BY: Irene Barbruni

La magia del Natale
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Il periodo natalizio è iniziato e in questo anno particolare è giusto ricordare ciò che rende speciale il Natale, sicuramente per i più piccoli, ma anche per i grandi quando sanno guardare con occhi fanciulleschi la realtà, almeno una volta all’anno.

I bambini vivono in modo spontaneo la realtà colorata di elementi magici e fantastici. La credenza di Babbo Natale o comunque qualcuno che la notte di Natale magicamente arriva a portare doni è un esempio della presenza del pensiero magico. Una forma di pensiero arcaica, più vicino all’uomo primitivo che non all’uomo contemporaneo identificato con la sola razionalità. Il pensiero magico è importante nella crescita, ma anche nella vita adulta, in quanto ci allontana dall’abitudine di utilizzare nei nostri processi mentali unicamente la relazione causa-effetto. Allontanarci almeno ogni tanto dalla logica deduttiva ci fornisce una preziosa alternativa in tutti quei momenti della vita in cui lo schema di pensiero causa – effetto non ci aiuta a cogliere i molteplici significati che arricchiscono al nostra vita.

Il pensiero razionale, che usa un solo scherma interpretativo (causa-effetto) e che circoscrive il suo raggio d’azione solo sulla realtà percettibile dai cinque sensi, diviene, in certi momenti, ostacolo alla possibilità molteplice presente nella realtà umana. Se pensiamo all’espressione poetica ci si rende conto che non è dal pensiero razionale che questa emerge, ma da una dimensione complessa che tocca anche il pensiero magico, quel pensare che vede ciò che i sensi e la ragione non sanno vedere.

Il bambino che crede al racconto dell’adulto, che descrive una realtà magica in cui esiste un personaggio che arriva con una slitta dal cielo, ci fa, almeno in parte, comprendere le potenzialità ma anche i pericoli che la mente infantile può avere. Potenzialità perché proprio i bambini oggi dimostrano che il pensiero magico gli aiuta ad essere più forti degli adulti perché sanno rendere più semplice la realtà spogliandola di tanti pensieri razionali ed inutili. Pensiamo al bambino che si fa male, gli basta un bacio della mamma per guarire: quel bacio è davvero curativo. Certo il pericolo di questo pensiero magico e di questa suggestionabilità è che si è notevolmente in balia degli altri. Per questo motivo è fondamentale proteggere il bambino da questa sensibilità, senza tuttavia negarla.

Nella iconografia cristiana, la rappresentazione del presepe, mostra una scena illogica dal punto di vista razionale: un piccolo bambino che salva il mondo. L’intuizione che racchiude, al di là del fattore di fede, espressa con la poesia della natività, ci introduce e ci coinvolge nel sentimento della  speranza. Sperare è una della qualità più importanti dell’essere umano. La speranza non è razionale, sconfina con un’ idea epica e mistica della vita. Nella sua semplicità il bambino, così toccato dal pensiero magico, ci mostra la via verso l’atteggiamento e il sentimento della speranza di fronte alle avversità della vita. Qualcuno arriverà quella notte a portarmi un dono, qualcosa che viene dal cielo. Il sentimento di gioia che vive il bambino quando vede quel dono, non è solo legato all’oggetto in sé, ma all’evento del miracolo. Purtroppo nella nostra realtà consumistica i bambini annegano dentro i doni rischiando di non percepire più la poesia dell’evento, possono ubriacarsi di oggetti. Spinti verso una visione solo oggettuale della vita.  Nonostante questi pericoli, se il genitore saprà proteggere il proprio figlio, riuscirà ad aiutarlo a mantenere il contatto con la dimensione magica e poetica che alberga nel suo intimo.

Quest’anno, ancora di più che in altri momenti, è giusto ricordare che il mondo può essere guardato con occhi infantili in cui un bacio e una carezza non sono solo atti meccanici, o comportamenti, ma gesti che ci immergono in un mondo dove anche la magia e non sono la razionalità ne fanno parte.

Auguro un sereno Natale a tutti e soprattutto auguro di ritrovare un po’ della magia che ha fatto parte dell’infanzia di ognuno di noi.

BY: Irene Barbruni

L’effetto placebo: il potere curativo della nostra mente
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L’effetto placebo è un fenomeno osservato da tempo in campo medico. Si riferisce alla potenzialità suggestiva che possiede la nostra mente sul corpo.  In generale un placebo è un medicamento che non ha una reale azione specifica. Esso assume una particolare importanza, per esempio, nel corso di un esperimento dove, accanto al gruppo di soggetti ai quali viene somministrata la cura, vi è un gruppo di individui ai quali viene somministrato una falsa cura. Quest’ultimo gruppo serve da controllo per verificare l’efficacia del trattamento con più certezza.

Molti sono gli esempi che testimoniano la capacità di guarire insita in noi stessi. Ad esempio negli anni cinquanta alcuni medici eseguirono false operazioni per la cura dell’angina pectoris e nonostante non eseguissero l’esculsione dell’arteria mammaria, ma semplicemente aprivano e ricucivano, i pazienti trovavano comunque giovamento dall’operazione. Sono molti e differenti i disturbi fisici che hanno una risposta positiva al placebo: dal mal di testa, alla febbre, alle verruche. Oggi sappiamo che circa il 35% degli individui che ricevono un placebo hanno un effetto significativo sulla guarigione. Ovviamente tale percentuale cambia a seconda della gravità del disturbo. Interessante è il fatto che ciò che influenza notevolmente l’efficacia di un placebo è il metodo di somministrazione. Si è visto, per esempio, che le iniezioni sono più efficaci delle pillole; probabilmente perché l’iniezione viene percepita come più efficace della pillola.

