli altri, quindi, ad un aderire al modello proposto dalla società a cui si appartiene.

L’autostima invece è legata esclusivamente all’esigenza di capire il valore personale. Nell’epoca contemporanea è data molta importanza al successo, ossia al consenso degli altri; ciò è reso ancora più amplificato dall’utilizzo di internet. Viviamo in un tipo di società che spinge alla ricerca dell’applauso e al sensazionalismo che quindi spinge, come abbiamo detto, l’individuo verso l’adesione al modello prevalente. Ogni individuo, però, possiede il suo valore proprio nell’ unicità che non può trovare espressione in un solo modello. Fondamentale è fin dall’infanzia rendere l’individuo meno dipendente dall’idea che il valore di sé si deve trarre dai “successi” che ci rendono protagonisti agli occhi degli altri. Coltivare la stima di sé alimentandola attraverso la cura dell’immagine che forniamo agli altri, non significa curare la propria autostima. A ciò spesso si aggiunge un ulteriore fatto che riguarda un’immagine finta legata ad un tipo di modello che limita l’individuo e nel quale non può alla lunga sentirsi rappresentato. Coltivando invece la vera autostima, in cui è il dialogo con il proprio sentire che deve essere affinato, si raggiunge un certo grado di serenità con se stessi. Una foto che ci ritrae in un momento gioioso o malinconico acquista significato quando la si riguarda associata ad una esperienza che abbiamo vissuto e non rimane vincolata alla sola immagine estetica. Un’immagine estetica che spesso è esclusivamente legata al modello, sia maschile che femminile, che la società propone e spesso, impone. Non a caso dalle ricerche statistiche si evidenzia che l’autostima cresce con l’età, ossia con la maturazione della personalità. Una maturazione che comporta la capacità di giudizio sempre meno vincolata dalle lusinghe sociali. Nel giudizio che la persona matura esprime di sé viene compreso non solo il suo aspetto e il suo immediato modo di comportarsi, ma anche la sua storia e le vicende che ha dovuto affrontare e superare. Da tutto ciò egli ricava la stima di sé, che non vuol dire “piena autostima”, ma stima relativa al possibile livello di realizzazione raggiunto.

Solo chi è in pace con sé stesso è in pace con il mondo, recita un antico proverbio.

BY: Irene Barbruni

L’autolesionismo in adolescenza
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Molti sono gli studi che negli ultimi decenni hanno cercato di quantificare la diffusione dell’autolesionismo, ossia quando una persona deliberatamente colpisce fisicamente il proprio corpo.  Si può distinguere tra autolesionisti occasionali e ripetitivi, a seconda del numero dei comportamenti autolesivi. Sappiamo che è un fenomeno che riguarda soprattutto gli adolescenti a partire dagli 11 anni circa ed è in continua crescita. Sulle percentuali della diffusione si trovano notevoli discordanze (le statistiche variano dal 17% al 41%) in quanto c’è una variabilità sulla definizione di autolesionismo: esso si può riferire sia all’intento suicidario sia a comportamenti meno gravi, come mangiarsi le pellicine fino a sanguinare. Comunque si ipotizza che il fenomeno sia sottostimato in quanto, spesso, il sentimento di vergogna porta a nascondere i segni per timore di essere giudicati e non compresi. Anche se il tagliarsi è un comportamento auto lesivo più frequente nelle ragazze, in generale l’autolesionismo sembra interessare abbastanza equamente entrambi i sessi.

Questo tipo di comportamento può essere associato ad una psicopatologia e quindi può assumere significati diversi. Quando esso si presenza in adolescenza è solitamente legato al momento di crescita che sta vivendo il giovane. L’adolescente infatti vive la “morte” dell’essere bambino e la trasformazione verso l’età adulta. Il gesto di tagliare la pelle si riferisce simbolicamente al taglio del bozzolo dal quale l’individuo, che sta crescendo, sente di doversi liberare. Il giovane vive la profonda tensione alla trasformazione: da un parte ne ha paura e dall’altra non sa come attuare questo mutamento. Il gesto, che simbolicamente è il tentativo della rottura della crisalide da cui si vorrebbe uscire, ha l’effetto di suscitare dolore fisico che attrae e distrae dalla paura del cambiamento. Questo atto si configura anche come atto espiativo: la ferita auto inflitta nasce infatti anche dal sentimento di colpa legato al non riuscire ad essere se stessi ed a non approdare all’attuazione di sé.