Prendendo spunto dal fenomeno del placebo possiamo ragionare sui meccanismi che possiamo innescare in modo inconsapevole. Sappiamo quindi che le nostre convinzioni hanno una notevole influenza sulla capacità o meno del corpo di dare avvio alle giuste vie per il nostro benessere. Nella vita capitano momenti di difficoltà che fatichiamo a superare, momenti in cui ci sentiamo impotenti ed incapaci di affrontare determinate situazioni. Ma come possiamo coltivare la nostra insita capacità di superare le difficoltà? Nell’effetto placebo, ciò che ci fa stare meglio, è la convinzione che una sostanza stia agendo nel nostro corpo, promuovendo un effetto benefico. Quindi le convinzioni, i pensieri hanno una notevole influenza su di noi. I pensieri si concretizzano in parole, ecco perché il linguaggio che usiamo, soprattutto per definirci, è importante. Il dialogo con noi stessi non è neutro e nemmeno innocuo. Esso può recare altri problemi, nel senso che un modo errato di definire e di raccontare noi stessi, influisce negativamente sul nostro umore. Avere consapevolezza del linguaggio è il primo passo per contrastare tutti quegli schemi di pensiero che non aiutano le nostre capacità, anzi che le ostacolano. Ad esempio frasi che a volte pensiamo e diciamo come “non sono capace”, “sono timido” oppure “non riesco a reagire”, non  sono di aiuto. Darci delle etichette di questo tipo riduce le nostre potenzialità e spesso non hanno nulla a che vedere con ciò che veramente fa parte di noi, perché un’etichetta non potrà mai definire la nostra complessità interiore.  Inoltre nella realtà contemporanea vi è la tendenza a sposare slogan come ad esempio “bisogna resistere, tenere duro”, come se la vita fosse una continua lotta. Ma questa modalità, che può andare bene in alcune situazioni, non è adatta sempre nella vita che è fatta di imprevisti che dobbiamo necessariamente saper accettare, per poterli trasformare.

Dobbiamo essere consapevoli del fatto che quello che diciamo e pensiamo finisce per assumere i tratti che definiscono in modo oggettivo la realtà, finendo così per crederci. E quindi ci percepiamo proprio in lotta come se fossimo in guerra. Naturalmente la cosa è molto più complessa, perché le parole che usiamo sono esse stesse frutto di un modo di sentire, il quale tuttavia è ulteriormente confermato dalle stesse parole che usiamo:  è un circolo vizioso.  Queste stringhe di parole, vanno a comporre una struttura narrativa che costituisce un alter ego: ossia un’ identità dalla quale ricaviamo o forza, o debolezza. Ma ad ogni modo essendo una costruzione non corrisponde alla nostra vera ed autentica identità, la sola che abbia in sé le capacità di renderci adeguati alle diverse situazioni.  Ecco che diventa importante a volte saper cedere, accettare e smettere di combattere e altre volte saper far fronte alle situazioni. Ma questa flessibilità è frutto di un rapporto sereno con noi stessi. Una serenità che deriva dal sapersi accettare e saper strutturare un giusto dialogo interiore: saper parlare in noi stessi in modo equilibrato. Proprio quando ci mettiamo in competizione con un ipotetico noi stessi,  dato l’effetto persuasivo o placebo delle nostre affermazioni, finiamo per alterare la nostra personalità autentica.  La continua riflessione sui pensieri che albergano nella nostra mente diventa fondamentale per liberarci da convinzioni che possono ostacolare la nostra naturale capacità di superare ciò che ci rende sofferenti. In questo senso analizzare con serenità il dialogo interiore e farlo maturare dovrebbe diventare una delle attività più importati per il benessere personale.

BY: Irene Barbruni

Hikikomori: malessere profondo in continuo aumento
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Hikikomori, che in giapponese significa isolarsi, è un termine che è stato scelto per definire una problematica che riguarda quei giovani che si ritirano socialmente. Inizialmente questo tipo di disagio è stato osservato a partire dagli anni Ottanta in Giappone, ma negli ultimi decenni sta interessando sempre più individui, anche nel nostro paese e in generale in tutti i paesi sviluppati. Si tratta di giovani, ma anche giovanissimi, che non studiano né lavorano e che si ritirano nella propria stanza annullando le interazioni sociali, spesso anche con la propria famiglia, in quanto dormono durante il giorno e stanno svegli nelle ore notturne. L’unico contatto con il mondo esterno lo hanno attraverso internet e i social network.

Le statistiche mostrano una netta prevalenza dei maschi, ma si presume che le ragazze siano in numero maggiore e che in molti casi non vengano segnalate, poiché culturalmente l’isolamento femminile assume una rilevanza minore soprattutto in determinati contesti culturali.