Questo sintomo testimonia quanto sia importante ed essenziale l’evoluzione dell’individuo ed il raggiungimento della propria individualità.

BY: Irene Barbruni

La forza della speranza
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E’ trascorso un anno circa dall’inizio di un’emergenza sanitaria che non ci aspettavamo. Senz’altro le ricadute psicologiche di questo periodo storico hanno notevoli differenze individuali, poichè la pandemia non ha certo colpito tutti allo stesso modo. C’è chi ha perso delle persone care, c’è chi vive in modo più o meno importante i problemi economici conseguenti, chi si è ammalato. Senza voler entrare nelle molteplici conseguenze che tale situazione può avere avuto in casi specifici, cercherò di descrivere ciò che accade a livello psicologico.

Importante è capire il tipo di atteggiamento che abbiamo di fronte a situazioni difficili e dolorose della nostra vita. Di fronte al dolore possiamo rimanere intrappolati, oppure trovare la capacità trasformativa che in esso esiste. Riuscire a conservare il sentimento della speranza diviene fondamentale. Un sentimento, quello della speranza, tra i più importati dell’essere umano.  Sperare vuol dire attendere fiduciosamente un futuro migliore, ossia, nonostante il dolore, la paura e la sofferenza, non perdere quell’intuizione che anche in ciò che non comprendiamo esiste un senso che lo rende sopportabile.

La speranza permette di intravedere un futuro prossimo in cui il dolore è destinato ad affievolirsi. Nella speranza ritroviamo il dialogo con la situazione contingente cercando quella capacità trascendente che abbiamo in noi e che ci permette di non identificarci nel dolore e nella sconfitta. La speranza è alla fin fine un’intuizione del Bene; nella filosofia di Kant troviamo l’idea che nel genere umano vi è una naturale ed innata predisposizione alla realizzazione delle intuizioni prime del Bene.

La speranza è un’esperienza psicologica essenziale e ne possiamo trovare una descrizione esauriente in tante immagini poetiche come quella di Emily Dickinson: “La speranza è qualcosa con le ali, che dimora nell’anima e canta una melodia senza parole, e non si ferma mai”. E’dunque un sentimento più che un concetto mentale. Possiamo definirla come uno stato d’animo che avvolge la personalità da un pathos che la tiene sollevata dal dolore e la protegge dall’annichilimento. Quindi è uno stato d’animo che va protetto, poiché il suo inquinamento è letale. A livello psicologico ed esistenziale è proprio la negazione della speranza a determinare l’angoscia.

E’ giusto differenziare tra desiderio e speranza in quanto il primo è legato alla volontà, la seconda è  una condizione di attesa che non vuole imporre nulla alla realtà. Essa sa attendere quel Bene che verrà nel modo in cui si presenterà. C’è anche differenza tra  fede e speranza. La prima è la certezza di cose di cui si ha speranza, mentre la seconda è l’attesa viva e fiduciosa in un bene futuro di cui comunque non si ha certezza.

Quindi è fondamentale che si comprenda l’occasione di crescita interiore che una situazione storica difficile e dolorosa porta in sé. L’atteggiamento e le risorse che possiamo mettere in atto possono cambiare radicalmente a seconda del nostro stato d’animo: se è di speranza o di chiusura nella difficoltà. Una frase di Victor Frankl può ben riassumere ciò che è stato detto: “Se non  è in tuo potere cambiare una situazione che ti reca dolore, potrai sempre trovare l’attitudine attraverso la quale affrontare tale sofferenza.”

Coltiviamo quindi l’attitudine alla speranza, aiutiamoci a custodire questo sentimento primordiale ed essenziale che anima la nostra vita.  Quando una gemma nasce lo fa senza rumore, prima non c’è, poi, all’improvviso è lì, nonostante il freddo, che essa, annuncia, sta per passare.

BY: Irene Barbruni

L’enuresi notturna nel bambino
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L’enuresi è una problematica che frequentemente si può incontrare nell’infanzia. Essa riguarda l’emissione incontrollata di urina successiva alla conquista della maturità fisiologica, che in genere avviene intorno ai 3/4 anni di età. Secondo i dati statistici, questa condizione riguarda un bambino su cinque fra i 5 e i 6 anni, ma anche bambini più grandi con netta prevalenza nei maschi. Possiamo distingue tra enuresi primaria e secondaria: la prima riguarda i casi in cui non c’è stata l’acquisizione del controllo, mentre nel secondo caso si presenta dopo un periodo in cui il bambino ha raggiunto quel tipo di autonomia. L’enuresi notturna, in particolare quella primaria, è la forma sicuramente più frequente. Tralasciando tutti quei casi in cui il problema rientra in un quadro generale più complesso, mi soffermo sui casi in cui essa si presenta non associata ad altre problematiche evidenti.

Il consiglio del pediatra diventa fondamentale poiché è importante escludere problematiche di origine organica. Soprattutto in presenza di enuresi secondaria però, essa può essere un sintomo di disagio psicologico. A volte può comparire in seguito ad un cambiamento importante nella vita del bambino come la nascita di un fratellino. Di fronte al problema è importante non colpevolizzare ma tranquillizzare. I genitori per primi non devono allarmarsi poiché spesso, nei casi più lievi, si risolve senza intervenire se non con rassicurazione e qualche piccolo accorgimento, come ad esempio seguire alcune regole alimentari alla sera. Nel momento in cui, invece, il problema sembra peggiorare o si riscontrano altri tipi di disagio emotivo, è bene approfondire.

Attraverso il sintomo, quindi, viene mostrato un disagio interiore che non è cosciente. Durante la notte il bambino rimane in contatto con se stesso e con le sue paure. Bagnare il letto è una regressione legata alla paura di crescere e quindi al desiderio di tornare nel grembo materno (il liquido amniotico). Spesso una vita diurna troppo piena di impegni, con poche occasioni per elaborare e rimanere in contatto con se stessi, porta ad una eccessiva stimolazione dell’estroversione a scapito delle capacità di introversione della personalità. Ecco che allora le paure durante la sera e la notte, diventano più difficili da reggere per un bambino non abituato al contatto con il mondo interiore. Può essere di aiuto rivedere il carico di stimoli durante la giornata ed aiutare il bambino a gestire il proprio mondo interiore. In quel mondo interiore costituito dall’immaginario, si annidano immagini e fantasmi che lo spaventano e, di fronte alla spinta che lo porta a crescere, può cadere nella tentazione di regredire (perché il mondo della prima infanzia è percepito come migliore in quanto erano presenti maggiori attenzioni della madre).

Il bambino deve esser accompagnato ad affrontare le paure della sua crescita, dandogli gli strumenti giusti: cioè le immagini e le nozioni che lo incoraggino a sperare nel suo futuro. Mostrargli l’immagine di un bambino adulto che s’inserisce nella vita sociale della famiglia, attraverso l’aiuto che offre ai propri cari, lo aiuta ad intravedere gli elementi forti e altruistici della sua personalità; questi lo sorreggono di fronte alla sua paure.

BY: Irene Barbruni

Hikikomori: malessere profondo in continuo aumento
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Hikikomori, che in giapponese significa isolarsi, è un termine che è stato scelto per definire una problematica che riguarda quei giovani che si ritirano socialmente. Inizialmente questo tipo di disagio è stato osservato a partire dagli anni Ottanta in Giappone, ma negli ultimi decenni sta interessando sempre più individui, anche nel nostro paese e in generale in tutti i paesi sviluppati. Si tratta di giovani, ma anche giovanissimi, che non studiano né lavorano e che si ritirano nella propria stanza annullando le interazioni sociali, spesso anche con la propria famiglia, in quanto dormono durante il giorno e stanno svegli nelle ore notturne. L’unico contatto con il mondo esterno lo hanno attraverso internet e i social network.