L’individuo inizialmente si auto reclude per evitare l’ambiente scolastico; spesso si evidenzia un fattore scatenante che non sempre appare evidente agli occhi dei genitori (un brutto voto, piuttosto che difficoltà con i compagni di classe o fenomeni di bullismo). Nella personalità del ragazzo si possono comunque osservare delle caratteristiche quali: difficoltà ad entrare in contatto con gli altri e angoscia della relazione. Questi disagi portano ad un eccesso di rinuncia e a declinare la propria vocazione relazionale (comunque presente in ogni essere umano), verso i mass media, i quali vengono percepiti mediatori, che quindi fungono da filtro protettivo nella relazione. Tutto questo porta ad un graduale peggioramento delle capacità di reggere e sopportare le frustrazioni che fanno parte delle esperienze quotidiane e delle relazioni interpersonali. Le relazioni che si instaurano davanti ad un computer hanno delle caratteristiche che portano ad un impoverimento delle capacità relazionali, poiché prive del contatto diretto e spontaneo con l’altro.

Spesso il disagio si manifesta con il rifiuto della scuola mostrando una grande sofferenza; accade solitamente nei primi anni delle superiori, ma anche già alle scuole medie. Il fattore scatenante può apparire agli occhi dei genitori, come abbiamo detto, un episodio innocuo,  ma che in una personalità fragile diventa motivo che giustifica la resa e quindi  l’abbandono scolastico ed infine l’auto-reclusione.

Diventa quindi fondamentale riconoscere i primi segnali di disagio; nel momento in cui il ragazzo comincia a saltare giorni di scuola e rinuncia a momenti di condivisione con i propri pari,  come lo sport o altri momenti di incontro. Il confronto tra genitori ed insegnanti in questa fase è fondamentale, come chiedere consiglio ad un professionista per evitare che si arrivi ad uno stadio troppo critico che richiederebbe un intervento più lungo e difficile.

Attualmente la didattica a distanza e il divieto, per motivi sanitari, di frequentare in libertà luoghi sociali, rende più difficile la valutazione della gravità di alcune situazioni. In questo momento storico delicato diventa quindi ancora più importante osservare con attenzione i nostri figli. Il confronto con la realtà e le esperienze dirette con gli altri, fatte anche di momenti di sofferenza e frustrazioni, sono fondamentali per la crescita. La consapevolezza che nella vita sono le difficoltà che riusciamo a reggere a renderci più forti e non solo quelle che riusciamo a superare, è una riflessione che non deve mai mancare nel lavoro educativo. Ogni età prevede delle frustrazioni con cui l’individuo deve confrontarsi per la propria crescita. Queste ultime riflessioni possono essere spunto per la prevenzione di disagi che riguardano la sfera relazionale, ma certamente nel momento in cui si sospetta l’instaurarsi di un ritiro sociale è  importante intervenire in modo tempestivo.

Il fenomeno non ha tuttavia solo motivazioni circoscritte alla sfera relazionale, ma investe proprio l’etica e la valorizzazione delle relazioni umane. L’attuale società sta sviluppando un’etica della relazione tutta piegata sul successo e sull’apparire, e ciò squalifica proprio la dimensione relazionale, la quale invece rappresenta il cuore dell’esperienza umana. Quindi promuovere una cultura della relazione, intesa come relazione di reciprocità, aiuta a contrastare la deriva autistica che osserviamo in quei giovani che si chiudono in se stessi e nella loro stanza.

BY: Irene Barbruni

Il bambino e il no. Il significato dell’opposizione tra normalità e patologia.
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La fase dell’opposizione è una fase importante nello sviluppo infantile. Il bambino provoca l’ambiente per mettere alla prova la sua autorevolezza e la capacità di contenimento del genitore. Questa fase inizia intorno ai due anni, momento in cui il bambino comincia anche a definirsi con “Io”. La funzione principale di questo periodo è quella di affermare la propria individualità che non va confusa con la necessità dell’indipendenza, in quanto la necessità della propria indipendenza richiede dimensioni psicologiche più evolute.  Quindi, in questa fase precoce l’esigenza di affermare se stesso viene catturata all’interno della propensione all’autoriferimento. Il bambino non ha e non può avere coscienza della sua dipendenza dalla figura materna, egli tende a usare la madre e tende con ciò a dominarla, assaporando il gusto di un tale potere. 

La durata di questa fase e l’intensità dei così detti “capricci” dipende molto dalle risposte che i genitori sviluppano. Purtroppo non è uno stadio che scompare da solo con l’età, ma necessita dell’intervento educativo dei genitori. I bambini imparano presto che in luoghi pubblici, o comunque in presenza di altre persone, gli adulti sono più propensi ad accettare le richieste per evitare le “scenate” del proprio figlio. Quasi sempre vi è la richiesta di qualcosa che il bambino vuole subito, ed è bene, in questi casi, essere fermi ed autorevoli. Altrimenti si finisce per confermare lo sviluppo delle capacità monipolatorie, che il bambino impara ad usare quando si fa dominare dall’esigenza di soddisfare nell’immediato il suo desiderio.  Il no del genitore può essere accompagnato da una spiegazione, soprattutto quando il bambino, a partire dai tre/quattro anni, è in grado di comprendere i motivi del rifiuto. Nel caso non si riesca sul momento a spiegare al bambino i motivi, si potrà farlo in un momento successivo di maggiore tranquillità.

È fondamentale quindi non cedere mai quando la richiesta del bambino è accompagnata da una modalità di imposizione sull’adulto. Inoltre è buona regola non accontentare subito una richiesta, ma posticiparla; in questo modo viene allenata la capacità di attesa e quindi di contenimento di quel desiderio.  Infatti la capacità di contenere e di attendere, quindi di reggere il tempo, saranno deteminanti in tanti ambiti della sua vita. Il bambino che non sa attendere si condanna alla subordinazione ai suoi bisogni, che lo portano a sviluppare una personalità incline alla dipendenza. E quindi a vivere nell’immediatezza senza capacità di mediare tra i suoi desideri e il dato di realtà che gli si poni di fronte.  L’esercizio dell’attesa e della mediazione contribuiscono a sviluppare la funzione riflessiva, che è alla base dell’evoluzione del pensiero. Altrimenti il pensiero,  dominato dall’impulsività irriflessiva, appiattisce le sue potenzialità di discernimento della realtà.

Un altro aspetto importante, da affiancare alla condivisione delle ragioni del no dell’adulto nella relazione con il bambino, è l’aspetto della collaborazione. Man mano che il bambino cresce è bene  richiedere la sua collaborazione e coinvolgerlo nelle scelte e nelle regole della casa e della famiglia, in quanto ciò aiuta a sviluppare in lui una modalità di relazione più matura. Anche perché, non va dimenticato, che in questa fase, come si diceva sopra, il bambino è traversato dall’esigenza dell’Uso e del Dominio che ne regolano le scelte e quindi l’etica. L’esercizio alla collaborazione aiuta a scavalcare la fase nella quale egli vede la sua vita come uno scenario fatto di lotte.  In un ambito collaborativo l’altro smette di essere percepito come nemico o come strumento da usare, ma viene visto quale interlocutore.  Ciò fa evolvere la sensibilità etica: dalla fase della contrapposizione, colorata dal dominio sull’altro, si passa alla fase della dialettica relazionale e della comunicazione colorate dalla reciprocità.

Ci tengo a specificare che la fase dell’opposizione non va confusa con il Disturdo Oppositivo Provocatorio che necessita di una diagnosi di uno specialista e un successivo intervento, che solitamente coinvolge sia direttamente il bambino che l’appoggio ai genitori. In alcuni casi questo tipo di disturbo è associato ad altri quali: Disturbo da Deficit di attenzione/iperattività (ADHD), depressione, ansia e Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

Quindi il no rivolto al bambino in certi momenti e accompagnato dalla necessaria spiegazione, aiuta l’evoluzione sia psicologica che sociale del piccolo d’uomo, affinché impari a diventare adulto.

BY: Renato Barbruni

Il dolore quale interlocutore dell’anima
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    La colpa connessa con il male, sia come malattia che come sciagura, impone la sua presenza da tempo immemore. Nell’interpretazione buddista la sofferenza è figlia terribile del karma, della colpa individuale. Risolvendo la situazione karmica, che il soggetto vive e subisce, troverà la verità del proprio irrisolto, e in quell’istante  troverà la pace. Nel cristianesimo la sofferenza del singolo individuo può non essere legata ai propri errori, ma alle colpe dell’umanità. Nella leggenda del Grande inquisitore, nel romanzo di Dostoevskij, I fratelli Karamazov, è descritta la catastrofe esistenziale dell’ateismo tragico. E’ Ivan, uno dei fratelli Karamozof, a parlare:“ Non è che non accetti Dio, (…) la mia è una rivolta. (…) Immagina di essere tu a edificare il destino  degli umani con lo scopo di rendere felici gli uomini, di concedere loro, alla fine, pace e serenità, e che per farlo sia necessario e inevitabile fare soffrire anche una sola creatura, quella bambina, per esempio. (…) ebbene acconsentiresti ad essere l’artefice a queste condizioni?” “No, non acconsentirei” disse Alëŝa. 