Le statistiche mostrano una netta prevalenza dei maschi, ma si presume che le ragazze siano in numero maggiore e che in molti casi non vengano segnalate, poiché culturalmente l’isolamento femminile assume una rilevanza minore soprattutto in determinati contesti culturali.

L’individuo inizialmente si auto reclude per evitare l’ambiente scolastico; spesso si evidenzia un fattore scatenante che non sempre appare evidente agli occhi dei genitori (un brutto voto, piuttosto che difficoltà con i compagni di classe o fenomeni di bullismo). Nella personalità del ragazzo si possono comunque osservare delle caratteristiche quali: difficoltà ad entrare in contatto con gli altri e angoscia della relazione. Questi disagi portano ad un eccesso di rinuncia e a declinare la propria vocazione relazionale (comunque presente in ogni essere umano), verso i mass media, i quali vengono percepiti mediatori, che quindi fungono da filtro protettivo nella relazione. Tutto questo porta ad un graduale peggioramento delle capacità di reggere e sopportare le frustrazioni che fanno parte delle esperienze quotidiane e delle relazioni interpersonali. Le relazioni che si instaurano davanti ad un computer hanno delle caratteristiche che portano ad un impoverimento delle capacità relazionali, poiché prive del contatto diretto e spontaneo con l’altro.

Spesso il disagio si manifesta con il rifiuto della scuola mostrando una grande sofferenza; accade solitamente nei primi anni delle superiori, ma anche già alle scuole medie. Il fattore scatenante può apparire agli occhi dei genitori, come abbiamo detto, un episodio innocuo,  ma che in una personalità fragile diventa motivo che giustifica la resa e quindi  l’abbandono scolastico ed infine l’auto-reclusione.

Diventa quindi fondamentale riconoscere i primi segnali di disagio; nel momento in cui il ragazzo comincia a saltare giorni di scuola e rinuncia a momenti di condivisione con i propri pari,  come lo sport o altri momenti di incontro. Il confronto tra genitori ed insegnanti in questa fase è fondamentale, come chiedere consiglio ad un professionista per evitare che si arrivi ad uno stadio troppo critico che richiederebbe un intervento più lungo e difficile.

Attualmente la didattica a distanza e il divieto, per motivi sanitari, di frequentare in libertà luoghi sociali, rende più difficile la valutazione della gravità di alcune situazioni. In questo momento storico delicato diventa quindi ancora più importante osservare con attenzione i nostri figli. Il confronto con la realtà e le esperienze dirette con gli altri, fatte anche di momenti di sofferenza e frustrazioni, sono fondamentali per la crescita. La consapevolezza che nella vita sono le difficoltà che riusciamo a reggere a renderci più forti e non solo quelle che riusciamo a superare, è una riflessione che non deve mai mancare nel lavoro educativo. Ogni età prevede delle frustrazioni con cui l’individuo deve confrontarsi per la propria crescita. Queste ultime riflessioni possono essere spunto per la prevenzione di disagi che riguardano la sfera relazionale, ma certamente nel momento in cui si sospetta l’instaurarsi di un ritiro sociale è  importante intervenire in modo tempestivo.

Il fenomeno non ha tuttavia solo motivazioni circoscritte alla sfera relazionale, ma investe proprio l’etica e la valorizzazione delle relazioni umane. L’attuale società sta sviluppando un’etica della relazione tutta piegata sul successo e sull’apparire, e ciò squalifica proprio la dimensione relazionale, la quale invece rappresenta il cuore dell’esperienza umana. Quindi promuovere una cultura della relazione, intesa come relazione di reciprocità, aiuta a contrastare la deriva autistica che osserviamo in quei giovani che si chiudono in se stessi e nella loro stanza.

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