      Ivan si ribella all’idea che la salvezza passi attraverso la sofferenza dell’innocente. La sofferenza sarebbe giustifica se colpisce il colpevole, ma come la si può accettare quando è patita dall’innocente? Ma proprio affidare all’innocente la salvezza dell’umanità è al centro della sensibilità cristiana. Perché se la si patisce, la sofferenza, è tanto più di valore quanto più chi la patisce è innocente. Quindi non è una pena, né un risarcimento, ma la partecipazione al male oscure di cui è impastata l’esistenza. Infatti il male crea un’onda che colpisce ovunque, ed è quel bambino che, sofferente, patisce/subisce le conseguenze del mio agire malefico. E ciò in quanto c’è una profonda ed inalienabile interazione tra gli essere umani. L’ateismo tragico trova il suo fondamento in una visione cosmogonica in cui il male è fatto espiare agli uomini, come punizione calato dall’alto.  Cosicché costituisce una terribile ingiustizia quando colpisce l’innocente. “Perché proprio mio figlio deve patire questa sofferenza, questa menomazione, così piccolo e così innocente?” si domanda angosciata e ferita al cuore la madre del bambino malato. Tanto più tremenda è la malattia tanto più appare ingiusta. Ma il problema non è la malattia come castigo o conseguenza di una vita sbagliata, il problema è la presenza del dolore e di ciò che ne vogliamo fare. Fuggirlo finché è possibile? Ma esso è così intimo alla vita che prima o poi ce lo troviamo dinanzi, spavaldo, potente,  deciso a non  venire a patti. La situazione terribile del dolore non è attenuata dall’idea che è un castigo degli dei. L’unica via è quella di considerare il dolore come parte integrante della vita, di considerarlo come l’interlocutore più acuto ed intelligente per la nostra anima. Il dolore Sà quali paure albergano dentro di me, il dolore Sà quali debolezze, quali miserie si muovono e tengono prigioniera la mia anima. Non è un’esperienza muta, ma un’esperienza che edifica, che trasforma. Questo processo potente di mutazione e di trasfigurazione non solo agisce su chi patisce direttamente il dolore, ma anche su coloro che  amano e quindi patiscono con colui che si trova nel dolore. Il tema pittorico denominato “il compianto sul Cristo morto”,  non mette in scena solo la sofferenza del cordoglio, ma una partecipazione intima scoperta attraverso  la potenza del dolore, ma mutata dalla potenza più profonda e trasmormativa dell’amore. Questa convergenza di uno sull’altro, è potente, tanto da ridurre al minimo le barriere delle monadi in cui ciascuno si è chiuso. Il dolore li convoca a prendersi cura l’uno dell’altro, a sviluppare quel linguaggio attraverso cui si esprime l’atto della comunione nella sofferenza, tale da creare tra i due, e con i due, una cosa sola.  “Come tu Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola.”[1]       Ed è qui che il dolore riceve la sua sconfitta: da agente distruttore che scinde la struttura dell’essere, a esperienza sintetica che la glorifica. Questa convergenza, allora,  racchiude in sé il movente e la gestualità della comunione d’amore, dell’azione che promuove la Sintesi dell’essere. Perché nell’ora della passione, il mondo converge su se stesso in un tale atto di raccoglimento da modificare la struttura intima della materia e liberarla dal male oscuro che la annichiliva.   


[1] Giovanni 17,21

BY: Irene Barbruni

La timidezza è un valore o un non-valore?
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La timidezza è un tratto caratteriale che riguarda l’eccessiva paura del giudizio dell’altro, senzazioni di inadeguatezza che si tramutano in difficoltà nell’interazione sociale. Più profondamente, è un sentimento di pudore, cioè il timore di essere visti nell’intimo di se stessi. Questo tipo di sentimento non deve essere confuso con la bassa autostima o con l’evitamento delle situazioni sociali (o fobia sociale) o l’introversione. Anche se in alcuni casi queste tre situazioni possono essere co-presenti. Molte persone di potere e di successo hanno un tratto di personalità timido e ciò testimonia che non è sempre presente una bassa autostima. Inoltre, il fatto di aver timore del giudizio dell’altro non vuol dire necessariamente essere introverso, ossia essere chiuso nel proprio mondo interiore. Infatti chi è timido si trova spesso da solo perché evita le situazioni sociali che lo mettono a disagio, ma vorrebbe in realtà condividere maggiormente con gli altri la propria vita. Invece, chi è introverso predilige attività che può fare da solo. A volte però non è così facile comprendere quanto la scelta di stare da soli sia dovuta ad un reale bisogno di stare con se stessi, oppure da una paura del giudizio dell’altro.

Spesso la timidezza si osserva nel periodo infantile e adolescenziale dove ci si aspetta una maggiore propensione al contatto con l’altro. Bisogna considerare che nemmeno un’eccessiva estroversione verso il mondo esterno e relazionale è ottimale per lo sviluppo della personalità. Questo perché per uno sviluppo armonico delle nostre possibilità di evoluzione, dobbiamo nutrirci sia di contatto con il mondo esterno che con il mondo interiore. Certo la persona timida è eccessivamente preoccupata di ciò che accade dentro se stesso, ma nello stesso tempo coltiva una sensibilità verso il proprio mondo emotivo e relazionale. Ecco che nel momento in cui la persona con carattere timido si accorge che la sua sensibilità lo rende un amico, un compagno che gli altri cercano proprio perché è in grado di cogliere con maggior profondità l’altro, acquisirà quella giusta sicurezza per non evitare il contatto con l’altro. Molti bambini timidi che riescono ad affrontare il timore, accettando la loro natura, diventano adulti con particolare sensibilità.

Quindi, per rispondere alla domanda iniziale “la timidezza è un valore o un non valore?”. Sicuramente si parte da un’accettazione di un lato che non può e non deve essere giudicato come negativo e successivamente affrontare il disagio che diventerà meno prepotente e lascerà maggior spazio di scelta e una maggior espressione di se stessi. Quindi il sentimento di timidezza o di pudore, indica un tipo di personalità particolarmente riflessivo dove la ricerca del proprio valore soggettivo è posto al centro.

BY: Irene Barbruni

La compassione: sentimento che unisce il micro ed il macro cosmo
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Gli studi sul tema della compassione sono notevolmente aumentati negli ultimi anni.

Davidson ha scoperto che c’è differenza tra empatia e compassione e dalle sue ricerche emerge che i circuiti neurologici che portano all’empatia e alla compassione sono diversi, e la gentilezza fa parte del circuito della compassione. Inoltre dagli studi di questo ricercatore confermano che la gentilezza e la tenerezza si possono allenare a qualsiasi età e che, nei bambini e negli adolescenti, portano un sostanziale miglioramenti dei risultati scolastici, del benessere emotivo e della salute.

Ad oggi esistono diversi interventi, empiricamente supportati, centrati sullo sviluppo della compassione (per esempio la Terapia Focalizzata sulla Compassione, la Mindful Self-Compassion, Meditazione su compassione e amorevolezza).

Il training alla compassione stimola il rilascio di agenti come la dopaminae leendorfine che sembrano in grado di mediare la gratificazione e la motivazione, di ridurre lo stress sul lavoro e prevenire il rischio di burnout, che minaccia proprio quegli operatori della salute più coinvolti e più capaci di empatia. Inoltre, anche se non vi sono studi specifici sugli effetti di interventi terapeutici basati sulla compassione nelle problematiche legate alle dipendenze, dal punto di vista teorico lo sviluppo della compassione può essere un antidoto efficace contro alcune caratteristiche della persona dipendente come: mancanza di empatia, di rapporti compassionevoli, di autocritica e sensi di colpa.

Per fare chiarezza è bene precisare che non è la cognizione a fondamento della compassione, ma il sentimento di compassione che fonda un modo diverso di cognizione. Quindi non prima la percezione e poi il sentimento, ma il contrario: prima il sentimento che veicola la cognizione. La storia dell’uomo ci dice chiaramente di come il sentimento della compassione o sentinento di pietà, sia stato alla base dell’evoluzione etica e sociale delle comunità umane. Basti pensare a quando l’uomo, cacciatore spietato, uccide per portare alla propria comunità la sua preda; ad un certo punto ha cominciato a provare pietà, compassione per la sua vittima. Come fare? Da un parte il bisogno di nutrisi e dall’altra la pietà per la vittima. É in questo conflitto, in questo disagio psicologico ed esistenziale, che sorgono i primi riti religiosi: di offerta dell’animale agli dei, o di rispetto per l’animale ucciso che sviluppa il rispetto per la natura. Gli indiani d’America rispettavano il bisonte, che pure cacciavano per nutrirsene. Il rispetto per l’animale portava quel cacciatore a pensare che la sua vita avrebbe dovuto essere degna di tale sacrificio. Finchè permaneva questo equilibrio tra bisogno e compassione, l’uomo stava dentro un rapporto di ecologia verso la natura. Poi mano a mano che l’interesse, l’avidità hanno ridotto il sentimento della compassione siamo giunti al punto di oggi con un pianeta ormai all’estremo, violentato e deturpato. Se fosse la cognizione a guidare il comportamento, avremmo già cambiato politica e stile di vita, perché la cognizione che il pianeta sia in un punto cruciale l’abbiamo. Ciò che manca è la compassione, la pietà verso il nostro mondo.  

Il sentimento della compassione porta in sé un’intuizione archetipica, cioè il sentimento della comunione tra gli esseri. L’unione tra  micro e macro cosmo, il finito e l’infinito sono tutt’uno; la creatura è parte integrante del creatro, ed il creato è la promanazione della creatura. Da cui l’intuizione dell’amore: siamo tutti fratelli. Non è quindi il cervello, le connessioni neurologiche che ci portano ad un tale visione/sentimento, ma proprio il sentimento quale dimensione che trascendente lo stesso cervello ad indicarci la via dell’amore.

L’atto della compassione è ben descritto nei versi tratti dal Profeta di Gibran:

E quando addenterete una mela, ditele nel vostro intimo:

“I tuoi semi continueranno a vivere nel mio corpo,

ed i germogli del tuo futuro sbocceranno nel mio cuore:

e la tua fragranza sarà il mio respiro,

ed insieme gioiremo per l’eternità”

Proprio anche il gesto della compassione verso l’umile frutto contribuisce a schiudere al nostro cuore la consapevolezza di essere parte di un cosmo palpitante d’amore.

BY: Irene Barbruni

Lo sviluppo cognitivo del bambino
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Dagli studi di diversi autori, il primo tra i quali Jean Piaget, sappiamo che l’intelligenza del bambino ha una base innata, ma che ciò che riceve dall’esterno è altrettanto importante e fondamentale per il suo sviluppo. In altre parole, l’intelligenza deve essere stimolata con agenti esterni che permettono di tirar fuori le potenzialità. Nonostante le ricerche degli ultimi anni possano essere contrastanti, sembra chiaro che il livello di intelligenza dei bambini sia molto legato a condizioni ambientali, oltre che genetiche. Quindi l’ambiente che circonda i bambini (l’educazione ricevuta, ma anche l’alimentazione) è fondamentale per lo sviluppo delle capacità del fanciullo.  

Vediamo quali sono le attività che vanno svolte quotidianamente e che aiutano lo sviluppo delle capacità, non solo cognitive ma anche relazionali.

Prima di tutto è bene non eccedere nella troppa stimolazione del bambino, per la preoccupazione di non farlo annoiare, in quanto un eccesso di stimoli non aiuta la capacità di concentrarsi la quale  è fondamentale per l’apprendimento. Ogni gioco proposto deve essere seguito da un vuoto, un momento di noia, che è necessario per lo sviluppo delle capacità creative e riflessive. Nel senso che il bambino deve imparare a reggere i momenti di vuoto, per non sviluppare la dipendenza dall’agire costante. Questo aspetto costituisce un grosso problema per la pedagogia, in quanto la cultura contemporanea tende ad ingombrare la vita del bambino con costanti stimoli.

Sicuramente il gioco libero è fondamentale e quelli più semplici e meno strutturati sono i più adatti al fine di stimolare la creatività nel bambino; spesso basta un oggetto di uso quotidiano. Fondamentale per lo sviluppo delle capacità di immedesimarsi nell’altro e di riconoscere emozioni e sentimenti, sono i giochi simbolici e di finzione. Queste esperienze ludiche aiutano l’evoluzione della sensibilità empatica: imparare a sentire ciò che sente l’altro. Questo aspetto è fondamentale per entrare nella dimensione della relazione di reciprocità, che inaugura la sensibilità etica. Non c’è vero sviluppo cognitivo senza l’evoluzione relazionale ed etica.

A questo scopo sono importati tutte quelle attività che vanno introdotte dal genitore:  la lettura o il racconto di storie (importanti per poter introdurre sentimenti e vissuti senza coinvolgere direttamente il bambino),  giochi che stimolano la gestione dello spazio (puzzle, disegni, costruzioni, ritagliare ed incollare), filastrocche e canzoncine (che arrichiscono il vocabolario stimolando contemporaneamente il gusto per l’armonia).

Molti studiosi tra i quali Edward Dutton, ricercatore presso l’IUlster Institute for Social Research (Regno Unito), hanno approfondito il cosiddetto “effetto Flynn negativo”. Fino a metà degli anni novanta il quoziente intellettivo è aumentato tra le nuove generazioni ma, da quel momento, è iniziato a diminuire. Secondo uno studio norvegese, eseguito da Bernt Bratsberg e Ole Rogeberg, che ha confermato questa diminuzione del QI, i motivi sarebbero ambientali e causati, ad esempio, da un peggior sistema scolastico e al troppo utilizzo delle nuove tecnologie.

Oggi infatti basta l’utilizzo di un dito per svolgere più funzioni, quindi è richiesta un tipo di operazione molto semplice, sia dal punto di vista motorio che cognitivo. L’interazione con queste tecnologie per i bambini è quasi naturale e diventa la modalità preferita poichè più immediata, meno faticosa, ma molto coinvolgente dal punto di vista del risultato (luci, colori, musiche). Ma, dato che l’utilizzo di questa tecnologia non richiede né sforzo fisico, né mentale, il risultato è un rallentamento nella capacità cognitivo/intellettuali. In altre parole, il bambino non impara a formulare un discorso legato al mondo che lo circonda. In questo senso gli studi sopra citati hanno evidenziato un abbassamento dell’intelligenza. É ulteriore prova il fatto che i programmi scolastici oggi, hanno subito un abbassamento di livello.

Quindi diventa fondamentale evitare, soprattutto in tenera età, l’utilizzo dei mezzi tecnologici. Nel momento in cui si introducono tali strumenti è bene non lasciare il bambino solo davanti al mezzo, ma utilizzare delle app adatte all’età guidate sempre dall’adulto e comunque in tempi ristretti.

BY: Irene Barbruni

Eco e Narciso: quando il rapporto di coppia logora fino all’annullamento di sè
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Il mito di Eco e Narciso ci aiuta a descrivere e riflettere su un tipo di rapporto di coppia che può presentarsi nella nostra vita. Il fatto di riconoscere alcune dinamiche psicologiche può determinare una maggior coscienza di noi stessi e di conseguenza una maggiore capacità di fare scelte più consapevoli. Certo non possiamo scegliere la persona di cui innamorarci, ma possiamo e dobbiamo riflettere sul tipo di rapporto che si sta instaurando per allontanarci da ciò che può diventare nocivo per la nostra persona.

Il mito di Eco e Narciso racconta la storia di due personaggi. Da una parte abbiamo Eco una ninfa che, innamorata di Narciso, finisce per fondersi con la montagna sulla quale trova rifugio rimanendo solo una voce, l’eco appunto. Dall’altra abbiamo Narciso talmente preso da se stesso da non riconosce l’amore di Eco; egli si innamora della propria immagine riflessa sull’acqua di un lago nel quale cade venendo inghiottito dall’acqua. Eco rappresenta una personalità che si annula nel rapporto con la persona amata. Narciso, al contrario, è talmente preso da se stesso da essere incapace di entrare in rapporto con l’altro. Egli non riconosce nemmeno l’amore di Eco nei suoi confronti. Tale condizione diventa una vera e propria patologia chiamata appunto Disturbo Narcisistico di Personalità. Una personalità che si sente superiore agli altri e vive i rapporti personali sfruttando l’altro, senza essere in grado di riconoscere i sentimenti e le necessità degli altri.

Non sempre putroppo queste due situazioni estreme sono ben visibili da chi le vive perché, come nel caso di Eco, un certo grado di “annullamento” di sé fa parte del rapporto di coppia, così come spesso il narcisista può apparire come una personalità forte, in quanto sicura di sé. Ciò che ci può aiutare è la percezione della “misura” del benessere/malessere che il rapporto di coppia ci porta. Esso dovrebbe avvicinarsi il più possibile ad un being-love, come lo definisce Marslow, ossia un amore per l’Essere. Quindi, un tipo di rapporto in cui la persona non crea turbamento o angoscia, e il sentirsi degno dell’amore spinge entrambi a crescere. L’amore diventa quindi un fine, inesauribile, e non un mezzo.

Anche in uno dei racconti di Edgar Allan Poe, Il ritratto ovale, troviamo una metafora analoga a Eco e Narciso o meglio troviamo lo stesso archetipo di fondo. Il racconto narra di un pittore più innamorato della sua arte che della sua donna. La quale si lascia convincere a fare da modella all’arte del marito. Mano a mano che lui si infervorisce per il quadro che sta dipingendo, lei lentamente deperisce fino a morire.  É una descrizione tragica di un uomo che  non da’ voce alla parte di se stesso capace di entrare in rapporto con la propria donna. Ma oltre a ciò è rappresentato il tratto “vampiresco” di certi rapporti, dove uno si nutre della realtà profonda dell’altro fino a fare scomparire la sua realtà soggettiva.  Se non si coltiva la RELAZIONE si finisce per implodere nel proprio mondo personalistico, decretando la fine dell’esperienza dell’amore. Un tratto questo solitamente maschile poiché la donna è culturalmente e socialmente più portata ad essere attenta alle esigenze dell’uomo, che invece tende ad essere meno disposto ad uscire dai proprio bisogni. É importante che nel rapproto di coppia i due siano attenti alle rispettive esigenze psicologiche, esistenziali e spirituali. Avere cura delle reciproche necessità rende fecondo il dialogo e mai sazio; perché proprio l’interagire dei due tra di loro allontana quel senso di noia che tante volte avvolge la relazione, quando questa rimane chiusa dai rispettivi “narcisismi”. E quell’esperienza di noia induce a cercare fuori da quel rapporto qualcosa che stimoli, che ecciti e che gratifichi. L’insorgere del sentimento della noia va interpretato come un campanello d’allarme, che ci dice che dobbiamo procedere allo sviluppo delle capacità relazionali. 

BY: Irene Barbruni

Promuovere la maturazione della nostra personalità per trovare benessere interiore
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L’essere umano è molto complesso ed è difficile descriverlo esaustivamente. In psicologia le varie correnti di pensiero hanno tentato di definirlo attraverso il concetto di personalità. Possiamo distinguere tre grandi correnti di pensiero: il behaviorismo, la psicoanalisi e la psicologia umanistica. Proprio dai concetti presi da quest’ultima corrente prendo spunto per riflettere su come possiamo lavorare per promuovere al meglio le nostre possibilità di evoluzione. Quest’ultima corrente ci può aiutare in quanto sposa un approccio olistico dell’uomo e ha un carattere volutamente ecclettico che, a mio giudizio, può meglio cogliere la complessità dell’uomo.

Possiamo distinguere due punti importanti di osservazione di sé, che alla fin fine sono due facce della stessa medaglia: uno è il rapporto con sé stessi e l’altro è il rapporto con gli altri.

Cercare di scoprire il nostro modo di vivere i rapporti può essere un modo per capire a che punto siamo della nostra evoluzione. Possiamo distinguere due tipi di modi di relazionarsi: ciò che ci lega all’altro è il bisogno dell’altro oppure ciò che ci lega all’altro è scollegato da ciò che l’altro ci dà. Per esempio il bambino è preso inizialmente dai bisogni immediati, successivamente cambia il rapporto con gli altri che si basa, o dovrebbe basarsi, sempre meno sul bisogno dell’altro. Quindi, ciò a cui si deve tendere è un rapporto con l’altro non basato sulla soddisfazione delle nostre carenze, ma sulla innata vocazione ad incontrare su un piano più elevato l’altra persona.

Chiaramente se un individuo nel rapporto con se stesso promuove i suoi ideali e il senso di completezza di sé avrà una modalità di entrare in contatto con gli altri diversa da chi è maggiormente legato ai  piaceri immediati. Il modo di rapportarsi a se stessi diviene il modello del modo di rapportarsi all’altro. Se una persona priviligia gli aspetti emozionali che sorgono verso il piacere ed il godimento della vita, interpreterà il rapporto con gli altri nello stesso modo. Allora sarà un rapportarsi strumentale non certo un modo attraverso cui esprimere l’esigenza della propria evoluzione personale e relazione.

Tanti rapporti rimango immaturi in quanto rimangono immature le persone che li vivono. E questo immaturità permane in quanto non ci si adopera per sviluppare le parti più alte della personalità che riguardano la sfera etica. Un bambino evolve se riesce a contenere la sua esigenza del giocare quando la madre ha necessità di un suo contributo per una certa mansione. E qui si svolge la maturazione etica che poi è la maturazione verso la capacità relazionale e sociale. Alrimenti l’individuo rimane chiuso nella sua sfera di esigenze emotive e sviluppa una modalità che possimo ben chiamare autismo esistenziale; ossia chiusura alle esigenze dell’altro, incapacità di cogliere le esigenzenze dell’altro.

La persona matura, non percependo l’altro da un punto di vista interessato, assume più facilmente un atteggiamento di non-valutazione e di non giudizio o condanna dell’altro. Anche la relazione d’amore più matura si evidenzia nel momento in cui il rapporto con l’altro diventa un fine e non un mezzo.

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